• Mondo
  • Venerdì 30 aprile 2021

Washington D.C. vuole diventare il 51° stato

Per assicurare agli abitanti della capitale degli Stati Uniti gli stessi diritti di tutti gli altri americani, e rimediare a una distorsione dall'antico sistema istituzionale del paese

Una bandiera degli Stati Uniti con 51 stelle invece di 50, sventolata nel marzo del 2020 a Washington D.C. alcuni giorni prima che venisse presentato al Congresso il progetto di legge per rendere la città uno Stato (AP Photo/Susan Walsh)
Una bandiera degli Stati Uniti con 51 stelle invece di 50, sventolata nel marzo del 2020 a Washington D.C. alcuni giorni prima che venisse presentato al Congresso il progetto di legge per rendere la città uno Stato (AP Photo/Susan Walsh)

Lo scorso 22 aprile la Camera degli Stati Uniti ha approvato un progetto di legge volto a dare alla città di Washington D.C., la capitale, lo status di stato, al pari degli altri cinquanta stati americani. La legge è stata sostenuta dai parlamentari Democratici della Camera, dove il Partito Democratico ha la maggioranza, ma le possibilità che venga approvata anche dal Senato sono molto basse. Nonostante questo, è una questione attuale e di cui si parlerà ancora molto, anche perché è esemplare di alcune distorsioni prodotte dall’antico sistema istituzionale statunitense.

Washington D.C., che si estende per quasi 180 km² e ha più di 700mila abitanti, non fa parte di nessuno stato americano, ma costituisce un’entità a sé stante. Il suo territorio coincide con il District of Columbia (il Distretto di Columbia, da cui la sigla D.C.), un distretto federale previsto fin dalla prima versione della Costituzione degli Stati Uniti: questo assetto fu ideato per mettere la capitale e il governo federale “in campo neutro”, e non dare un luogo così importante a uno dei cinquanta stati americani.

Non facendo parte di nessuno stato, la città di Washington D.C. si trova in una situazione unica rispetto a ogni altra città americana. C’è un sindaco, ma le sue decisioni possono essere invalidate o corrette dal Congresso, cosa che capita di frequente. Non c’è un governatore, e sulle materie che sono competenza dei governatori è chiamato a intervenire, di nuovo, il Congresso. Alla base di questo assetto c’era anche l’idea che i parlamentari, passando diversi giorni ogni settimana a Washington D.C., non potessero che avere a cuore la buona amministrazione della città (accadde il contrario: la città diventò presto oggetto di una retorica demagogica simile a quella contro la “Roma ladrona”, e diventò molto popolare danneggiarla e disinteressarsene invece che curarla).

Questo particolare assetto comporta anche una sostanziale discriminazione elettorale per gli abitanti di Washington D.C., che di fatto sono privi di rappresentanza parlamentare. Non possono eleggere nessuno al Senato, nonostante stati come il Wyoming e il Vermont siano meno popolosi ed eleggano due persone ciascuno al Senato. Alla Camera possono eleggere solo una persona – oggi Eleanor Holmes Norton del Partito Democratico, in carica ininterrottamente dal 1992 – ma con poteri molto limitati rispetto agli altri deputati, tanto da non avere diritto di voto in aula ma solo nelle commissioni.

Per questo motivo, da anni una grossa parte della popolazione locale chiede che Washington D.C. diventi il 51º stato americano, in modo che i suoi abitanti possano avere i diritti e la rappresentanza politica concessi a tutti gli altri cittadini americani. Per quanto l’argomento abbia una sua evidente fondatezza, riuscirci sarà molto complesso.

Eleanor Holmes Norton, l’unica deputata di Washington D.C. al Congresso (Mark Wilson/Getty Images)

Perché Washington D.C. non fa parte di nessuno stato?
La storia di Washington D.C. come città e come capitale degli Stati Uniti comincia con la Guerra d’indipendenza americana, che portò alla Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776 e alla formazione degli Stati Uniti d’America. Nella Costituzione del nuovo Stato (articolo I, sezione VIII) si diceva che sarebbe stato creato un «distretto (non eccedente le dieci miglia quadrate) che per cessione di singoli Stati e dietro approvazione del Congresso, divenga sede del governo degli Stati Uniti». Non si diceva quale città sarebbe stata la capitale, ma solo che il Congresso – e non i singoli governi statali – avrebbe avuto il potere esclusivo di legiferare su quel distretto.

La decisione di affidare il ruolo di capitale e sede del governo a un distretto federale che non facesse parte di nessuno stato, e che fosse sotto il diretto controllo del Congresso, si deve in particolare a James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti nonché quarto presidente nella storia del paese. In un saggio del 1788 teorizzò che con l’istituzione di un distretto federale come capitale, si sarebbe impedito a uno stato di detenere troppo potere e influenza ospitando il governo di tutta la confederazione.

La teoria di Madison si deve anche a un evento conosciuto come “l’ammutinamento in Pennsylvania”, avvenuto il 20 giugno del 1783 a Philadelphia, in Pennsylvania, quando un gruppo di soldati che reclamavano di essere pagati per il loro servizio in guerra assediò il Congresso, che allora aveva sede lì. Il Congresso chiese al governo della Pennsylvania di intervenire per reprimere l’ammutinamento, ma il governo locale prese tempo e alla fine si rifiutò. I membri del Congresso decisero quindi di andare via da Philadelphia e di riparare a Princeton, New Jersey, che divenne temporaneamente capitale del paese. Il 24 giugno dovette intervenire George Washington, allora comandante dell’esercito, che inviò 1.500 uomini per reprimere l’ammutinamento.

Una mappa del 1792 con il piano per la costruzione di Washington D.C. (Library of Congress, Geography and Map Division)

La scelta finale cadde su Washington D.C. per via della situazione finanziaria del paese alla fine della Guerra d’indipendenza. Gli stati si erano riempiti di debiti che non erano in grado di ripagare, e i più indebitati erano quelli del Nord, dove erano più forti sia la politica che l’industria, mentre quelli del Sud – che erano stati coinvolti molto meno nelle battaglie, ed erano molto più rurali e arretrati – ne uscirono quasi completamente senza problemi. Si creò una situazione di stallo che Alexander Hamilton, primo segretario del Tesoro, tentò di risolvere garantendo che il governo federale avrebbe ripagato i debiti di tutti gli stati.

Quelli del Sud si opposero, perché sostenevano che in questo modo il governo federale avrebbe sanato i debiti del Nord imponendo tasse anche sul Sud. La situazione si sbloccò con quello che è passato alla storia come il “Compromesso del 1790”. Hamilton convinse gli stati del Sud a votare in favore della sua proposta, e in cambio promise loro che la nuova capitale del paese sarebbe stata costruita a Sud (o almeno, in quello che negli Stati Uniti dell’epoca era considerato Sud: la Florida, per dire, sarebbe entrata negli Stati Uniti soltanto nel 1845).

Inizialmente si pensò di costruire la capitale in Virginia o nel Maryland, due degli Stati del Sud più virtuosi, ma alla fine si decise per un territorio al confine tra i due, che sarebbe stato indipendente dal loro controllo. La scelta del luogo esatto fu affidata a George Washington, nel frattempo diventato primo presidente degli Stati Uniti, che decise di costruire il distretto in una porzione di terreno donata dai due Stati, che includeva le città di Georgetown, in Maryland, e di Alexandria, in Virginia, entrambe lungo rive del fiume Potomac.

La scelta del luogo non fu casuale per George Washington, che nei pressi di Alexandria possedeva la piantagione di famiglia di Mount Vernon. Per questo motivo il Congresso limitò la possibilità di costruire edifici pubblici solo alla porzione del Maryland, per impedire che il presidente potesse trarre vantaggi dalle sue proprietà.

Nel 1791 George Washington nominò tre commissari che supervisionassero la costruzione della città. Questi decisero di dare alla città il nome del presidente e di chiamare il distretto federale Territory of Columbia, in onore di Cristoforo Colombo. La città divenne ufficialmente capitale il 17 novembre del 1800, quando si tenne la prima seduta del Congresso.

Il governo del distretto fu posto sotto il controllo esclusivo del governo federale, e la città fu divisa in due contee: la contea di Washington, a Est del fiume Potomac, e quella di Alexandria, a Ovest. I cittadini delle due contee smisero di essere cittadini di Maryland e Virginia, e di conseguenza smisero anche di avere una rappresentanza al Congresso.

Negli anni seguenti il territorio della capitale venne modificato dopo la cosiddetta “retrocessione di Alexandria”: quest’ultima era infatti un’importante sede nel commercio degli schiavi e i residenti temevano che gli abolizionisti nel Congresso avrebbero impedito lo schiavismo all’interno del Distretto (cosa che sarebbe avvenuta, in effetti, nel 1850). Per questo nel 1846 Alexandria tornò a far parte della Virginia, e la capitale rimase tutta negli ex territori del Maryland.

Il sistema di governo del distretto cambiò invece nel 1871, quando venne introdotta la figura di un governatore, sostituita a sua volta tre anni dopo da un consiglio di tre commissari, sempre di nomina governativa. Il governo rimase così per quasi 100 anni, fino a quando nel 1973 fu approvato l’Home Rule Act, una legge che delegava alcuni dei poteri fino ad allora in mano al Congresso al governo locale, e che prevedeva la sostituzione dei tre commissari con un sindaco e un consiglio di tredici membri eletti dai cittadini. Al Congresso rimase però il potere di modificare le leggi approvate dal Consiglio.

Il progetto di legge per far diventare Washington D.C. uno Stato
Negli anni si è creato un ampio movimento d’opinione tra la popolazione per chiedere che Washington D.C. diventi uno stato, con tutti i diritti che ne conseguirebbero. Nel 2016 la sindaca del distretto, Muriel Bowser, aveva indetto un referendum consultivo per conoscere l’opinione dei cittadini: l’85 per cento dei votanti si era detto favorevole.

Le richieste sono diventati più consistenti negli ultimi anni e negli ultimi mesi, in parte per via della crescente sensibilità degli americani per le discriminazioni politiche. Washington D.C. ha una popolazione molto variegata sul piano etnico – addirittura il 45 per cento degli abitanti sono afroamericani – e quindi questa discriminazione colpisce in modo sproporzionato persone non bianche.

Inoltre, negli anni il sistema istituzionale americano ha portato a una composizione del Senato straordinariamente distorta. Dal momento che ogni stato elegge due senatori a prescindere dalla sua popolazione, gli stati piccoli, rurali e meno popolosi sono sovrarappresentati: un’intenzione precisa dei padri fondatori che inizialmente non favoriva spiccatamente l’uno o l’altro partito, ma che negli ultimi anni ha finito per favorire moltissimo i Repubblicani, che oggi vincono quasi esclusivamente negli stati più piccoli, rurali e meno popolosi. Oggi i Democratici rappresentano ben 42 milioni di elettori in più dei Repubblicani, eppure la situazione dei seggi è 50-50. Presto il 70 per cento della popolazione esprimerà solo 30 senatori, mentre il restante 30 per cento esprimerà 70 senatori. Washington D.C. è una città storicamente molto Democratica, quindi permetterle di eleggere due persone al Senato potrebbe essere un piccolo riequilibrio.

Un altro tema che ha reso attuale la questione è la gestione della Guardia Nazionale da parte del presidente degli Stati Uniti. La Guardia Nazionale è un corpo speciale dell’esercito americano formato principalmente da riservisti, cioè da persone che normalmente svolgono altre professioni. Viene utilizzata soprattutto in caso di disastri naturali, come inondazioni o uragani, o per portare rifornimenti, evacuare certe zone, ecc. Più raramente viene utilizzata come aiuto alla polizia per controllare disordini e proteste popolari.

Ogni stato americano ha una sua Guardia Nazionale, e anche Washington D.C e i territori associati degli Stati Uniti (Guam, Isole Vergini e Porto Rico) hanno la propria. Ma mentre nei 50 stati e nei tre territori associati la Guardia Nazionale può essere utilizzata su ordine dei governatori locali, il governo della capitale non può farlo. L’ordine di schierare la Guardia Nazionale a Washington D.C. spetta infatti solo al presidente degli Stati Uniti, al segretario della Difesa o al segretario dell’Esercito.

È quanto è successo nel giugno del 2020 in seguito alle proteste per la morte di George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso il 25 maggio a Minneapolis durante un arresto. A Washington D.C. la Guardia Nazionale era stata invece schierata contro i manifestanti direttamente su ordine dell’allora presidente Repubblicano Donald Trump, andando contro l’opinione del governo locale del distretto (per la cronaca, alle elezioni presidenziali Trump a Washington D.C. aveva preso appena il 4 per cento dei voti, contro il 90 per cento di Hillary Clinton).

Del ruolo della Guardia Nazionale si era parlato molto anche dopo l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, compiuto da centinaia di sostenitori del presidente Donald Trump. Inizialmente erano infatti intervenuti solo gli agenti della US Capitol Police, la forza di polizia che si occupa specificamente della protezione dei membri del Congresso, e quelli della Metropolitan Police, la polizia del distretto. I riservisti della Guardia Nazionale erano stati inviati con notevole ritardo, semplicemente perché – nonostante le molte accorate richieste anche da parte del suo vice – Trump aveva deciso che non fosse necessario.

L’attuale proposta per trasformare Washington D.C. in uno stato – presentata dalla deputata eletta dalla popolazione locale – prevede di cambiarne il nome in “Washington, Douglass Commonwealth”, così da mantenere le iniziali e l’attuale nome ma cambiandone il significato, e unire il cognome del primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, con quello del famoso politico afroamericano antischiavista Frederick Douglass. Il nuovo stato avrebbe avuto due rappresentanti al Senato e uno alla Camera, come gli stati americani meno popolosi (Alaska, Delaware, Montana, North Dakota, South Dakota, Vermont e Wyoming).

Altre proposte simili in passato avevano ricevuto il sostegno di presidenti come Bill Clinton e Barack Obama, ma fino a poco tempo fa solo una volta una di queste proposte era stata discussa in aula: nel 1993, venendo respinta. Il 26 giugno del 2020, invece, con 232 voti a favore e 180 contrari la sua proposta di legge H.R. 51 era stata approvata per la prima volta. La legge nei mesi seguenti sarebbe dovuta passare all’esame del Senato, controllato dai Repubblicani, che la lasciarono cadere (Trump minacciò di mettere il veto se la legge fosse passata).

Con la sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del novembre 2020 e con il rinnovo dei membri del Senato, dove ora i Repubblicani non hanno più la maggioranza, i Democratici sono tornati a sperare di nuovo. A gennaio del 2021 Eleanor Holmes Norton ha ripresentato lo stesso progetto di legge alla Camera, che il 22 aprile scorso è stato approvato con 216 voti a favore e 208 contrari. Le speranze che la legge passi al Senato sono comunque poche, però. Il regolamento dell’aula permette all’opposizione di bloccare qualsiasi progetto di legge non abbia il sostegno di almeno 60 senatori, mentre i Democratici hanno 50 seggi: non sembra ci siano dieci senatori Repubblicani disposti a votarla.