In Italia si continua a cercare poco le varianti del coronavirus

Sequenziamo molti meno tamponi di quanti dovremmo, perciò abbiamo un'idea più vaga di quanto sia diffusa la variante “delta”

(Sean Gallup/Getty Images)
(Sean Gallup/Getty Images)
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Negli ultimi giorni nel Regno Unito sono tornati ad aumentare i contagi da coronavirus dopo che per mesi c’era stato un calo evidente per effetto delle restrizioni prima e della campagna vaccinale poi: gli esperti inglesi dicono che questa crescita è dovuta principalmente alla variante B.1.617.2 del coronavirus, derivata dalla variante delta (o indiana, secondo la vecchia nomenclatura) che ha provocato la grave ondata di COVID-19 che ha interessato l’India tra aprile e maggio. Le autorità sanitarie la considerano una variante “preoccupante” perché dagli studi è emersa la sua capacità di diffondersi più velocemente rispetto alla versione iniziale del coronavirus.

È stato possibile notare questa caratteristica grazie al sequenziamento genomico, un’analisi approfondita sul materiale genetico del virus: nel Regno Unito l’attività di sequenziamento è massiccia e costante, ma in Italia vengono sequenziati ancora pochi campioni derivati dai prelievi con tampone, quasi quindici volte in meno.

La percentuale di tamponi analizzati in questo modo è inferiore rispetto agli standard stabiliti dalle autorità sanitarie europee, cosa che peraltro succede anche negli altri paesi come Francia e Germania. Significa che abbiamo un’idea soltanto parziale di quanto siano diffuse la variante indiana e le altre varianti del coronavirus in Italia, con conseguenze gravi sul suo monitoraggio e sullo studio dei suoi effetti, in particolare in relazione ai vaccini autorizzati.

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“Sequenziare” significa analizzare un campione per rilevare le caratteristiche del materiale genetico del virus, informazioni che mostrano come riesce a entrare nell’organismo e sfruttare le cellule per replicarsi. Il coronavirus è in circolazione da oltre un anno e mezzo e nel corso di questo periodo di tempo ha subìto molte mutazioni, anche perché è cambiato il suo “ambiente”, cioè le persone: fino allo scorso anno si era trovato di fronte milioni di individui con sistemi immunitari scarsamente preparati per contrastarlo, oggi invece una parte considerevole della popolazione è già stata infettata o vaccinata. Lo scopo primario della sorveglianza genomica è capire se il virus si stia adattando all’ambiente e come lo stia facendo.

Il sequenziamento analizza il genoma, che semplificando può essere considerato una lunga catena di lettere formata da quattro nucleotidi, molecole organiche che compongono l’RNA. Il coronavirus SARS-CoV-2 ha circa trentamila “lettere”, e ciascuna è un elemento che serve al virus per funzionare: per infettare e riprodursi. Ci sono alcune parti di questi elementi che devono essere analizzate con attenzione, come quelle associate alla proteina “spike”, utilizzata dal coronavirus per eludere le difese delle cellule. Questo pezzo del genoma è interessato da forze evolutive contrastanti: il coronavirus deve continuare a riconoscere questi recettori, ma allo stesso tempo ha la necessità di diventare sempre più efficiente per adattarsi al nuovo ambiente.

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Il sequenziamento viene eseguito in una fase successiva alla rilevazione della presenza del materiale genetico del virus, tramite il tampone che serve solo per accertare la positività. Un campione dei tamponi positivi viene inviato nei laboratori specializzati, in Italia prevalentemente gli istituti regionali di zooprofilassi, dove viene ricostruita la sequenza genomica del virus per rilevarne tutte le caratteristiche, soprattutto se appartiene a una variante già nota o non ancora rilevata in altri paesi. Tra le altre cose, si può capire come il virus stia mutando in una forma preoccupante o più rischiosa.

Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha stabilito che ogni paese deve riuscire a sequenziare almeno il 5 per cento dei casi rilevati ogni giorno con i test diagnostici. Secondo gli ultimi dati pubblicati da GISAID, il principale portale per la condivisione dei dati genomici, dal 10 gennaio 2020 l’Italia ha sequenziato il virus dallo 0,7 per cento dei tamponi positivi: 30.808 su 4,2 milioni di casi riportati. Se si restringe il periodo agli ultimi quattro tre mesi la percentuale è più alta, 1,45 per cento, ma sempre inferiore alla soglia stabilita dall’ECDC.

Nel Regno Unito è stato esaminato il 9,7 per cento dei tamponi totali: 444mila sequenziamenti condivisi sui 4,5 milioni di casi trovati. Questa attività viene svolta soprattutto grazie al COVID-19 Genomics UK Consortium (COG-UG), una collaborazione tra le principali università del paese e centri di ricerca, finanziato con 20 milioni di sterline (quasi 23 milioni di euro) con fondi pubblici e risorse fornite dalla fondazione Wellcome Trust. Anche molti altri paesi europei, come l’Italia, non raggiungono il 5 per cento: in Germania 3,4%, Paesi Bassi 2,2%, Spagna 0,8%, Francia 0,7%.

«Inizialmente le linee guida dell’ECDC sono state seguite soprattutto dal Regno Unito: è per questo che è stata trovata la variante inglese», spiegano Matteo Chiara e Federico Zambelli, bioinformatici dell’università di Milano e dell’IBIOM, l’Istituto di Biomembrane, Bioenergetica e Biotecnologie Molecolari. «Esaminando i primi campioni di quella variante è stato ipotizzato che riuscisse a diffondersi più velocemente. Queste analisi sono state pubblicate con una serie di anticipazioni, senza i consueti tempi tecnici, affinché chiunque potesse vederle. La condivisione dei dati in tempi rapidi è essenziale: più i dati sono vecchi e meno sono utili».

Chiara e Zambelli sono due dei tanti esperti italiani che lavorano al COVID-19 Data Portal, un portale che mette in evidenza i dati scientifici prodotti dalla ricerca italiana sul coronavirus con l’obiettivo di diffondere e promuovere la cultura open data e open science nella ricerca biomedica italiana. COVID-19 Data Portal è gestito da una rete di università ed enti di ricerca che fanno parte di Elixir, un’organizzazione intergovernativa che condivide risorse bioinformatiche in tutta Europa e di cui fa parte anche l’Istituto superiore di sanità.

Il coordinatore del COVID-19 Data Portal è Marco Carraro, project manager dell’università di Padova. «Il portale punta a essere il punto di riferimento della comunità di ricerca italiana su COVID-19 illustrando ai ricercatori le più aggiornate linee guida per condividere i risultati il loro lavoro: quali sono le risorse di riferimento dove caricare i dati, quali sono le informazioni da pubblicare per rendere i questi dati utili a tutti», dice Carraro. «Nel contesto della pandemia siamo stati piuttosto fortunati perché da anni la comunità scientifica stava lavorando a strumenti e standard per la condivisione dei dati e questo lungo lavoro è stato fondamentale».

Nonostante le buone pratiche diffuse dal COVID-19 Data Portal, in Italia non è semplice capire quanti dati vengono prodotti, perché l’organizzazione è affidata alle singole regioni ed è ancora piuttosto confusa. Non si può dire che manchino le risorse per sequenziare: ci sono molti laboratori che hanno la strumentazione necessaria e che potrebbero analizzare molti tamponi ogni giorno.

Ma come già avvenuto in più occasioni durante l’emergenza dello scorso anno, anche nella sorveglianza genomica emergono tutti i limiti dovuti all’autonomia sanitaria regionale. Ogni regione ha un solo laboratorio di riferimento a cui vengono inviati i tamponi per i sequenziamenti e non c’è una procedura condivisa tra tutte le regioni. Questo causa una certa disomogeneità: le regioni che condividono più dati sono la Campania, l’Abruzzo e l’Umbria, mentre si hanno pochi dati dalla Lombardia e dal Piemonte.

(AP Photo/Frank Augstein)

Alla fine di gennaio, quando iniziarono a circolare timori più documentati sulle caratteristiche della variante inglese, il ministero della Salute annunciò la creazione di una rete di monitoraggio per la sorveglianza genomica, il “Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di SARS-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione”. L’obiettivo era «fornire su larga scala e rapidamente le sequenze del genoma SARS-CoV-2 circolanti in Italia, permettendo all’Istituto Superiore di Sanità di monitorare l’evoluzione genetica del virus e la durata dell’immunità indotta dai vaccini».

Nell’ultimo aggiornamento del bollettino di prevalenza sulle varianti, pubblicato venerdì 11 giugno, l’ISS ha annunciato di aver creato una piattaforma chiamata I-Co-Gen (Italian-COVID19-genomic), attiva dal 29 aprile 2021 e basata su un’infrastruttura collaborativa per la raccolta, analisi e condivisione dei dati di sequenziamento genomico nazionale. Al 6 giugno risultano accreditati al caricamento e alla visualizzazione dei dati 50 utenti da 44 strutture sul territorio. Al momento sulla piattaforma sono state caricate 3.088 sequenze.

Nello stesso bollettino, l’ISS ha confermato i risultati dell’indagine rapida sulla prevalenza delle varianti con i dati risalenti al 18 maggio e spiegati dal presidente dell’ISS Silvio Brusaferro durante la conferenza stampa di venerdì pomeriggio sull’andamento epidemiologico: «C’è una grande circolazione della variante alfa, la vecchia variante inglese (all’88.1%, ndr). Circola abbastanza anche la variante brasiliana. Fortunatamente in questo momento la variante delta, quella che preoccupa tutti noi, è contenuta sotto l’1 per cento come la cosiddetta nigeriana».

Nel bollettino è stato anche chiarito che «i dati analizzati sono in continua fase di aggiornamento. Pertanto le segnalazioni delle varianti, soprattutto quelle dell’ultimo mese, devono essere sempre interpretate come provvisorie, con cautela, in quanto possono subire variazioni o essere ulteriormente integrate con report successivi. L’assenza o un numero relativamente basso di casi genotipizzati riportati può essere dovuto sia ad una minore percentuale di casi genotipizzati che ad una mancata segnalazione nel sistema di sorveglianza integrata nazionale COVID-19 da parte della Regione».

L’ISS aveva annunciato che questo bollettino sarebbe stato pubblicato ogni quindici giorni, ma al momento queste tempistiche non sono state rispettate. Secondo molti ricercatori sentiti dal Post, servirebbero tempi di aggiornamento più rapidi e linee guida più chiare perché al momento tutto dipende dalle regole che si sono date le singole regioni e dalla sensibilità dei livelli decisionali all’interno delle autorità sanitarie. Alessandro Vespignani, professore alla Northeastern University di Boston specializzato in epidemiologia e direttore del Network Science Institute, ha definito la mancanza di dati sul sequenziamento una “navigazione al buio”. «Il lavoro di tecnici, scienziati e unità di crisi è di capire quale impatto ogni variante possa esercitare sulle traiettorie future dell’epidemia. Questo non è allarmismo, ma prevenzione e preparazione alle prossime settimane e mesi nel modo migliore».

La sorveglianza genomica sul coronavirus non è utile solo per prevenire gli effetti di nuove varianti del coronavirus: nell’ultimo anno e mezzo è stata prodotta una notevole quantità di dati e ci si è concentrati soprattutto su alcuni pezzi del genoma del virus. Continuare questo lavoro di analisi, anche su altre parti del genoma, consentirà di capire anche altre proprietà del virus e in particolare come si comporta quando infetta un individuo, indagando caratteristiche che potranno essere utili nel caso di eventuali nuovi coronavirus.