Mai più, quarta e ultima puntata

«Insomma, non stiamo parlando di qualcosa di folle o utopico, stiamo parlando di qualcosa che c’è. E allora dove sta il problema? Il problema è che se guardate tutta quella gente la vedrete costantemente in lotta con una qualche organizzazione più grande di lei, che non lascia passare quel tipo di intelligenza»

(Denise Cathey/The Brownsville Herald via AP)
(Denise Cathey/The Brownsville Herald via AP)

Così, chiusi in casa ad assistere all’ultima stanca recita dell’intelligenza novecentesca, si aspetta l’avvento di una nuova intelligenza, capace di portarci via di qui. Da che parte arriverà, ci si chiede. E se è già tra noi. Sempre questo istinto messianico ad aspettare il salvatore. A cercare una stella cometa nel cielo per capire dove sta nascendo. Principio speranza.

Se esiste una nuova intelligenza, una cosa è lecito aspettarsela: sarà immune dai blocchi che stanno incartando quella novecentesca. Quindi uno si immagina gente capace di allestire sistemi flessibili, dotata di un sapere multiforme, sufficientemente audace da riaggiornare spesso i propri principi, e felicemente estranea all’idea di dovere sempre domare in modo razionale la realtà. Adesso la domanda è semplice: guardandosi intorno, accade di vederla all’opera, gente del genere?
Be’, certo, sì. Per dire, molti di quelli sotto i 35 anni sono così. Se sono intelligenti, tendono a esserlo in quel modo. Ma non è solo un tratto generazionale. Se ci pensate bene, ci sono un sacco di ambienti, aziende, istituzioni, realtà, in cui potrete trovare, anche ai vertici, gente che la pensa così. Che agisce in quel modo. È perfino probabile che gran parte di quelli che stanno leggendo questo articolo siano persone cui viene abbastanza naturale stare al mondo in quella maniera lì. Insomma, non stiamo parlando di qualcosa di folle o utopico, stiamo parlando di qualcosa che c’è. E allora dove sta il problema?Il problema è che se guardate tutta quella gente la vedrete costantemente in lotta con una qualche organizzazione più grande di lei, che non lascia passare quel tipo di intelligenza. Che la rallenta. Una specie di palude che la circonda e dove la nuova intelligenza spesso si impantana. Sarebbe bello dire che è il Potere, a fregarla. Un Potere ancora novecentesco. Ma la cosa è più complessa. A fregarla è la logistica delle nostre comunità, il design strutturale del mondo. A fregare l’insegnante che ha in mente un modo più adatto di insegnare, non è l’autorità razionale di un preside ottuso o la cieca rigidità dei programmi ministeriali: spesso è lo scetticismo dei colleghi, l’ignoranza dei genitori e la pigrizia degli allievi. Il ventenne che avesse in mente una start up destinata a smantellare l’assurda complessità del pagamento delle multe (per dire) sarebbe fregato non da un competitor più potente, che non esiste, ma dal semplice fatto che il numero di persone che vivono grazie a quella complessità è sufficientemente alto da creargli intorno una specie di cordone sanitario. Voglio dire che è la logica strutturale del mondo a rallentare la nuova intelligenza. Il modo in cui è costruito. D’altronde chi lavora alla casa degli umani con una nuova intelligenza di solito non sta ridando la tinta alle pareti, ma sta abbattendo l’edificio per ricostruirlo con un sistema costruttivo diverso. L’intelligenza non fa il decoratore, è un ingegnere strutturale. Per questo il mondo le fa resistenza. Non vuole crollare. Sta su, come il Ponte Morandi, fino all’ultimo istante possibile. Con l’aiuto di mille cecità, complicità, furbizie che ne rimandano il crollo fino all’estremo.Ma, vedete, ci sarà sempre quel pomeriggio di pioggia, e gli stralli cederanno. Nel modo più spettacolare, gli stralli hanno ceduto quando nel panorama del mondo ha fatto irruzione la rivoluzione digitale. Quello è un caso emblematico di nuova intelligenza che disfa la vecchia. Per quanto fosse resistente la densità conservativa che circondava i pionieri di quella rivoluzione, non c’è stato poi niente da fare: dove volevano passare, sono passati. Potevi anche essere Walmart, ma Amazon ti stava fregando. Potevi anche essere il New York Times, ma Twitter ti stava mettendo in ginocchio. Quel che potevi fare, una volta crollato, era scegliere se rimanere sepolto sotto le macerie o ricostruirti più velocemente possibile con il nuovo sistema costruttivo. È la storia di questi giorni.Così adesso possiamo chiederci se per caso non erano proprio loro, i pionieri del digitale, la nuova intelligenza, e le loro tecniche costruttive il nuovo design strutturale del mondo. Credo di poter dire che sì, in effetti i rivoluzionari digitali hanno cominciato a ricostruire la casa degli uomini secondo una nuova tecnica costruttiva, e hanno iniziato a farlo dal basso. Hanno iniziato dal telefono, pensa te. Dalla macchina per scrivere. Ora sappiamo che ce l’avevano davvero con l’intelligenza novecentesca, possiamo dire tranquillamente che la disprezzavano: alcuni di loro nemmeno si sono laureati. Se andiamo a vedere i quattro blocchi che incartavano i loro padri, loro ne hanno sbloccati alla grande almeno due, con grande chiarezza: hanno cercato e trovato un tavolo da gioco in cui tutto è in perenne movimento, e in cui vince solo chi è flessibile e veloce a trasformarsi; e poi si sono messi a distruggere totem uno dopo l’altro, passando sopra principi e valori che sembravano inamovibili: non erano cattivi, erano solo rivoluzionari, feroci e affamati. Eppure non è bastato, a quanto pare. Qualcosa non deve aver funzionato, se ancora stiamo qui ad aspettare una nuova intelligenza che ci venga a salvare. Sulla faccenda girano le idee più strane. Per quanto ne ho capito io, non hanno funzionato fondamentalmente tre cose. La prima è che partendo dal basso la rivoluzione digitale ha lasciato in piedi tutte le grandi istituzioni novecentesche del vivere comunitario: per dire, la scuola, la politica, le leggi, le Chiese. Franava il New York Times, ma non la professoressa di greco. Chiudevano le librerie, ma non i partiti. Così è iniziata questa curiosa schizofrenia per cui gli umani si sono trovati a vivere due dimensioni parallele: una, privata e individuale, in cui erano nel futuro, l’altra, pubblica e collettiva, in cui erano rimasti inchiodati al Novecento, quando non all’Ottocento.Scomodo.Un’altra cosa che non ha funzionato è che erano tutti maschi, ingegneri, americani, bianchi. Quasi tutti, a voler essere precisi. Ma insomma, la sostanza era quella: i rivoluzionari digitali appartenevano a un’élite non solo molto specialistica, ma anche antropologicamente e sociologicamente profilata in modo quasi claustrofobico: un quadro molto novecentesco. Cosa può nascere da un’élite del genere? È chiaro che era già tutto imperfetto in partenza: non c’è niente al mondo che, se lo fate pensare da maschi, ingegneri, americani, bianchi, può davvero funzionare. Una religione, un’orchestra, un autolavaggio: niente.Seccante.Terza cosa: il digitale è una tecnologia che nasce dai numeri, rifugio prediletto della razionalità. Prendete un’espressione come “il respiro del mondo”, e cercatela nell’indice mentale di quella rivoluzione: non è nei primi cento posti. Forse albergava in alcuni dei suoi pionieri: ma non è facilmente reperibile nei device che hanno creato. In questo modo si è finito per fiaccare quella che potremmo chiamare la parte non numerabile del mondo, la vibrazione invisibile del creato. La rivoluzione digitale ha moltiplicato le esperienze, ha devastato tutta una rete di privilegi, ha riportato il senso sulla superficie del mondo liberandolo dalla galera di tanti sacerdoti: ma poi, a forza di numerare il mondo, l’ha per così dire irrigidito, spogliandolo di una complessità che è difficile definire senza ricorrere alla rischiosa parola spirituale.Inquietante.Così, in definitiva, la rivoluzione digitale pare essere stata una geniale evasione, una grandiosa distruzione di muri, e la spettacolare apertura di un varco: solo che poi non ci siamo infilati, in quel varco, ci siamo persi a discutere di fake news, di capitalismo della sorveglianza, di cose così. E in qualche modo ci siamo fermati a metà strada. La Pandemia ci ha colto su una specie di confine. Lì vacilliamo, attualmente, aspettando di sapere da che parte cascheremo, quando sarà passata ‘a nuttata. Ci aiuterebbe molto disporre di una nuova intelligenza, e per questo abbiamo il dovere di scovarla, pretenderla e proteggerla. Di dirla, in qualche modo.

E allora provo a dirla, e poi la finiamo e torniamo a raccontare storie.
Non potrei spiegare, ma so che l’intelligenza di cui abbiamo bisogno non è un’intelligenza. Sicuramente userà catene logiche, per tenere insieme le proprie mosse, e utilizzerà il sapere per decidere quali fare. Ma non sarà un metodo, non si appoggerà su una rete di principi, non sarà in nessun modo una forma di razionalità. Sarà un fare. Sarà una prassi. Sarà una collezione di mosse. L’intelligenza sarà un fare.Non saprei spiegare bene, ma credo che sarà un fare animale, e quindi per lei pensare sarà un movimento del corpo. Ne sarà consapevole, e in lei finirà questa illusione igienista di pensare pulito. Pensare sporco, ma bene, è ciò che farà.Sarà animale, e quindi collegata al desiderio, non a un principio morale, a un dover essere. Il pensiero c’entrerà con la fame e sarà probabilmente semplice. Comprendere sarà qualcosa di affine all’abitare, non all’andare a caccia. Conoscere smetterà di essere uno strumento di aggressione e dominio, e avrà a che vedere con il bisogno di ascoltare e di integrarsi.Non saprei dire il perché, ma sarà nomade, un’intelligenza nomade. Non avrà una casa, ma molte case. Tutte sarà capace di abbandonarle.Credo che sarà diffusa, e non concentrata in alcuni luoghi deputati all’intelligenza. Sarà collettiva e non individuale.Mi aspetto che sarà un’intelligenza capace di grande memoria e grande visione: nei momenti più belli, le due cose coincideranno.So che sarà un’intelligenza emotiva, non nel senso che scoppierà a piangere ogni tre minuti, ma nel senso che lavorerà a partire dalle emozioni. Si muoverà cercando di processare le vibrazioni che, attraverso le emozioni, riceverà dal mondo. Così, essere intelligenti coinciderà con la capacità di registrare il mondo, di sentirlo. Qualsiasi astrazione concettuale elaborata per sintetizzare a freddo la realtà sarà considerata una mappa semplicistica e dunque rischiosa. Nulla di cerebrale sarà considerato utile. Ogni prassi capace di educare alle emozioni sarà guardata con rispetto.Ragionare sarà considerato un necessario mestiere di servizio, e intuire diventerà il cuore di qualsiasi faccenda.Tutte le decisioni, credo, discenderanno da un’unica abilità: riconoscere ciò che è morto da ciò che è vivo. Qualsiasi mossa faremo, la faremo per portarci a ridosso di un’energia. Non sarà un’intelligenza che sprecherà risorse a mantenere in vita, per debolezza, ciò che non vibra più. Non le sarà propria l’ambizione ad alterare il corso delle cose, ma se mai quella di saperlo riconoscere.Non saprei articolare bene la cosa, ma credo che sarà un’intelligenza superficiale, cioè leggera, precaria, sottile. Si muoverà a vista, allo scoperto. Parrà, a tutte le intelligenze che l’hanno preceduta, sottilmente ingenua. Sarà femminile, nel senso che i maschi danno a questo termine. Sarà maschile, nel senso che le femmine danno a questo termine. Sarà imprendibile.Userà i numeri per controllare il mondo e i nomi per perderne il controllo. Saprà certamente calcolare ma spesso non lo riterrà opportuno. Saprà nominare, ma mai per de-finire il mondo, se mai per ri-cominciarlo.Mi sembra ovvio pensare che sarà un’intelligenza audace. Nel senso che non avrà paura di perdere e di trovare. Chiunque fabbricherà paura sarà di intralcio, tutti quelli che la moltiplicheranno saranno accompagnati gentilmente fuori. Gli esploratori avranno un posto speciale, li si riterrà necessari. Commiati, addii e distacchi saranno insegnati, come gesti artigianali da compiere bene: li si riterrà obbligatori.E infine. Sarà un’intelligenza che non ci sorprenderà, perché abbiamo con lei un appuntamento da un sacco di tempo. Moltissime persone ne fanno già lo statuto del proprio stare al mondo. Mentre accettano disciplinatamente la razionalità dominante, la praticano con l’istinto di chi non ha bisogno di capire. L’hanno imparata nei proprio gesti. I più giovani l’hanno spesso ricevuta in dono e basta. Ce l’hanno talvolta senza sapere di averla. Tutti la riconoscono, e contribuiscono a crearla. Non c’è nulla di poetico né utopistico in lei: è un fare condiviso da moltissima gente, che macina decisioni ogni giorno – è semplicemente una delle intelligenze che fanno girare il mondo. È un artigianato del vivere. Siamo destinati, mi sembra, ad affidargli quanto abbiamo di più caro. Un giorno, che faccio fatica a vedere così lontano, guarderemo il nostro andare, penseremo che mai più, mai più così, mai più, e alla precarietà ferrea di quel gesto artigianale affideremo quanto abbiamo di più caro. Sarà un giovedì qualunque, mi sa. Ma è anche possibile che sia stato ieri. Non so, potrei essermelo anche perso. Ero lì, chiuso a scrivere un articolo un po’ difficile.

(4. fine)

Alessandro Baricco
Alessandro Baricco

Alessandro Baricco è scrittore e fondatore della Scuola Holden di Torino. Mai più è l'inizio della sua collaborazione con il Post.

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