La Cassazione contro la cosiddetta sindrome da alienazione parentale

È la controversa teoria sulla condizione di un figlio che rifiuta un genitore su incitamento dell'altro, spesso sfruttata nei casi di affidamento

(ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)
(ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

La Cassazione ha emesso un’importante ordinanza sulla sindrome da alienazione parentale (PAS), una teoria molto controversa che descriverebbe la condizione psicologica di minori che hanno rifiutato uno dei due genitori a causa dell’incitamento intenzionale portato avanti dall’altro. La PAS continua a trovare applicazione nei tribunali italiani e viene spesso invocata dai padri nelle cause di separazione e di affidamento dei figli, ma ora la Cassazione l’ha giudicata infondata, con motivazioni molto chiare e decise.

Il caso e le motivazioni della sentenza
L’ordinanza della Cassazione riguarda l’affidamento esclusivo di una minore di sei anni al padre, deciso dal Tribunale di Treviso esclusivamente in base ai risultati di una perizia, una consulenza tecnica di ufficio (CTU), che nei casi di affidamento particolarmente complicati viene richiesta dal giudice. La consulenza sosteneva che la condotta materna fosse «finalizzata all’estraneazione della minore dal padre, ovvero ad allontanarla da quest’ultimo» e faceva esplicito riferimento all’alienazione genitoriale. Sosteneva anche che la donna sembrasse affetta dalla cosiddetta sindrome della “madre malevola” (MMS), che riguarderebbe le donne che mettono in pratica una serie di azioni e comportamenti allo scopo di danneggiare la figura paterna. La Corte di appello di Venezia, nel 2019, aveva confermato la decisione del Tribunale di Treviso basandosi a sua volta sulle consulenze tecniche. La Cassazione ha ora annullato la sentenza di appello rimandando il caso alla Corte di Appello di Brescia.

I giudici di Cassazione hanno stabilito che la “sindrome della madre malevola” è riconducibile alla PAS, che a loro avviso non ha alcuna validità scientifica e il cui riconoscimento è a sua volta riconducibile alla cosiddetta “colpa d’autore” o “colpa per il modo d’essere” (dal tedesco Tätertyp o Täterschuld). Questa concezione si basa sull’idea che debba essere punito non tanto il fatto commesso, ma il modo d’essere dell’agente. Il principio venne sviluppato negli anni Quaranta dal modello penale nazista, e secondo gli esperti strumentalizza il diritto contro un presunto nemico per riaffermare una serie di valori offesi e per contrastare chi li mette in discussione. L’autore diventa, insomma, il simbolo del nemico.

Nelle motivazioni della Cassazione si parla del «controverso fondamento scientifico della sindrome PAS cui le CTU hanno fatto riferimento senza alcuna riflessione sulle critiche emerse nella comunità scientifica circa l’effettiva sussumibilità della predetta sindrome nell’ambito delle patologie cliniche». Il percorso che ha portato alle conclusioni della CTU, dice l’ordinanza, avrebbe dovuto essere «scevro da pregiudizi originati da postulate e non accertate psicopatologie con crismi di scientificità». Dagli atti, si dice ancora, emerge invece che «le asprezze caratteriali» della donna siano state valutate «in senso fortemente stigmatizzante».

Nell’ordinanza, la Corte entra anche nel merito di quale debba essere, da parte dei giudici, la prassi da seguire in questi casi: «Il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto (…) a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare».

Come ha scritto la giornalista Luisa Betti Dakli, che da anni si occupa di PAS, lo scopo della “colpa per la condotta di vita” è preservare il corpo sociale in cui il perno della famiglia è rappresentato dal padre «al di là delle sue condotte che non vengono né indagate né prese in considerazione» da ciò che mette in pericolo quell’ordine prestabilito. Tutta questa teoria si basa su una serie di pregiudizi (definiti “stigmi” nell’ordinanza della Cassazione): «E chi meglio degli stereotipi femminili incarnano i pregiudizi universali? Si sa, le donne sono “bugiarde per natura”, tendono a manipolare gli altri per avere vantaggi, streghe che usano i figli per ricattare i loro mariti, “madri malevoli” che sussurrano nelle orecchie dei loro bambini».

Nel commentare l’ordinanza, la senatrice del PD Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio, ha dichiarato che «la Cassazione ha di fatto inficiato i presupposti attraverso i quali in molti processi i figli vengono tolti alle madri solo sulla base di perizie tecniche (CTU) fondate sulla PAS», e ha anche sottolineato «che le persone non possono essere giudicate solo per un modo di essere, ma per loro espliciti comportamenti. Attraverso la PAS, infatti, le donne vengono giudicate non per loro comportamenti o per reati, ma perché considerate ‘alienanti’ sulla base di pregiudizi. Cosa che, dice la Cassazione, richiama il tätertyp di stampo nazista».

Non è comunque la prima volta che la PAS viene messa in discussione dalla Cassazione. Con la sentenza 13274 del 2019, la Corte aveva stabilito che l’affido esclusivo di un minore a un genitore non poteva fondarsi solo sulla diagnosi di sindrome da alienazione parentale.

Che cos’è la sindrome da alienazione parentale
La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori.

Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “programmazione” dei figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). In poche parole sarebbe un incitamento ad allontanarsi da uno dei due genitori, portato avanti intenzionalmente dall’altro genitore attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di «realtà virtuali familiari». Per Gardner, affinché si possa parlare di PAS è necessario che questi sentimenti di astio e di rifiuto non nascano da dati reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato.

Fin da subito la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association).

Nonostante la mancanza di prove scientifiche a supporto, l’alienazione genitoriale – intesa non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS) ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione molto spesso nelle aule dei tribunali, anche in Italia: diventa cioè un principio in ambito giudiziario a cui si fa spesso ricorso nei casi di separazione conflittuale. Nelle sentenze e nelle CTU, viene anche nominata come “sindrome della madre malevola” o non viene citata espressamente, ma vengono descritti comportamenti che vi fanno chiaro riferimento.

– Leggi anche: Che cos’è l’“alienazione parentale”?

Il principio dell’alienazione parentale diventa un problema soprattutto in alcune circostanze: nelle situazioni di maltrattamento, infatti, rischia di non considerare il principio del superiore interesse del minore e di far riferimento al diritto alla genitorialità a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Confonde la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini e le bambine che assistono ai maltrattamenti. Come ha spiegato l’avvocata Titti Carrano dei centri antiviolenza Di.Re si arrivano «a formulare delle sentenze di allontanamento dei figli dalla madre in base solo alla presunzione che i suoi comportamenti siano la causa della paura dei figli per il padre, anziché basarsi sull’accertamento dei fatti di violenza che hanno vissuto o a cui hanno assistito, cosa che invece ora questa ordinanza chiede espressamente ai giudici di fare».

Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato anche dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite, che si occupa di diritti delle donne.