Fare film in Italia durante una pandemia

Come e quanto le limitazioni e le nuove regole dovute al coronavirus hanno cambiato le abitudini di chi lavora sui set

di Tommaso Ropelato

Lady Gaga in via Condotti, a Roma, sul set di House of Gucci, il 22 marzo 2021 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Lady Gaga in via Condotti, a Roma, sul set di House of Gucci, il 22 marzo 2021 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

La pandemia da coronavirus ha creato tanti problemi ai cinema, che i film li mostrano, e prima ancora anche a chi il cinema lo fa, ogni giorno, sui set. In Italia, nell’ultimo anno, diverse produzioni sono state bloccate, rimandate o posticipate. È successo per quelle più grandi e note, alcune delle quali internazionali. Ma anche per quelle più piccole. Tutte, infatti, sin dall’inizio della pandemia, per potersi mettere o rimettere al lavoro si sono trovate a dover fare i conti con la necessità di nuove regole e con l’esigenza di un diverso approccio. Da ormai diversi mesi sui set è imprescindibile la presenza di un Covid manager e, tra le tante cose, i caffè bevuti nelle pause in genere si sono fatti più freddi di un tempo.

Già nell’aprile 2020, a un mese dall’inizio del primo lockdown, Co-Rent – una società di noleggio condiviso di attrezzature cinematografiche – presentò il “Protocollo Cinema Covid”, un sistema di soluzioni pensato per favorire la ripresa dell’industria cinematografica non appena sarebbe stato possibile. Realizzato insieme ad alcune società italiane di produzione, il protocollo beneficiò, tra le altre cose, dell’aiuto di “diversi soggetti con competenze in ambito medico-epidemiologico”. E presentò una serie di suggerimenti di carattere più generale – quali evitare riunioni non strettamente indispensabili o l’uso promiscuo di bottiglie e bicchieri – e anche altre indicazioni e accortezze specifiche per ogni reparto di professionisti sul set: a truccatori e parrucchieri, per esempio, era consigliato l’uso di tute integrali di protezione, con trucchi appositi per ogni attore o attrice.

L’impostazione e molte delle regole del “Protocollo Cinema Covid” di Co-Rent furono poi riprese in un protocollo ANICA, l’associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali, che fu siglato il 27 maggio. Il protocollo di ANICA aveva senza dubbio molta più rilevanza, in quanto proveniente da un’associazione istituzionale e parte di Confindustria. Oltre ad indicare le regole per il corretto utilizzo di dispositivi di protezione individuale e la tipologia di sistemi di disinfezione per le attrezzature di cui dotarsi, il protocollo suggeriva, per esempio, di mantenere la distanza di almeno un metro dagli attori inquadrati. E stabiliva che a poter maneggiare la cinepresa fossero solo l’operatore e il direttore della fotografia, sempre però con un’accurata pulizia tra un uso e l’altro.

Passare dalla teoria alla pratica, però, ha sempre le sue difficoltà. «In quanto soci ANICA abbiamo seguito tutta la fase di redazione del protocollo» spiega Matteo Cichero, regista e co-fondatore della società di produzione cinematografica FAIR PLAY. «Il protocollo è molto dettagliato, ma applicarlo a ogni specifico contesto e alle differenti realtà non è semplice né scontato. La produzione è responsabile legale nei confronti dei lavoratori, quindi è necessaria grande attenzione». Riaprire il set, spiega Cichero, ha portato con sé uno stato di perenne apprensione. «A causa della pandemia, per esempio, è nata una figura, quella del preposto Covid o Covid manager. È una figura di fondamentale importanza: il vero sceriffo del set, quello che ne monitora ogni elemento, che detta le linee guida e le applica al caso particolare».

Quella di Cichero è stata la prima società di produzione cinematografica in Italia ad avere organizzato un set e terminato le riprese di un film ai tempi del coronavirus, intitolato Anémos – Il vento. «Tornare a girare a maggio» dice «non è stato un capriccio: per il nostro film dovevamo girare diverse scene in esterna, il che comportava avere degli obblighi “meteorologici”. Dovevamo ripartire in quel momento, altrimenti avremmo dovuto aspettare l’anno dopo». Cichero aggiunge che in quel periodo trovare mascherine, gel e guanti per tutto il cast e la troupe, per l’intera durata delle riprese, fu un’impresa complicata. Anche perché, tra l’altro, visto che c’era da sanificarsi le mani decine di volte al giorno, serviva un gel non troppo aggressivo. «Ci siamo ritrovati a rimanere in contatto con decine e decine di farmacie: a maggio il problema degli approvvigionamenti, d’altronde, non riguardava solo noi, ma tutta Italia».

Cichero insiste in particolare su un punto: il più grande nemico di chi lavora nel mondo del cinema non è l’impossibile, ma la lentezza. «Per esempio il runner – colui che che accompagna parte della troupe sul luogo scelto per girare una determinata scena, o che si occupa di recuperare materiali e oggetti mancanti – ora si può dedicare solo ed esclusivamente ad un attore, senza possibilità di fare altro. E i costumi vanno ogni volta sanificati: per le comparse abbiamo deciso di farne di personalizzati con rella singola dedicata. Gli ordini del giorno vengono comunicati via mail, per evitare il passaggio di fogli e pizzini».

Un set, poi, non è solo un set. È anche tutto ciò che gli sta intorno, e tutto quello che sta prima del primo ciak e dopo la fine dell’ultima ripresa di ogni giornata di lavoro. Che quest’anno, in molti casi, ha voluto dire stanze singole dalle quali non poter uscire granché, colazioni senza buffet, e serate senza birra con tutta la troupe. «Girare un film in trasferta è sempre stato un po’ come andare in vacanza con una famiglia molto allargata», dice Paolo, membro di alcune grandi produzioni cinematografiche italiane e americane. Paolo (il nome è di fantasia) racconta che il suo luogo di lavoro, il set, è un contesto enormemente sociale, tattile e frenetico.

«Bisogna sempre tenere a mente che un film non è solo quello che si vede sullo schermo, ma anche tutto l’enorme lavoro di preparazione e pianificazione che ci sta dietro: in questo senso troviamo le maggiori differenze rispetto al “prima”. Per qualsiasi cosa i tempi sono più lunghi e gli spazi sono gestiti differentemente. Chiaramente, su un film da 250 milioni di euro di budget è una cosa, su uno da 3 milioni un’altra. Nel primo caso, a maggior ragione, non c’è spazio per l’improvvisazione. Ed è proprio questo aumento dei tempi di produzione, e quindi del noleggio delle attrezzature per i giorni di ripresa aggiuntivi, a far lievitare il budget necessario alla creazione di un qualsiasi prodotto audiovisivo».

Fino a prima della pandemia il set era un gigantesco insieme di reparti che lavoravano in armonia. Ora, ormai da diversi mesi, ci vuole spesso molta pazienza, e di certo una notevole attenzione per l’igiene; oltre a quella sensazione che fa sì che le lancette degli orologi sembrino girare più velocemente, perché tutto è diventato più lento e a suo modo macchinoso, i set sono molto più fatti da persone che lavorano in modo decentralizzato, con meno contatti e meno armonia.

Paolo spiega inoltre che per prevenire possibili focolai o riacutizzazioni del contagio, i grandi set vengono divisi in zone, ognuna associata a un colore. «La zona verde, per esempio, ospita i membri chiave del cast: il regista e il suo “braccio armato”». Per ogni zona è allestita una postazione di catering, sia per la distribuzione degli alimenti che per il loro consumo. E la divisione resta anche negli hotel: «nelle produzioni più grandi si sta in strutture separate» dice Paolo «il cast e chi gli deve stare più vicino per motivi pratici e di lavoro sta in un hotel, gli altri in un altro». Tra gli effetti collaterali c’è anche il fatto che «le relazioni sono messe a dura prova: soprattutto quelle amorose, e in particolar modo quelle clandestine».

Anche Paolo parla poi della difficile relazione tra regista e Covid manager, lo sceriffo del set. La questione, molto semplice, è che «i registi non vogliono farsi dire da nessuno quale dovrebbe essere la spaziatura corretta tra gli attori in quella e in quest’altra scena», e invece il Covid manager, a volte, deve dirlo. Allo stesso tempo, anche
quella del trucco «non è più una gioiosa zona-gossip, ma un esercizio teso di precisione». È anche svanito il mito del craft service, ovvero dei buffet giganti. Non c’è più, infatti, quello che Paolo definisce «il momento dell’assalto alla diligenza».

«Ora ci sono i pacchettini asettici e il caffè un po’ più freddo» prosegue: «e anche la pausa è diventata un po’ un momento di psicosi, del tipo “mica mi starò avvicinando troppo a quello?”».

Paolo ha cominciato a lavorare alla sua ultima produzione a gennaio, ha ripreso ad agosto e l’ha terminata a dicembre. «Ho visto e vissuto due modi di fare cinema, quello prima della pandemia e quello nel quale sto lavorando ora, e sono assolutamente antitetici. Ognuno con le sue regole, completamente e praticamente differenti. Il nostro è da sempre un lavoro da samurai: con 39 di febbre sono sempre andato a lavorare. Adesso con 37.5 ti senti, giustamente, in torto ad andare sul set. Forse questa è una mentalità che ci porteremo dietro da qui in poi».

Racconta come su moltissime cose, prima della pandemia, non venisse posta alcuna attenzione, e di come invece ora le stesse siano estremamente delicate. «Per alcune scene si arrivava ad avere migliaia di comparse, di qualsiasi età. Ora, per forza di cose, bisogna fare attenzione anche a questo tipo di dettagli: se le comparse non superano una certa età, ad esempio, è meglio. Ma se stai girando una scena in un tribunale mica puoi mettere solo giovani. Uno degli accorgimenti che in molti hanno adottato è quello di cercare di tenere il più possibile lo stesso gruppo di comparse, riciclandole. In questo modo però il numero delle comparse utilizzate in un film è drasticamente diminuito».

In termini più generali, Paolo non crede molto all’idea di mettere in quarantena il cast e la troupe prima dell’inizio di un nuovo lavoro. «È assolutamente impraticabile: passiamo da una produzione all’altra troppo velocemente, e bisogna anche tenere presente che la maggior parte di noi sono lavoratori freelance». E si dice convinto del fatto che, anche nel mondo del cinema, la pandemia abbia determinato nuovi e maggiori usi del digitale, tra le altre cose per ricostruire scenari o moltiplicare comparse. «Se penso al futuro del mio lavoro» dice «questa è la cosa che mi spaventa di più».

Questo e gli altri articoli della sezione Il coronavirus e il mondo della cultura sono un progetto del corso di giornalismo 2020/2021 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.