Il misterioso culto di un soldato americano a Vanuatu

John Frum è al centro di uno dei più noti “culti del cargo”, nati quando sulle isole pacifiche arrivavano aerei carichi di cibo e medicine

john frum
Un fotogramma del documentario “Waiting for John” (Java Films/YouTube)

Ogni anno il 15 febbraio la comunità di un villaggio melanesiano nell’isola di Tanna, parte dell’arcipelago della Repubblica di Vanuatu, nel sud dell’Oceano Pacifico, celebra la festa religiosa “di John Frum”. Uno dei momenti centrali della festa è piuttosto lontano da quello che ci si può immaginare da un rito collettivo su una sperduta isola pacifica: una processione che in realtà assomiglia più a una parata, visto che i partecipanti marciano imbracciando lunghe canne a mo’ di fucili e maneggiando vecchie e logore bandiere e divise militari statunitensi.

Quello che ruota intorno alla misteriosa figura di John Frum è tra i miti più noti e citati quando si parla dei cosiddetti “culti del cargo”: credenze diffuse dalla Seconda guerra mondiale in poi e basate sulla speranza che una serie di pratiche rituali possa favorire il ritorno di navi e aerei che, come avvenuto più volte nel corso del XX secolo, trasportino beni destinati ai nativi dell’isola. Chi fosse esattamente John Frum, e quale sia l’origine del mito, è una storia in gran parte sconosciuta, difficile da ricostruire quanto quelle di altri culti simili presenti in certe isole del Pacifico, da tempo oggetto di studi, racconti e apprezzati documentari.

Il culto del cargo
Una descrizione sintetica e piuttosto efficace dei culti del cargo la diede il fisico e divulgatore Richard Feynman, uno dei più importanti scienziati del Novecento. In un passaggio del discorso agli studenti tenuto nel 1974 al California Institute of Technology (Caltech), a proposito della distinzione tra scienza e pseudoscienza e dei rischi di compromettere l’integrità scientifica a causa di pregiudizi o convinzioni errate, fece un esempio che contribuì ad accrescere la notorietà dei culti del cargo fuori dai consueti ambiti accademici di ricerca antropologica.

Nei mari del sud del Pacifico c’è un culto del cargo praticato da gruppi di persone. Durante la guerra vedevano aerei trasportare tanti beni utili, e vogliono che la stessa cosa accada adesso. Quindi si sono industriati per costruire diverse cose tra cui rudimentali piste di atterraggio, fuochi ai lati delle piste, una capanna di legno in cui un uomo possa sedersi con due pezzi di legno sistemati in testa come cuffie e canne di bambù tenute in mano e sporgenti come antenne – è il controllore di volo. E attendono che gli aerei atterrino. Fanno tutto correttamente. La forma è perfetta. Sembra esattamente come era prima. Ma non funziona. Non atterra alcun aereo. Chiamo queste cose scienza del culto del cargo, perché seguono tutti i precetti apparenti e le forme della ricerca scientifica ma si perdono qualcosa di essenziale, perché gli aerei non atterrano.

Dello stesso argomento, in modo più dettagliato e specifico, si era occupato nel 1960 il divulgatore e naturalista britannico David Attenborough, in un documentario dal titolo “Il culto del cargo”. Durante una spedizione nel Pacifico sud-occidentale Attenborough incontrò un gruppo di abitanti delle zone intorno al vulcano Yasur, sull’isola di Tanna, nelle Nuove Ebridi. Quell’arcipelago – oggi noto come Vanuatu, dopo l’indipendenza dal colonialismo franco-britannico ottenuta nel 1980 – era stato teatro di numerose operazioni militari e logistiche durante la Guerra del Pacifico.

Nel 1942, nel pieno della Seconda guerra mondiale, gli Alleati avevano avviato lunghe ed estenuanti campagne contro le forze giapponesi per il controllo delle isole del Pacifico. L’obiettivo a breve termine era stato nella gran parte dei casi quello di conquistare avamposti strategici e rafforzare i presidi coloniali. Migliaia di militari statunitensi trasferiti su quelle isole – come in parte raccontato nel film La sottile linea rossa di Terrence Malick – finirono per familiarizzare e in molti casi lavorare con popolazioni indigene che avevano fino a quel momento avuto soltanto sporadici contatti con il resto del mondo.

E a Tanna, come in altri punti dell’arcipelago, gli approdi e i movimenti di truppe furono particolarmente frequenti e intensi. Specialmente nella Baia dello Zolfo, sulla costa orientale dell’isola e non distante dal vulcano, la stessa insenatura scelta per l’approdo dalla prima spedizione occidentale che raggiunse Tanna nel 1774, guidata dall’esploratore britannico James Cook.

I melanesiani sono la popolazione indigena predominante nell’area dell’Oceano Pacifico compresa tra le isole Molucche e la Nuova Guinea, a nord, e Vanuatu, la Nuova Caledonia e le Figi, a sud-est. Tanna è una delle isole più a sud nel gruppo di Vanuatu e ha una superficie di circa 550 chilometri quadrati, cioè due volte l’isola d’Elba. Durante la spedizione raccontata poi nel documentario del 1960 per BBC, Attenborough registrò tra i nativi dell’isola una particolare curiosità per le apparecchiature radio e i dispositivi elettrici, e in alcuni punti pianeggianti notò croci scarlatte disegnate sul terreno e recinzioni disposte in modo da limitarne ampi tratti.

La presenza stabile dei britannici e dei francesi fin dal XVIII secolo – già prima del protettorato stabilito in accordo tra i due paesi dal 1906 al 1980 – aveva fatto sì che nelle Nuove Ebridi fosse diffuso sia l’inglese che il francese. I visitatori provenienti dai paesi anglosassoni, anche grazie alla presenza di numerosi interpreti, avevano quindi l’opportunità di comunicare piuttosto facilmente con la comunità indigena. Il bislama, la lingua diffusa ancora oggi a Vanuatu, era una lingua creola in larga parte derivata da un idioma melanesiano arricchito di molti termini inglesi.

Come scoperto anche da Attenborough ascoltando i racconti dei capi incontrati nell’area intorno al vulcano, durante le operazioni militari della Seconda guerra mondiale quella comunità aveva dato un’interpretazione particolare alla circolazione di beni – aeroplani, manufatti vari, medicine e cibo in scatola – mai visti prima di allora. Non potevano che essere prodotti da un dio, destinati a loro per il tramite di quei soldati.

Il misterioso John Frum
I membri del culto del cargo di John Frum venerano una figura semidivina chiamata appunto John Frum e, secondo la maggior parte dei racconti tramandati fino a oggi, descritta come uno spirito con le sembianze di un militare in divisa statunitense. Una delle interpretazioni prevalenti è che il nome “John Frum” sia la contrazione e alterazione di un’espressione più lunga ricorrente nelle presentazioni di molti soldati incontrati dagli indigeni durante la guerra. «John from America», dicevano, o «John from… » e il nome dello stato americano di provenienza. Non tutti si chiamavano John, chiaramente. Un culto diffuso a Tanna, in un’altra area dell’isola, venera una figura con moltissimi tratti in comune con John Frum chiamata “Tom Navy”.

Quando le forze statunitensi stabilirono sulle isole le loro basi, le comunità indigene assistettero al traffico di navi cargo e aerei: trasportavano, oltre ai beni di prima necessità, anche tutti i materiali necessari per l’allestimento dei campi militari, inclusi quelli d’aviazione che poi sarebbero stati riprodotti rudimentalmente dagli indigeni dopo la fine della guerra. «John ha promesso che ci porterà navi e aerei carichi dall’America, se preghiamo per lui: radio, tv, camion, navi, orologi, frigoriferi, medicine, Coca-Cola e molte altre meraviglie», raccontò nel 2006 uno degli anziani di un villaggio a un inviato dello Smithsonian.

L’ipotesi più condivisa tra gli studiosi è che il culto di John Frum si sia innestato su credenze precedenti, tra cui il culto di una divinità del vulcano chiamata Keraperamun. John Frum sarebbe una manifestazione di quella divinità, capace di attraversare la Terra al suo interno e riemergere dai crateri. «John va e viene dall’America a Yasur, attraverso il vulcano e al di sotto del mare», raccontò allo Smithsonian Isaac Wan, il capo dell’ultima comunità superstite devota a John Frum. Wan peraltro compare anche in Dentro l’inferno, documentario di Werner Herzog sui vulcani, intervistato proprio sul culto di John Frum. Suo figlio Moli racconta di aver parlato con John Frum passando una notte vicino al cratere vulcanico, che la divinità usa per spostarsi tra l’America e l’isola.

Tutte le versioni del mito concordano nel definire inoltre i tratti messianici di questa figura, che si ricollegano in parte ai sentimenti anti-coloniali diffusi a Tanna e altrove anche prima dell’arrivo dei soldati statunitensi. I credenti attendono il ritorno di John Frum, a cui è legata la speranza di un ritorno alle loro tradizioni. “Kastom” è la parola da loro utilizzata per descrivere lo stile di vita delle origini, precedente l’arrivo dei coloni e dei padri missionari che diffusero nuove abitudini predicando, tra le altre cose, il divieto della poligamia e la sospensione delle attività nel giorno settimanale dedicato alla festa.

Intorno alla fine degli anni Cinquanta la comunità di devoti del culto di John Frum istituì l’Armata di Tanna, un gruppo non violento di uomini addestrati per emulare i movimenti e i passi dei militari che avevano visto sull’isola. I membri dell’armata organizzano una parata ogni anno, il 15 febbraio, giorno della festa di John Frum. Indossano jeans blu, portano scritta sul petto con un inchiostro scarlatto la parola “U.S.A.”, e marciano maneggiando delle canne appuntate in modo da assomigliare a fucili con la baionetta. I devoti credono che il 15 febbraio sia il giorno in cui John Frum tornerà ed è piuttosto condivisa tra gli studiosi l’idea che a rafforzare questa convinzione siano certamente stati gli aiuti umanitari arrivati – ancora una volta dagli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Reagan – nel febbraio 1987 dopo le devastazioni provocate sull’isola dall’uragano Uma.

Il culto di John Frum oggi
La popolazione di Vanuatu è oggi quasi interamente cristiana, in larga parte protestante. I culti del cargo sopravvivono in poche zone isolate, e quello di John Frum annovera ormai poche centinaia di persone. A determinarne una drastica riduzione alla fine degli anni Novanta fu una diaspora provocata da uno scontro tra il capo Isaac Wan e Fred, un abitante del villaggio. Approdando un giorno con la sua barca da pesca sulla spiaggia della baia, Fred disse che un piccolo lago alle pendici del vulcano Yasur sarebbe presto traboccato, come infatti avvenne.

I villaggi compresi tra il lago e il mare, spazzati dalle acque, erano intanto stati evacuati, e questo valse a Fred il titolo di “profeta”. Isaac e i pochi altri devoti di John Frum rimasti rifiutarono di riconoscere le facoltà divinatorie di Fred e furono scacciati e confinati nel villaggio di Lamakara, dove vivono ancora oggi e celebrano ogni anno il giorno di John Frum. La storia di questa comunità di indigeni è stata in anni recenti oggetto del documentario “Waiting for John” del 2015, diretto dall’autrice statunitense Jessica Sherry e prodotto dal distributore indipendente europeo Java Films.