La ricerca di un pianeta che forse non c’è

Un nono pianeta oltre agli otto già conosciuti aiuterebbe a spiegare qualche stranezza ai confini del nostro sistema solare, ma nessuno riesce a trovarlo

di Emanuele Menietti – @emenietti

Una rappresentazione artistica di un ipotetico nono pianeta (NASA)
Una rappresentazione artistica di un ipotetico nono pianeta (NASA)

Trovare qualcosa senza sapere bene dove cercare non è semplice, e se non è nemmeno certo che quella cosa esista diventa ancora più complicato. Lo sanno bene Michael Brown e Konstantin Batygin, due astronomi piuttosto convinti che i pianeti del nostro sistema solare non siano gli otto che studiamo a scuola, ma nove.

Pensano che l’esistenza del nono pianeta aiuterebbe a spiegare alcune stranezze nelle orbite degli oggetti spaziali nella parte più remota della nostra casa nella galassia, eppure le loro ricerche sono state inconcludenti e messe in discussione da altri studi. Il più recente, pubblicato poche settimane fa, ritiene che l’ambiziosa ipotesi di Brown e Batygin su un mondo ignoto e mai visto nella periferia del nostro sistema solare sia derivata da un banale errore statistico, qui sulla Terra. Il mistero però rimane: né sostenitori né critici hanno una risposta definitiva.

C’era un nono pianeta
Michael Brown paradossalmente un nono pianeta lo conosceva bene, almeno fino a quando non decise di “ucciderlo”, come dice lui. Nel 2006 fu tra i principali responsabili della riclassificazione di Plutone da nono pianeta del sistema solare a pianeta nano. La decisione fu assunta dall’Unione Astronomica Internazionale dopo un annoso e talvolta teso confronto tra astronomi, che aveva avuto al centro le scoperte di Brown e colleghi sui corpi celesti simili a Plutone che avevano reso necessaria una ridefinizione stessa del concetto di “pianeta”.

Plutone, che si trova in media a una distanza di 6 miliardi di chilometri dalla Terra, era stato osservato per la prima volta nel 1930 da Clyde Tombaugh, un astronomo statunitense all’epoca poco più che ventenne. Lo aveva notato mentre stava mettendo a confronto due fotografie del cielo: c’era un puntino bianco meno luminoso di molte stelle conosciute, e che con altre osservazioni si rivelò essere un pianeta, per lo meno per gli standard dell’epoca.

Plutone in una foto a colori in alta definizione scattata dalla sonda New Horizons il 14 luglio 2015 (NASA/JHUAPL/SwRI)

Il New York Times raccontò la scoperta dedicandole un titolo a due colonne in prima pagina: «Scoperto un nono pianeta nella periferia del sistema solare: è il primo a essere scoperto in 84 anni». Infine, sembrava che ci fosse un buon candidato per spiegare come mai le orbite intorno al Sole di due pianeti già noti da tempo, Urano e Nettuno, fossero diverse da quelle degli altri.

Dichiarare di avere trovato un nuovo pianeta non era certo cosa da poco, ma in breve tempo gli astronomi si resero conto che Plutone non fosse grande a sufficienza per spiegare i percorsi orbitali descritti da Urano e Nettuno.

Le cose per il nono pianeta si misero ulteriormente male quando la sonda Voyager 2, inviata dalla Terra per esplorare lo Spazio profondo, effettuò alcune rilevazioni passando nei paraggi di Nettuno. Saltò fuori che il pianeta – una grande palla di gas con un diametro circa 4 volte quello della Terra – fosse molto più leggero di quanto inizialmente immaginato e che probabilmente lo stesso valesse per il suo quasi gemello Urano.

Analisi e studi successivi portarono alla conclusione che non solo Plutone non influenzasse in modo significativo i movimenti orbitali dei due pianeti, ma anche che questi fossero giustificati dal fatto di avere masse inferiori a quanto inizialmente ipotizzato. Insomma, non c’era bisogno di un “nono pianeta” per dare loro senso.

Poi arrivarono i primi anni Novanta e la scoperta della più grande ciambella spaziale nei nostri paraggi, e l’idea di un nono pianeta ancora da scoprire tornò a fare compagnia al lavoro di diversi astronomi.

La fascia di Kuiper
Nel 1992 un gruppo di ricercatori, che aveva trascorso anni a condurre osservazioni alla ricerca di corpi celesti oltre Nettuno, confermò l’esistenza di un grande anello di oggetti spaziali minori ghiacciati e costituiti per lo più da acqua, metano e ammoniaca, che si estende per 3 miliardi di chilometri. Fu chiamata “fascia di Kuiper” in onore di Gerard Kuiper, che negli anni Cinquanta aveva dedicato numerosi studi all’argomento, ipotizzando che però la fascia avesse avuto origine durante la turbolenta formazione del nostro sistema solare miliardi di anni fa, e che fosse poi scomparsa.

La fascia di Kuiper con le orbite di Plutone, Nettuno e Urano, il puntino bianco al centro a sinistra è il Sole (NASA.gov)

Gli studi sulla fascia di Kuiper portarono negli anni gli astronomi a stimare che quell’enorme area di Spazio contenesse centinaia di migliaia di oggetti spaziali con dimensioni di un centinaio di chilometri, insieme a mille miliardi di comete. Plutone non era quindi un’eccezione: c’era molto altro in circolazione là fuori, ai confini del nostro sistema solare. Bastava cercare.

La fine di Plutone e un nuovo inizio
Dopo avere trovato diversi indizi, tra il 2004 e il 2005 Michael Brown, il killer di Plutone, e alcuni suoi colleghi presentarono alcune interessanti scoperte. Prima trovarono Sedna e Quaoar, due corpi celesti (“planetoidi”) più o meno grandi la metà di Plutone, poi Eris, che aveva invece dimensioni simili a quelle di Plutone (inizialmente fu stimato che fosse persino più grande). La schiera di potenziali nuovi pianeti si stava facendo affollata e si rese necessario rendere più rigida la definizione, segnando la ridefinizione di Plutone nel 2006 in pianeta nano. In un certo senso, il sistema solare aveva perso di nuovo il proprio nono pianeta.

Un certo interesse per la questione rimase comunque tra i ricercatori e una decina di anni dopo Brown, insieme a Konstantin Batygin, presentò la sua causa a sostegno dell’esistenza di un nono pianeta che si aggirerebbe indisturbato, e inosservato, nel nostro sistema solare. La loro teoria derivava dagli studi svolti in precedenza, cominciando da Sedna.

Sedna ha un’orbita ellittica estremamente schiacciata rispetto a quella che compiono la Terra e gli altri pianeti intorno al Sole: nella fase di massimo avvicinamento si trova a 11 miliardi di chilometri dalla nostra stella, mentre nel momento di massima distanza è a 135 miliardi di chilometri dal Sole. Ciò comporta che per compiere una sola orbita Sedna impieghi circa 11mila anni.

(NASA)

Effettuando altre osservazioni, Brown e Batygin notarono che altri corpi celesti avevano orbite simili a quelle di Sedna, e tutte orientate più o meno nella stessa direzione rispetto al loro punto di massima distanza dal Sole. Valutarono se potesse trattarsi di un caso e giunsero alla conclusione che fosse poco probabile, circostanza che rendeva necessaria un’altra spiegazione. La risposta più logica fu quella di ipotizzare l’esistenza di un pianeta, mai osservato, in grado di influire sulle orbite di quei corpi celesti evitando che andassero dispersi nello Spazio interstellare.

Alla ricerca del nono pianeta
Dai loro calcoli, l’ipotetico nono pianeta avrebbe una massa tra 5 e 10 volte quella della Terra, con caratteristiche forse simili a quelle di Urano e Nettuno, e una gigantesca orbita: 45 miliardi di chilometri nel punto più vicino al Sole e 90 miliardi di chilometri nel punto di maggiore distanza.

Si sarebbe formato insieme agli altri pianeti nelle fasi iniziali del sistema solare, poi la sua orbita sarebbe stata perturbata da quelle di Giove e di Saturno e da altre stelle di passaggio. Altre teorie, che però convincono meno Brown e Batygin, comprendono la possibilità che un tempo il nono pianeta fosse un esopianeta, quindi esterno al nostro sistema solare, che lo avrebbe poi inglobato. Se così fosse, il nono pianeta sarebbe da miliardi di anni a rischio di finire sotto l’influenza di un’altra stella e di perdersi, rendendo meno solide le ipotesi sulla sua attuale presenza nel sistema solare.

(Wikimedia)

Tutto sarebbe più semplice se Brown e Batygin riuscissero a osservare il loro nono pianeta, ma cercare un oggetto specifico, poco luminoso e ignoto nel cielo non è semplice. Negli anni, grazie a telescopi sempre più potenti e precisi, gli astronomi sono diventati piuttosto abili nel cercare particolari categorie di corpi celesti: si indicano le caratteristiche che si desiderano agli strumenti, in modo da escludere tutto il resto dal campo visivo, e si valutano poi i risultati. In un certo senso è come fare la pesca a strascico, mentre nel caso del nono pianeta servirebbe una fiocina.

I telescopi adatti e potenti a sufficienza allo scopo non sono tanti, e sono molto richiesti dai ricercatori. Trovare posti liberi è difficile e gli astronomi si riducono spesso ad avere a disposizione un paio di notti all’anno per portare avanti le loro osservazioni.

C’è poi la possibilità che il nono pianeta non possa essere osservato direttamente perché, beh, non è un pianeta. Un’ipotesi molto affascinante, ma che si porta dietro diversi se, è che in realtà a influire sulle orbite di Sedna e compagni sia un particolare tipo di buco nero di piccole dimensioni, ma con una massa altamente concentrata e quindi sufficiente per avere una certa influenza, dal punto di vista gravitazionale.

Quando sentiamo parlare di buchi neri tendiamo a pensare a oggetti con massa gigantesca, pari a miliardi di volte quella del nostro Sole, massicci al punto da rendere impossibile alla luce stessa di sfuggire alla loro capacità di attrazione. Gli astrofisici ipotizzano però che ce ne siano di altri tipi, come i “buchi neri primordiali”, che non si sono formati in seguito al collasso gravitazionale di una stella, ma durante i primi istanti di espansione dell’Universo quando c’era un’estrema densità di materia.

Questa sorta di grumi cosmici avrebbe una massa pari a circa tre volte il nostro Sole, molto inferiore rispetto a quella dei buchi neri supermassicci. La presenza di un piccolo buco nero primordiale potrebbe essere sufficiente per spiegare le strane orbite, almeno secondo alcuni ricercatori. Altri non sono molto convinti, semplicemente perché un buco nero nel nostro vicinato dovrebbe influire anche sulle orbite degli otto pianeti sulla cui esistenza e movimenti siamo certi.

Trovare un buco nero non è comunque semplice, soprattutto se ci si deve mettere alla ricerca di un tipo di buchi neri mai osservato prima e la cui esistenza è stata finora solo teorizzata. Per quanto ne sanno gli astronomi, i pianeti tendono a essere un oggetto più comune rispetto ai buchi neri nel nostro sistema solare, elemento sufficiente per i critici della teoria del buco nero primordiale.

Rappresentazione artistica di un buco nero primordiale (Harvard)

Un errore?
L’unica cosa veramente certa è che il confronto sul nono pianeta prosegue ormai da tempo, e alcune settimane fa è stato riacceso da una nuova ricerca pubblicata a inizio febbraio, secondo la quale non ci sarebbe nulla di così strano nelle orbite degli oggetti oltre Nettuno (oggetti transnettuniani, TNO) osservati da Brown, Batygin e dai loro colleghi.

Gli autori ipotizzano che le osservazioni e le analisi condotte sui TNO abbiano subìto un effetto di selezione, il fenomeno che si verifica quando si raccolgono dati con strumenti che hanno limitazioni tecniche che finiscono per influire su come vengono interpretati quegli stessi dati. Brown e gli altri avrebbero trovato TNO con orbite dalle caratteristiche comuni in una certa area semplicemente perché stavano osservando quella, arrivando alla conclusione che fosse un fenomeno tipico di quella zona e non diffuso uniformemente tra i TNO intorno al sistema solare. Se così fosse, mancherebbe il principio stesso che aveva portato a ipotizzare l’esistenza del nono pianeta.

Brown e Batygin la pensano diversamente. Dicono che lo studio ha segnalato l’osservazione di altri TNO con caratteristiche simili ai loro e nella stessa area, circostanza che indicherebbe la presenza di un gruppo di oggetti con caratteristiche in comune. Il campione di TNO presi in considerazione dalla nuova ricerca è inoltre limitato, al punto da non potere escludere con certezza che ci sia un gruppo con quelle caratteristiche e non una distribuzione.

Un futuro avventuroso
Il nono pianeta continuerà a tenere impegnati ancora a lungo gli astronomi, ma nuovi dati per risolvere la loro diatriba potrebbero arrivare entro pochi anni. In Cile è in corso la costruzione dell’Osservatorio Vera Rubin, dotato di un potente telescopio (Large Synoptic Survey Telescope) che svolgerà campagne osservative (survey) per fotografare il cielo notturno dell’emisfero australe. Consentirà di mappare con precisione gli oggetti della fascia di Kuiper e porterà probabilmente alla scoperta di molti altri oggetti transnettuniani.

L’astronoma statunitense Vera Rubin, cui è stato intitolato il nuovo telescopio, fu una pioniera nello studio della rotazione delle galassie e nella definizione della “materia oscura”, la parte che ci è invisibile e che si pensa occupi circa l’85 per cento dell’Universo. Commentando la complessità dei suoi studi, una volta disse: «Molti misteri dell’Universo ci sono ancora nascosti. La loro scoperta attende gli avventurosi scienziati del futuro». Il nono pianeta è sicuramente uno di questi misteri.