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  • Sabato 10 aprile 2021

«Perché l’Ordine dei giornalisti non interviene?»

Storia e regole di un organismo spesso sulla bocca di tutti senza essere abbastanza conosciuto e spiegato

(Ansa)
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Il lavoro del giornalista, informare, è abbastanza strano: perché è sempre stata una cosa che fanno tutte le persone continuamente, quella di scambiarsi informazioni, non soltanto i giornalisti. Con il flusso costante di informazioni sui social network questo fatto è diventato piuttosto evidente, e se già prima la definizione del giornalista e dei suoi doveri deontologici si prestava a degli equivoci, negli ultimi dieci anni la distinzione tra il diffondere informazioni e farlo professionalmente è diventata più inafferrabile, e più difficile definire delle regole.

Di farlo, per chi fa il giornalista di lavoro in Italia, si occupa soprattutto l’Ordine dei giornalisti, che fra tutti gli ordini professionali è un caso abbastanza unico proprio per la natura ambigua della categoria che rappresenta. Molti pensano che la sua principale mansione sia vigilare sulla qualità del lavoro giornalistico, quindi a tutela del pubblico, ma non è così né in teoria né in pratica: l’Ordine esercita le principali tutele innanzitutto verso i suoi iscritti, cioè i giornalisti. Nel contempo, con i grandi cambiamenti che le trasformazioni digitali hanno portato nell’informazione, oggi essere iscritti all’ordine rappresenta sempre meno una condizione necessaria per fare attività giornalistica, nonostante questa fattispecie non sia prevista dalla legge, che avrebbe probabilmente bisogno di aggiornamenti e revisioni.

In generale gli ordini professionali italiani sono gli organi di autogoverno delle libere professioni, che svolgono spesso lavori di natura intellettuale e interpretativa, e che in quanto tali possono essere difficili da valutare secondo norme rigorose. Gli ordini hanno il compito di garantire la qualità del lavoro degli iscritti, il loro rispetto della deontologia, ma anche i loro diritti: per esempio, che abbiano degli orari di lavoro accettabili.

Pur con le sue specificità, funziona così anche l’Ordine dei giornalisti, che nacque formalmente con una legge del 1963. All’epoca doveva servire soprattutto come organo a difesa dell’autonomia della categoria, in un periodo in cui il pericolo delle ingerenze del potere e del governo nell’informazione era più percepito come tale. Per garantire la libertà dei giornalisti, era insomma necessario che l’Ordine fosse autonomo e formato da soli giornalisti. In un tempo diverso e di maggiore complessità e libertà come quello attuale, molti si chiedono da tempo se il ruolo dell’Ordine sia ancora fondamentale, se sia da riformare o se sia invece inutile e da abolire del tutto.

Anche se effettivamente una delle sue mansioni è di vigilare sull’operato degli iscritti, per il bene della categoria, non è semplice che un organo formato da giornalisti giudichi altri giornalisti sul loro lavoro. Una delle critiche più frequenti che vengono mosse all’Ordine è proprio quella di essere troppo dentro i meccanismi e i problemi del giornalismo per poterli giudicare, che finisca per far prevalere considerazioni corporative e che in generale preferisca difendere i giornalisti piuttosto che mettere in discussione i loro comportamenti eventualmente discutibili.

A sinistra Carlo Verna, il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, con il giornalista Claudio Silvestri durante una manifestazione per la libertà di stampa al Palazzo delle Arti di Napoli, il 25 aprile 2018 (ANSA/CESARE ABBATE)

Negli anni nell’Ordine ha prevalso sempre di più la funzione di rappresentanza della categoria, che nella sua forma attuale lo ha reso più simile a un sindacato. Anche sotto questo punto di vista però ci sono dei problemi: secondo molti l’Ordine non tutela abbastanza gli interessi dei giornalisti più precari, per esempio i freelance che devono mantenere molte collaborazioni contemporaneamente, e a cui non sono garantiti compensi accettabili per gli articoli che scrivono. L’Ordine può dare delle indicazioni in questo senso, ma nei fatti non vengono rispettate.

Il rischio è che l’Ordine rappresenti le istanze solo di una ristretta cerchia di giornalisti, generalmente più esperti e anziani (una percentuale significativa dei suoi iscritti è composta addirittura da giornalisti in pensione) e protetti da privilegi economici e contrattuali che risalgono a tempi più fortunati per le aziende giornalistiche, e che per la maggior parte lavorano nei giornali di carta: anche solo per il fatto che chi governa le strutture dell’Ordine a sua volta conosce molto meglio quegli ambienti, rispetto ad altri di nuova formazione.

In generale l’Ordine dei giornalisti in Italia è un argomento piuttosto divisivo, per chi si interessi di cose dell’informazione e di come funzionano. Quando se ne parla, viene spesso definito in modo dispregiativo come “un rimasuglio del fascismo”, si dice che “esiste solo in Italia” e che “dovremmo fare come gli altri paesi: che non ce l’hanno e stanno benissimo”.

In realtà, per motivi diversi, nessuna di queste affermazioni è del tutto vera, ma tutte spiegano alcuni problemi dell’Ordine, che negli anni è cambiato poco nonostante i tempi lo richiedessero. In più, il pubblico ha spesso percezioni ingenue o comprensibilmente sbrigative sulle complessità dei temi dell’informazione, e tende ad aspettarsi dall’Ordine dei giornalisti interventi di controllo e repressione poco gestibili e di limitate conseguenze. Ogni volta che intorno a un articolo, a un titolo o a un errore dei giornali sorge qualche questione di etica professionale – e se ne discute ampiamente perché molti si sentono coinvolti, proprio per il fatto che tutti si scambiano e condividono informazioni, e tutti sono utenti quotidiani dei media – si sente e si legge spesso la domanda “perché l’Ordine dei giornalisti non interviene?”.

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L’Ordine non interviene innanzitutto perché è in conflitto di interessi. Chi lo guida generalmente trascorre gran parte del suo lavoro a difendere – legittimamente – gli interessi degli stessi che dovrebbe giudicare; i ruoli negli ordini regionali vengono distribuiti da giornalisti ad altri giornalisti. Per come è attualmente concepito, un Ordine le cui due principali funzioni sono sia difendere che sanzionare i giornalisti ha in sé il paradosso di essere il controllore e il controllato.

Nei fatti l’Ordine è un sindacato dei giornalisti: non che non sia una cosa utile, ma non può essere allo stesso tempo anche un sindacato dei lettori. Inoltre gli errori, le mancate rettifiche, le pubblicità non segnalate, eccetera, sono talmente consolidate e diffuse nei giornali che intervenire massivamente sarebbe quasi impossibile: anche in ragione della lunghissima burocrazia che porta alle sanzioni, comprese quelle più piccole, che attualmente sono comunque molto poche.

Ma prima di tutto questo c’è un problema insuperabile di giudizio sulla libertà d’espressione, sul diritto di cronaca e sulla libertà di stampa. Stabilire cosa sia “vero” apre discussioni persino filosofiche, e immaginare un organo che lo definisca universalmente per tutti è nei fatti impensabile: soprattutto considerando che molti dei casi controversi per i quali spesso il pubblico richiede “interventi dell’Ordine” riguardano scelte di forma, di toni, di priorità, più che di sostanza vera e propria. Prendete le recenti proteste per i toni terroristici e allarmanti con cui alcuni quotidiani hanno trattato inizialmente le analisi sui possibili effetti collaterali dei vaccini: si trattava non tanto di falsificazioni, quanto dei modi (titoli, formulazioni, proporzioni) suggestivi e forzati con cui le cose sono state comunicate. In altri casi le indignazioni riguardano toni ed espressioni volgari e offensive, sicuramente condannabili a parole, ma intervenire a impedirle mette in terreni delicatissimi sulla libertà d’espressione. E se questi sono ambiti che da sempre sono difficilissimi da trattare per i tribunali, figuriamoci quanto rischiosi sono per un semplice ordine professionale.

L’Ordine prima dell’Ordine
Il primo tentativo di inserire il giornalismo in una categoria in Italia avvenne per un motivo simile a quelli che provocano grandi discussioni anche oggi: cioè per un articolo che un deputato ritenne diffamatorio, nel 1877. All’epoca la questione si risolse subito con un duello di sciabola, ma poco dopo nacque un sindacato, l’Associazione della stampa periodica italiana, che divideva i giornalisti in categorie simili a quelle attuali: chi esercitava esclusivamente l’attività giornalistica, i pubblicisti (che potevano anche avere altri lavori) e i frequentatori (persone del mondo culturale e politico che pubblicavano articoli con meno frequenza).

Nel 1908 invece ci fu il primo riconoscimento giuridico, con una legge che dava ai giornalisti uno sconto del 75 per cento sulle tariffe dei viaggi in treno: ma solo a quelli retribuiti e che non svolgevano altre professioni. Nacque allora la necessità di individuare con certezza chi fossero i giornalisti, e fu creata una commissione presso le Ferrovie dello Stato per compilarne un elenco, il primo abbozzo dell’albo odierno. Quella forma di registro pubblico fu recepita nel 1925, con un accordo tra editori e sindacati che prevedeva la compilazione di un albo locale per ogni associazione regionale o interregionale già esistente. Fu creato anche un comitato d’appello che doveva giudicare sui ricorsi alle esclusioni dagli albi.

A dicembre del 1925 fu istituito con una legge l’Ordine dei giornalisti: durante il fascismo, sì, ma non per un particolare volere del regime fascista. L’Ordine infatti rimase sostanzialmente bloccato fino alla caduta del regime fascista, nel 1943, che fino a quel momento l’aveva di fatto controllato con il sindacato unico fascista e in vari altri modi autoritari. Dopo anni di lunghe discussioni – in cui era stata istituita una Commissione unica come organo di autogoverno provvisorio – l’ordinamento professionale nacque finalmente nel 1963, e da allora non è cambiato molto.

Cosa fa l’Ordine dei giornalisti/1: gestione dell’albo
La legge del 1963 impone a chi eserciti il giornalismo in forma professionale di iscriversi a un albo regionale. Dall’altra parte le testate giornalistiche, per essere considerate tali e ricevere le tutele previste da altre leggi, devono avere necessariamente un direttore che sia un giornalista iscritto all’Ordine. Nel 1963 era più semplice individuare chi facesse il giornalista, e quasi sempre si poteva far valere la definizione “chi scrive per lavoro su un giornale”, con le eccezioni della minoranza che lavorava in radio o in televisione.

Oggi stabilire chi faccia il giornalista è più difficile: ci sono blogger o persone che comunicano sui social network, per esempio, che fanno frequentemente un ottimo lavoro giornalistico senza essere iscritti all’albo, e ci sono iscritti all’albo che non esercitano la professione da anni, o che la esercitano molto poco. Ci sono profili sui social network, magari con centinaia di migliaia di followers, che condividono informazioni e hanno più lettori di molti giornali, e ciò che scrivono raggiunge e informa moltissime persone, eppure non sono curati da persone iscritte all’Ordine dei giornalisti e l’Ordine dei giornalisti non si occupa di loro: d’altra parte non sarebbe plausibile volerli limitare, in nome del diritto costituzionale alla libertà d’espressione.

L’ambiguità è data dal fatto che l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti non è abilitante alla professione, che di fatto si può esercitare anche senza essere iscritti: una cosa simile, per esempio, non potrebbe accadere per un avvocato. Non si può difendere una causa in tribunale se non si è iscritti a un certo ordine professionale, ma si può invece scrivere un articolo (come appunto la libertà d’espressione suggerisce). Allo stesso modo non esiste un percorso professionale per fare i giornalisti: non bisogna avere una laurea e, anche avendola, non ce ne sono di più indicate rispetto ad altre.

La prima funzione dell’Ordine dei giornalisti è però la gestione dell’albo, che è diviso in tre elenchi: professionisti, praticanti e pubblicisti. Sui pubblicisti, che nascono come giornalisti autonomi ma sono un po’ cambiati nel tempo, torniamo tra poco. I primi due invece sono sostanzialmente dipendenti, e la loro definizione è legata ai contratti di lavoro che devono avere per legge, in base al contratto nazionale collettivo stipulato dal sindacato FNSI (Federazione nazionale stampa italiana). Sono contratti che devono rispettare una certa paga e che garantiscono molti diritti (oltre a recepire i doveri deontologici per i giornalisti), e sono molto onerosi per le aziende, soprattutto da quando i ricavi delle aziende giornalistiche si sono molto contratti, per effetto dei cambiamenti portati dal digitale.

I professionisti sono coloro che esercitano la professione giornalistica in modo «esclusivo e continuativo»: per diventarlo bisogna necessariamente passare per un periodo di 18 mesi di praticantato, da svolgere presso una testata regolarmente iscritta in tribunale, e poi sostenere un esame. La testata presso cui svolgere il praticantato può essere anche quella di una delle scuole di giornalismo ufficialmente riconosciute dall’Ordine (in Italia sono 12): cosa assai più frequente negli ultimi anni, da quando la crisi ha ridotto sempre di più le disponibilità dei giornali ad assumere giovani praticanti. Nelle redazioni delle scuole di giornalismo i praticanti non devono essere pagati. Tra le funzioni dell’Ordine, c’è anche la gestione e il controllo delle scuole di giornalismo.

– Leggi anche: Le scuole di giornalismo servono?

Vista la difficoltà di accesso all’albo dei praticanti, l’Ordine ha previsto due modi per riconoscere con maggiore tolleranza i praticantati: il ricongiungimento, per pubblicisti freelance che dimostrino di aver lavorato almeno 3 anni negli ultimi 5; e il praticantato d’ufficio, per chi possa dimostrare di aver lavorato per una testata continuativamente negli ultimi 18 mesi.
Queste condizioni ibride negli anni hanno fatto sì che il concetto di “professionista” diventasse più spesso legato al fatto di aver superato l’esame, piuttosto che al fatto di essere dipendenti.

I pubblicisti, per legge, sono coloro che esercitano la professione giornalistica in maniera retribuita e non occasionale, ma che hanno un altro lavoro. Per diventare pubblicisti bisogna dimostrare di aver lavorato per almeno due anni ricevendo un compenso. A seconda degli ordini regionali può essere poi richiesto un minimo di articoli scritti e una retribuzione minima per cui l’iscrizione possa ritenersi valida. Inizialmente essere pubblicisti era un modo per certificare un’attività, soprattutto per rispettare il principio della legge del 1963 secondo cui non si può esercitare la professione se non si è iscritti all’albo. Era ritenuto importante, per fare in modo che anche i pubblicisti rispettassero la deontologia professionale, tra le altre cose. Un economista o uno scrittore che scrivano regolarmente su un giornale, dopo due anni avrebbero l’obbligo di diventare pubblicisti, per esempio. Anche i pubblicisti legati a una sola testata in teoria avrebbero alcune garanzie contrattuali, ma nei fatti è una situazione che capita molto raramente, perché i pubblicisti sono quasi sempre autonomi.

Spesso è un modo per accedere a una certificazione professionale per chi non ha occasione di svolgere il praticantato e sostenere l’esame. Con il tempo quello di “pubblicista” è diventato quasi un titolo fine a se stesso, senza particolari implicazioni, a cui molti giovani aspirano e che si impegnano a ottenere, sopravvalutandone l’importanza. Anche questo è dovuto in gran parte alla crisi del mercato editoriale: per un giovane aspirante giornalista diventare pubblicista è più semplice che diventare professionista, visto che raramente le testate assumono praticanti, e visto che non costa diverse migliaia di euro come le scuole di giornalismo. Soprattutto con il proliferare delle testate online, il tesserino da pubblicista è diventato molto accessibile, ma difficilmente dà dei vantaggi tangibili a chi cerca un lavoro. Molte testate minori però sfruttano il fatto di poter offrire ad aspiranti giornalisti i due anni di lavoro necessari a diventare pubblicisti, per poterli pagare pochissimo, e in molti casi niente.

Cosa fa l’Ordine dei giornalisti/2: responsabilità disciplinari
L’altra grande e importante funzione dell’Ordine dei giornalisti è la responsabilità disciplinare: l’Ordine deve vigilare sul comportamento degli iscritti, e può sanzionarli nel caso infrangano le regole della deontologia professionale. Le carte deontologiche che i giornalisti in Italia devono rispettare sono dieci, e riguardano diversi argomenti, come la privacy, il linguaggio da usare su certi temi, i diritti dei minori e i diritti dei migranti, tra gli altri. Nel 2016 le carte sono state tutte unificate nel Testo unico dei doveri del giornalista.

Gli argomenti che un giornalista può dover trattare sono tanti e molto diversi tra loro, ma le regole alla base del suo lavoro sono sintetizzate abbastanza bene nell’articolo 2 della legge che istituì l’Ordine nel 1963:

È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori.

Ovviamente, nei casi in cui un giornalista commetta svolgendo il suo lavoro un reato, per esempio di diffamazione a mezzo stampa, la competenza non è dell’Ordine dei giornalisti ma di un tribunale.

Nei casi in cui invece venga infranta la deontologia, l’Ordine dei giornalisti può usare quattro provvedimenti disciplinari:

  • l’avvertimento, che è un semplice ammonimento affinché un certo errore non si ripeta e può avvenire, per esempio, nel caso di un titolo eccessivo, ma che ancora non sconfini in discriminazioni (usare il termine “clandestini” per parlare di migranti può essere motivo di un avvertimento);
  • la censura, che è un biasimo più formale, ma comunque non ha conseguenze dirette, e può essere usata nel caso di mancanze più gravi, o di un comportamento scorretto che venga reiterato, dimostrando la malafede nell’errore;
  • la sospensione dall’albo, che dura almeno due mesi e al massimo un anno, nei casi in cui venga compromessa la dignità professionale del giornalista;
  • la radiazione, che corrisponderebbe a una sospensione definitiva e si applica solo in casi rarissimi e molto gravi. Dopo 5 anni, però, anche un giornalista radiato può chiedere di venire iscritto di nuovo all’albo.

I critici dell’Ordine sostengono che queste sanzioni non siano abbastanza severe da rappresentare una vera minaccia per i giornalisti, e che vengano utilizzate troppo raramente. Una delle obiezioni più frequenti è che ci sia eccessiva distanza tra avvertimento e censura da una parte, e sospensione e radiazione dall’altra. Non sono previste, per esempio, sanzioni pecuniarie: una soluzione intermedia che potrebbe disincentivare certi comportamenti scorretti frequenti nelle testate. Per esempio l’uso di un linguaggio scorretto o la tendenza a pubblicare articoli pubblicitari non segnalati come tali (le cosiddette “marchette”), abitudine estesissima che viola una regola scritta ma su cui interventi repressivi dell’Ordine sovvertirebbero un pezzo cospicuo della produzione dei giornali. Sono cose che avrebbero bisogno di un ripensamento e di una cultura diversa da creare nelle redazioni e nelle scuole di giornalismo, piuttosto che sanzioni isolate a una consuetudine consolidata (e divenuta peraltro preziosa per molte testate in difficoltà economica).

L’organo interno all’Ordine che si occupa dei procedimenti disciplinari è il Consiglio di disciplina, ce n’è uno per ogni ordine regionale. Il processo con cui si applica una sanzione è comunque abbastanza lungo, e dopo una prima decisione dei Consigli di disciplina territoriali, i giornalisti sanzionati possono fare appello al Consiglio di disciplina nazionale, e non è raro che una sanzione inizialmente più grave venga ridotta. La lenta burocrazia è uno dei motivi per cui le sanzioni, anche quando arrivano, non sono tempestive, e perdono quindi gran parte della loro efficacia correttiva.

Per attivare un provvedimento disciplinare serve un esposto, che può essere fatto da qualsiasi persona o dal Consiglio di disciplina territoriale stesso. Questo è bene tenerlo a mente, quando ci si chiede perché l’Ordine dei giornalisti non intervenga quasi mai: perché molto spesso, nonostante le polemiche per certi titoli o articoli, non viene presentato nessun esposto. Certo, un’altra delle obiezioni frequenti è che i Consigli di disciplina potrebbero o dovrebbero agire autonomamente con maggiore frequenza.

Il Post ha chiesto all’Ordine dei giornalisti della Lombardia quali provvedimenti disciplinari abbia applicato negli ultimi anni: nei 6 anni dal 2014 al 2019 (ultimo anno di cui siano disponibili i dati), ci sono stati circa 800 fascicoli di esposti esaminati, poco più di un centinaio all’anno. Nel 2019 ce ne sono stati 102: in 6 casi hanno portato a un avvertimento, e in 8 casi a una censura. 20 sono ancora in attesa che si concludano i processi penali aperti parallelamente (la prassi è che si attendano i verdetti dei tribunali, prima che giudichi l’Ordine).

In ogni caso è molto difficile che si arrivi alla sospensione o addirittura alla radiazione. Nel 2020 è stato radiato dall’albo della Campania un sacerdote, giornalista pubblicista, che aveva subito una condanna per abusi sessuali su minore. Un caso più noto negli ambienti dell’informazione è invece quello di Renato Farina, giornalista a lungo al Giornale e vicedirettore di Libero, radiato nel 2007 dopo che aveva ammesso di aver lavorato per un periodo per i servizi segreti italiani e di aver scritto notizie false per loro conto. Anche dopo la sospensione, però, Farina continuò a scrivere articoli d’opinione su Libero, nella forma di “lettere al direttore”. Nel 2014 chiese e ottenne di essere reintegrato nell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.

Renato Farina nel 2011 con Silvio Berlusconi alla Camera. All’epoca Farina era deputato (ANSA/GIUSEPPE LAMI)

– Leggi anche: Qual è il problema con Renato Farina

La storia di Farina dimostra in qualche modo l’eccezionalità della professione giornalistica: di nuovo, un medico chirurgo radiato dall’albo non avrebbe potuto operare un paziente. L’Ordine dei giornalisti infatti non può impedire ad alcun cittadino di scrivere un articolo su un giornale, perché le libertà di esprimere il proprio pensiero e di informare sono diritti assoluti garantiti dall’articolo 21 della Costituzione. Semmai, dev’essere responsabilità del direttore di una testata – lui sì obbligatoriamente un giornalista – quella di esercitare un controllo rigoroso su ciò che viene pubblicato e sull’affidabilità di chi scrive.

L’Ordine, secondo i suoi iscritti
Quando parlano dell’Ordine, la maggior parte dei giornalisti lo associano a due obblighi: la tassa da pagare annualmente per l’iscrizione, che può variare tra le regioni ma si aggira intorno ai 100 euro; e i corsi di formazione continua, introdotti nel 2012, sulla deontologia e sugli aggiornamenti della professione. Dei corsi si lamentano in tanti, di solito per la loro insoddisfacente qualità e perché richiedono tempo fuori dall’orario di lavoro. Gli iscritti all’Ordine devono raccogliere 60 crediti formativi ogni 3 anni (e un singolo corso può darne anche 10): e questo obbligo è la ragione prevalente per cui i corsi raccolgono iscritti.

Fino a oggi il fatto di non frequentare i corsi non poteva essere sanzionato, ed era uno dei principali motivi per cui molti li evitavano senza troppi problemi: dal 2021 si potranno applicare i 4 provvedimenti disciplinari previsti per le altre infrazioni deontologiche, e sono già in corso vari censimenti per individuare chi non sia in regola. Nell’Ordine lombardo, comunque, negli ultimi anni la partecipazione era già progressivamente cresciuta, e su 24 mila iscritti attualmente il tasso di evasione è stimato sotto il 10 per cento.

Molti giornalisti si lamentano che queste siano ormai le uniche due funzioni tangibili dell’Ordine, e quasi tutti – anche all’interno dell’Ordine – sono d’accordo sul fatto che vada quanto meno riformato.

Le proposte di riforma vorrebbero quasi sempre ottenere una libertà simile a quella di altri paesi esteri. In Germania, per esempio, non esiste una definizione ufficiale di giornalista: ci sono associazioni e sindacati che garantiscono la rappresentanza, e un organo di controllo formato da rappresentanti del sindacato e degli editori. In Francia per ottenere la “carte de presse”, un equivalente del tesserino da giornalista, basta aver esercitato la professione per almeno 3 mesi consecutivi e avendone ricavato almeno il 50 per cento dei propri redditi.

Formule di questo genere garantirebbero in Italia meno oscillazioni sulla definizione di giornalista, ma non è detto che possano aiutare a migliorare le tutele di alcune categorie di giornalisti, o addirittura l’etica con cui i giornalisti italiani svolgono il proprio lavoro.