Non siamo bravi a scovare le bugie

Gli approcci e i metodi che abbiamo usato storicamente sono sempre più contestati, e il problema è che siamo piuttosto abili a mentire

(Maja Hitij/Getty Images)
(Maja Hitij/Getty Images)
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Gli esseri umani, in genere, sono bravissimi a mentire. O quantomeno sembra che spesso riescano a cavarsela mentendo, anche perché ancora non esiste un modo efficace per rilevare le bugie. È stato più volte dimostrato, infatti, che non esistono macchine della verità davvero affidabili e che non tutte le ammissioni di colpa – nemmeno tra quelle ottenute senza uso di violenza – possono essere prese per buone. E che quindi capita che ci siano bugiardi e colpevoli che se la cavano, mentre sinceri e innocenti finiscono a volte per confessare colpe o reati che non hanno commesso.

Come ha scritto su Knowable Magazine la giornalista Jessica Seigel in un apprezzato e più volte ripreso articolo intitolato “La verità sulle bugie” il problema è che, fin qui, si è spesso fatto caso alle cose sbagliate, per scovarle.

A voler semplificare un po’, si può dire che – senza considerare tortura, violenza, ricatto o coercizione – le strade principali per provare a capire se e quando qualcuno sta mentendo sono state storicamente due. Una basata sull’uso di strumenti e sull’analisi di fenomeni fisiologici come le pulsazioni cardiache, la respirazione o la pressione sanguigna. E un’altra che si è concentrata sull’individuazione e l’osservazione di certi tratti comportamentali o del “linguaggio del corpo” in grado di segnalare il probabile verificarsi di una bugia.

La prima strada portò alla creazione e al perfezionamento dei poligrafi, anche noti – in modo improprio, vista la loro inefficacia e fallacia – come “macchine della verità”. I primi modelli furono sviluppati a inizio Novecento, tra gli altri dallo psicologo italiano Vittorio Benussi. Negli anni si perfezionarono e finirono anche per essere usati con una certa frequenza in alcuni paesi (ma mai in Italia) e nella loro essenza sono sempre state macchine piuttosto semplici: in pratica delle scatole con fili ed elettrodi che, una volta attaccati al soggetto, misurano una serie di dati e valori fisiologici considerati utili per dedurre se quel soggetto sta dicendo il vero o il falso.

La seconda strada ha portato allo sviluppo di una serie di teorie e credenze secondo cui chi mente tende in genere a fare, pur senza accorgersene, tutta una serie di gesti, e ad avere tutta una serie di movimenti e atteggiamenti anche involontari. Qualche esempio: distogliere lo sguardo dall’interlocutore, mostrare eccessivo distacco, giocherellare con le mani, cambiare spesso posizione o sorridere involontariamente sono possibili indicatori del fatto che qualcuno potrebbe essere intento a mentire.

Nonostante in certi casi e in certi paesi continuino a essere usati, è ormai piuttosto chiaro che i poligrafi non offrono risultati sufficientemente attendibili, di certo non in contesti complessi come potrebbero essere le indagini su un reato. Se infatti sembrano poter funzionare in parte in contesti sperimentali, la loro efficacia diventa assai discutibile in situazioni più complesse, in cui il soggetto controllato percepisce il chiaro rischio delle conseguenze a cui potrebbe andare incontro.

(AP Photo/Edward Kitch)

Anzitutto perché misurano l’ansia e la preoccupazione di una persona di fronte alle domande, supponendo che possa essere un segnale quasi inequivocabile di una bugia. Ma, come ha sintetizzato la ricercatrice e psicologa Cody Porter, molti viaggiatori possono identificarsi con quella piccola o grande ansia che viene, per esempio in aeroporto, quando si viene perquisiti o fermati ai controlli di sicurezza, pur sapendo di essere innocenti e di aver rispettato ogni regola.

C’è poi il fatto che i risultati delle “macchine della verità” dipendono dall’addetto che le controlla e che fa le domande, con tutti i possibili pregiudizi che possono alterare il risultato. Per di più, non ci sono dubbi sul fatto che, conoscendone il funzionamento e avendo un buon controllo di sé, un essere umano possa battere un poligrafo; e che, al contrario, qualcuno possa subirne la presenza con meccanismi per certi versi simili a quelli della ipertensione da camice bianco, cioè quella dinamica che può innescarsi in certi soggetti in presenza per esempio di un medico, e che altera per via dell’emozione alcuni valori come la pressione sanguigna.

– Leggi anche: Come ingannare la macchina della verità

Seigel apre il suo articolo con due semplici esempi per mettere in discussione le teorie secondo cui, anche senza poligrafo, basta guardare e ascoltare qualcuno per capire se sta mentendo. Il primo è quello di un ragazzo condannato per omicidio, tra le altre cose perché nell’interrogatorio sembrava essere troppo calmo, e il secondo riguarda un altro ragazzo, quasi coetaneo, condannato tra le altre cose perché nell’interrogatorio sembrava essere troppo sconvolto e desideroso di aiutare gli investigatori. «Com’è possibile» chiede Seigel «che questi due estremi possano essere entrambi considerati segnali di colpevolezza?».

Ovviamente non lo sono. Tra l’altro i due ragazzi presi ad esempio furono entrambi scagionati da prove emerse successivamente alle loro condanne. Seigel parla di un «pervasivo fraintendimento» riguardo al fatto che «si possa individuare un bugiardo da come si comporta». Un fraintendimento tra le altre cose sostenuto da tutta una serie di libri, convincimenti e discorsi (per esempio Ted Talk visti da milioni di spettatori), ma che spesso stanno da qualche parte a metà tra la pseudoscienza e la credenza popolare. E che in molti casi si basano sull’analisi di bugie ex post, cioè sul confronto tra una bugia (per esempio quella del ciclista Lance Armstrong quando sosteneva di non essersi dopato) con una verità (la confessione di Armstrong sul suo essersi dopato).


«Nonostante decenni di ricerche» scrive Seigel, «i ricercatori hanno trovato pochissime evidenze per confermare queste credenze». Una di loro, la ricercatrice Maria Harthwig, autrice di un recente studio sugli atteggiamenti non verbali associati alla menzogna, ha detto: «uno dei principali problemi in cui ci si imbatte trattando questo argomento, è che tutti pensano di sapere come funzionano le bugie».

Eppure già nel 2003 fu pubblicato un articolo accademico che riprendeva 116 esperimenti sul tema e che arrivò a elencare un totale di oltre cento possibili indizi non verbali citati e considerati in questo genere di argomentazioni, alcuni dei quali erano uno l’opposto dell’altro. Nessuno sembrava poter essere davvero determinante, e gli unici che sembravano almeno un po’ correlati alle menzogne erano le pupille leggermente dilatate e un leggero aumento nel tono di voce, così leggero da essere quasi impercettibile (il tono di voce è considerato un indizio non verbale perché non ha a che fare con la scelta delle parole usate, ma appunto con il modo in cui vengono pronunciate).

Un successivo articolo, pubblicato nel 2006, analizzò poi il modo in cui, in oltre 200 studi, «24.483 osservatori avevano giudicato la veridicità di 6.651 dichiarazioni fatte da 4.435 individui». Ne dedusse che solo nel 54 per cento dei casi chi di dovere (a volte poliziotti, altre volte studenti o semplici volontari) era riuscito a distinguere il vero dal falso. E che in nessuno studio la percentuale superò il 73 per cento. Insomma, una percentuale spesso molto vicina al puro caso: «se non abbiamo trovato chiare evidenze fin qui» ha detto Timothy Luke, psicologo e data analyst dell’università di Göteborg, «probabilmente è perché non esistono».

Molti esperimenti hanno però il grande problema di avere per protagonisti soggetti ai quali viene detto di mentire, quindi annullando o comunque diminuendo di molto il possibile senso di colpa legato alla menzogna, e soprattutto senza che mentire o essere scoperti comporti per loro gravi conseguenze nella vita vera, fuori dall’esperimento. Le cose sono evidentemente diverse in un interrogatorio in cui qualcuno viene per esempio accusato di omicidio.

Per questo Samantha Mann, psicologa dell’università di Portsmouth, nel Regno Unito, prese ore di registrazioni di interrogatori, in olandese, di un uomo poi condannato in quanto serial killer. E isolò i momenti in cui l’uomo diceva tre cose certamente vere e tre cose certamente false. Mostrò poi quei momenti a 65 poliziotti britannici, invitandoli a separare le bugie dalle verità: non sapendo l’olandese dovettero basarsi solo sull’interpretazione di segnali non verbali. I poliziotti ci azzeccarono soltanto nel 64 per cento dei casi, e tra l’altro ad ottenere i risultati peggiori fu chi disse di essersi basato su «stereotipi come “i bugiardi distolgono lo sguardo”, oppure “i bugiardi si agitano”».

– Leggi anche: Perché gli innocenti confessano

Dopo aver archiviato i segnali non verbali come spesso poco determinanti nell’indicare se qualcuno sta mentendo, Seigel spiega quindi che da qualche tempo gli psicologi che studiano le possibili strade per l’individuazione delle bugie tendono a concentrarsi maggiormente sugli indizi verbali o sul modo in cui le persone raccontano o in certi casi rappresentano quel che dicono di ricordare.

Per quanto riguarda i resoconti per immagini, Seigel parla invece dell’importanza che in molti interrogatori viene data alla memoria spaziale, chiedendo cioè all’interrogato di rappresentare un certo ambiente in cui dice di essere stato. Sembra infatti che, pur essendoci stato, chi sceglie di ambientare una bugia in un certo ambiente tenda ad averne un ricordo meno dettagliato rispetto a chi invece descrive quello stesso ambiente senza voler mentire su quello che vi è successo.

A questo proposito, Seigel cita un altro recente esperimento fatto da Mann. Ha chiesto a 122 volontari – senza fornire loro altro contesto o ulteriori dettagli – di incontrare un non meglio definito “agente” in un certo luogo, per comunicargli un “codice segreto” ricevendo poi in cambio un “pacchetto segreto”. In seguito a metà volontari Mann ha chiesto di raccontare a degli “investigatori” la verità su quel che era successo, all’altra metà ha chiesto invece di mentire e di non fare menzione dello scambio e del “codice segreto”. Sebbene i membri di entrambi i gruppi fossero stati nello stesso posto, facendo le stesse cose, nel suo esperimento i “sinceri” sono riusciti a ricordare molti più dettagli sul luogo dello scambio. Pur essendoci stati, i “bugiardi” (che non potevano parlare dell’agente, del codice e del pacchetto) tendevano invece a omettere anche diversi altri dettagli.

Anche gli esperimenti e le teorie sui resoconti verbali prestano però il fianco al fatto che non siamo tutti uguali. Certi interrogati potrebbero semplicemente ricordare poco o male, e quindi sembrare colpevoli senza esserlo, o magari essere capaci di dare resoconti dettagliatissimi eppure falsi. Senza che questo debba per forza essere il chiaro e inequivocabile segnale di una bugia.

Le prospettive future per l’individuazione delle bugie in molti casi hanno quindi a che fare con le possibilità – per ora spesso molto teoriche e poco provate nella pratica – di studiare cosa succede nel cervello, a livello di sistema nervoso, di qualcuno che mente, sta per mentire o ha appena mentito, magari nel momento in cui gli viene chiesto di ricordare, raccontare o disegnare qualcosa che sta associando a una verità o a una bugia. In sintesi, si tratterebbe quindi di un approccio di per sé simile a quello di un poligrafo, che prende in considerazione però dati ben più complessi e difficili da raccogliere e interpretare di quelli considerati dalle “macchine della verità”.

Rimane insomma il problema, a volerlo considerare tale, che gli esseri umani sembrano molto bravi a mentire, e chi per lavoro deve individuare le bugie subisce condizionamenti di vario tipo e agisce spesso per stereotipi e preconcetti. È difficile studiare le bugie perché, riuscendo molti bugiardi a farla franca, si fa fatica ad avere dati certi, in contesti non sperimentali, sulla quantità e la qualità delle bugie che non vengono scoperte.