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  • Giovedì 11 febbraio 2021

Cosa si stanno inventando i giornali locali

La crisi del settore li ha colpiti spesso più duramente di quelli nazionali, ma diversi esperimenti in giro per l'Italia suggeriscono vie d'uscita

di Riccardo Congiu

(Ivan Terron/AFP7 via ZUMA Wire/Ansa)
(Ivan Terron/AFP7 via ZUMA Wire/Ansa)

Nelle molte discussioni degli ultimi anni sul futuro dei giornali si è sentita più volte la tesi secondo cui l’informazione locale avrebbe salvato il giornalismo dalla crisi in corso, e altrettante volte si è sentita quella opposta, secondo la quale i giornali locali sarebbero stati i primi a scomparire.

La prima argomentazione sosteneva che, soprattutto con l’arrivo di internet, l’informazione a cui avremmo potuto avere accesso in futuro sarebbe stata sempre più globale, lasciando scoperte le notizie più vicine, quello che succede nella nostra città e nei quartieri, e rendendo quindi necessaria una buona e completa cronaca locale. La seconda sosteneva che con il crollo dei ricavi pubblicitari, dovuti sia a una generale perdita di copie, sia allo spostamento dell’informazione online, i numeri dei piccoli quotidiani locali su internet non avrebbero permesso di colmare le perdite nei bilanci. Come spesso avviene in questi casi, la realtà era (ed è) molto più complessa dei due estremi, ma entrambi contenevano delle verità.

In effetti negli ultimi vent’anni, da quando internet ha cominciato ad avere un ruolo preponderante nell’informazione, molte redazioni locali sono state chiuse. Un’indagine approfondita pubblicata nel 2019 dal Wall Street Journal aveva mostrato che dal 2004 al 2018 negli Stati Uniti – dove tutti i fenomeni legati alla trasformazione digitale sono iniziati più precocemente – hanno chiuso circa 1.800 giornali locali, lasciando 200 contee senza un giornale, e metà delle contee di tutto il paese con al massimo un giornale solo (le contee sono le amministrazioni locali in cui sono suddivisi gli stati americani). Nel frattempo, sono nate soltanto 400 testate locali online.

Anche in Italia negli ultimi vent’anni molte testate locali hanno chiuso definitivamente, alcune hanno chiuso le redazioni distaccate che presidiavano piccoli centri, altre ancora hanno smesso di stampare il giornale cartaceo e sono rimaste solo online: è successo qualche settimana fa al Trentino, quotidiano di Trento in cui lavoravano 19 giornalisti e di cui resta per il momento attiva l’edizione online. Eliminare i costi di stampa però non significa risolvere tutti i problemi: la pubblicità online paga già molto poco di per sé – molto meno che sulla carta – e ancora meno in un quotidiano che raggiunge una quota di lettori ristretta e geograficamente circoscritta, meno interessante per i grossi inserzionisti (ma questo può avere anche i suoi vantaggi, ci torniamo più avanti).

Durante i primi mesi di lockdown c’è stata una grande richiesta di informazione – soprattutto sui temi della pandemia – e i lettori online sono aumentati un po’ per tutti, mentre gli investimenti pubblicitari (con qualche eccezione) hanno avuto contrazioni consistenti. Una dozzina di testate locali contattate dal Post hanno confermato che nei primi sei mesi del 2020 il calo delle entrate per la pubblicità è stato molto rilevante e diverse di loro hanno anche pensato di chiudere. Era già chiaro da prima, anche se forse si pensava di avere più tempo, che per i giornali fosse necessario trovare fonti di ricavo alternative alla pubblicità.

Passare dalla pubblicità agli abbonamenti
Si guarda spesso quello che succede ai grandi giornali americani, come il New York Times o il Washington Post, per capire cosa succederà – o almeno cosa dovrebbe succedere – tra qualche anno anche in Italia, ed è ormai noto che il modello di ricavo al momento più accreditato a sostituire o integrare quello pubblicitario sia quello basato sul fare pagare i lettori anche online così come facevano per la carta. Modello che può essere applicato in modi diversi.

Sede New York Times

La sede del New York Times a New York (AP Photo/Mark Lennihan)

Con una varietà di sfumature intermedie, si potrebbe dire che i due estremi siano da una parte i “paywall”, quei sistemi adottati da quasi tutte le maggiori testate che impediscono la lettura di un articolo (o degli articoli sopra una certa soglia mensile) finché non ti abboni, cioè finché non paghi, e dall’altra gli abbonamenti per sostenere un progetto editoriale, un modo di fare giornalismo, in cui gran parte o tutti i contenuti rimangano gratis per tutti e con eventualmente contenuti accessibili solo a chi si abbona (è così, per esempio, il modello del Post; o del Guardian tra le testate internazionali). In entrambi i casi sembra importante che il lettore, perché paghi, riconosca la qualità del prodotto che sta comprando (ne abbiamo parlato più estesamente qui). Nel secondo caso in particolare è importante che si crei una complicità con i lettori, un rapporto quasi diretto che mostri continuamente i motivi per cui si sta sostenendo quel progetto.

Un giornale nazionale ha più risorse economiche, più giornalisti e una maggiore varietà di temi a disposizione, per proporre abbonamenti ai suoi lettori. Per un giornale locale, che ha meno abbonati potenziali, meno possibilità di investire e meno giornalisti è molto più difficile. Secondo le analisi del Wall Street Journal, i giornali locali online hanno in generale molte più difficoltà di quelli ad ampia diffusione nel convertire i lettori in abbonati paganti. Eppure quell’intimità di sottoscrivere un abbonamento, quel rapporto diretto e di fiducia, sembrerebbero adattarsi bene a un giornale molto radicato sul territorio.

L’attività di un giornale locale è molto influenzata dal luogo in cui si trova: è importante capire se ci sono più fabbriche o più campi da coltivare, che lavoro fanno gli abitanti della zona, che interessi hanno. La stessa conformazione del territorio può fare un’enorme differenza. Omar Monestier, direttore del Messaggero Veneto – quotidiano locale del Friuli Venezia Giulia e tra i maggiori in Italia per diffusione, appartenente al gruppo editoriale GEDI – ha spiegato al Post che la zona di competenza del suo giornale è fatta di pochi centri cittadini e tante zone periferiche, in cui le poche edicole rimaste devono coprire delle aree sempre più estese. I giornali vengono venduti anche in negozi che hanno altre attività come principali, per esempio alimentari o tabaccherie, che durante il lockdown hanno chiuso: trasformare i lettori in abbonati digitali è stata soprattutto una necessità.

In vista del cambiamento che prima o poi sarebbe arrivato, i metodi di lavoro erano già cambiati, e questo ha consentito al Messaggero Veneto di non soffrire come altri la transizione al digitale. «Quando un pezzo è pronto», spiega Monestier, «esce immediatamente sul sito, poi il giorno dopo finisce anche sul giornale di carta. Ci siamo resi conto che questo sistema non ci faceva perdere copie». I lettori cartacei non interferivano con quelli digitali, e per il Messaggero Veneto questa è stata una piccola svolta.

Alla fine del 2020, dei 9mila abbonati al Messaggero Veneto, 5mila erano abbonati solo al giornale online, e “La Bussola”, una newsletter quotidiana curata da Monestier, aveva 20mila iscritti. Sono numeri piuttosto alti, per un giornale che ha diffusione solo in Friuli Venezia Giulia (e nemmeno in tutta la regione, dato che a Trieste il primo quotidiano è il Piccolo, dello stesso gruppo e alla cui direzione è arrivato da poco lo stesso Monestier).

Quello che invece accade più spesso nelle redazioni locali – molte hanno un modo di lavorare ancora legato ad abitudini di un’altra epoca – è che i pezzi si scrivano sempre per il quotidiano del giorno dopo, e solo in un secondo momento vengano scelti, tra gli articoli già usciti sul giornale cartaceo, quelli da pubblicare sul sito. Questo ovviamente ha delle ricadute rilevanti, perché spesso quando arrivano online quegli articoli sono già vecchi. Invece i contenuti pensati solo per il sito sono spesso di qualità inferiore, sono quelli “che fanno più click”, secondo la convinzione che chi legge il giornale online abbia meno voglia di approfondimento e sia in cerca di contenuti leggeri.

Per tutti i giornali la rivoluzione in questo senso è arrivata soprattutto negli ultimi dieci  anni, «quando il giocattolo si è rotto», dice Andrea Iannuzzi, digital editor di Repubblica, che per anni si è occupato dei contenuti nazionali su 18 giornali locali del gruppo Espresso (ora GEDI). Con l’arrivo di Google e dei social network, che hanno cannibalizzato tutta la pubblicità, «si è capito che non ce la si faceva più, continuando come avevamo sempre fatto». Secondo Iannuzzi, da quel momento in poi era chiaro che sarebbe sopravvissuto solo chi aveva già un grandissimo mercato, oppure chi occupava una nicchia molto specifica. «Se parliamo di carta, è più facile che sopravviva il foglio parrocchiale che il quotidiano locale», dice.

È vero che la vendita delle copie di carta continua a diminuire inesorabilmente, quando più e quando meno, ma le visite online sono in costante aumento, soprattutto nel 2020, anche per i giornali più tradizionali: il problema è capire come guadagnarci. Stefano Pallaroni, capocronista alla Provincia Pavese, spiega che nel suo giornale la consapevolezza che i rapporti tra carta e web siano cambiati c’è da tempo, ma «dentro sembra sempre che ci si muova su due binari». Alla Provincia Pavese lavorano 21 giornalisti (esclusi i collaboratori esterni), di cui 2 sono fissi sull’online e altri 2 o 3 aiutano a turno: rispetto alla media non sono affatto pochi, per le dimensioni del giornale. Secondo Pallaroni il lavoro sul giornale online è molto migliorato, ma le criticità restano, e sono quelle che riguardano la maggioranza dei quotidiani locali. «Noi ci rendiamo conto di quello che funziona, ma non sappiamo come monetizzarlo», dice.

La Provincia Pavese

Una locandina della Provincia Pavese a Pavia, nel 2017 (Ansa/Matteo Bazzi)

Tempi moderni e ricambio generazionale
Uno dei motivi per cui molti giornali locali non possono permettersi di guadagnare di meno è che non sanno come spendere di meno. Le redazioni più radicate sul territorio devono sostenere gli stessi costi di un tempo in cui il giornalismo garantiva ricavi molto migliori: l’affitto degli ambienti di lavoro, gli abbonamenti alle agenzie, la stampa dei cartacei (per chi li ha) e soprattutto i contratti dei giornalisti. Un giornalista che si forma oggi sa che deve imparare anche a usare la macchina fotografica, a filmare, a montare video e audio e a comparire davanti alla telecamera, spesso quella di un telefonino. Prima le redazioni potevano permettersi di avere giornalisti che magari si occupavano di una sola cosa e non scrivevano più di un pezzo al giorno, o un fotografo da mandare anche agli eventi più piccoli. Le difficoltà sono più grandi dove queste abitudini non sono state superate, o lo sono state soltanto in parte.

D’altra parte il ricambio generazionale – e quindi idee nuove e giornalisti che sappiano ricoprire più ruoli per ridurre i costi – non è semplice, perché chi ha contratti da tempi migliori non è necessariamente vicino alla pensione. Monestier ha spiegato che una delle ragioni per cui il Messaggero Veneto è riuscito a innovarsi e abbattere i costi è stata abbastanza casuale: «Nella mia seconda direzione (dal 2016, ndr) abbiamo avuto una discreta infornata di pensionamenti. In un primo momento l’editore ha deciso che ogni tre persone che andavano in pensione ne avremmo assunta una, poi è stato una ogni due». Erano 50 giornalisti e ora sono 36 (sempre esclusi i collaboratori).

Inoltre il Messaggero Veneto fa parte del gruppo GEDI, che oltre a Repubblica e La Stampa possiede diversi quotidiani locali e può quindi abbattere certi costi: un esempio banale, come dicevamo, è che Monestier fa il direttore anche al Piccolo di Trieste.

Un grande gruppo è anche Citynews, quello che possiede una cinquantina di testate locali in tutta Italia, solo online, che si chiamano tutte ParmaToday, LecceToday e così via. Il gruppo è nato una decina di anni fa, con un approccio più moderno alla professione giornalistica e meno romantico o nostalgico di tempi migliori, come racconta Luca Lani, uno dei fondatori, che è un manager del settore e non un giornalista. «Abbiamo fatto uno studio su 5 città e abbiamo costruito un modello. Abbiamo capito che ci sarebbero servite almeno 30/35 città perché fosse sostenibile». Avere così tante testate permette di abbattere moltissimi costi, per esempio sui concessionari delle pubblicità. «Mettiamo a fattor comune gli investimenti», dice Lani. Nel mentre, essere in 50 significa fare visite complessive simili, e talvolta superiori, a quelle di grandi giornali come Corriere e Repubblica, e poter targettizzare molto la pubblicità nei singoli territori rispetto a un nazionale.

Anche sul personale giornalistico si risparmia molto: per 50 testate ci sono 12 direttori, e diversi assunti a tempo indeterminato hanno un contratto USPI: un tipo di contratto ottenuto qualche anno fa da alcune testate che è meno oneroso per le aziende più piccole, ma permette di assumere giornalisti regolarmente pagandoli un po’ di meno, ma senza tenerli in condizioni precarie o illecite. È stato sperimentato per due anni e osteggiato da molti, che vorrebbero conservare i vantaggi economici di un tempo, e per il momento non sembra esserci l’intenzione di proseguire in questo tentativo. Citynews era stato tra i gruppi promotori del contratto USPI: «Ha permesso alle persone di avere un tempo indeterminato, stabilità, di fare una famiglia», dice Lani.

Speranze per un futuro sostenibile
Per i giornali più indipendenti, senza un grande gruppo alle spalle e con poche risorse economiche, non è semplice inventarsi nuove fonti di ricavo. Qualche esempio virtuoso riguarda due giornali che nel 2020 hanno vissuto probabilmente l’anno più travagliato della loro storia: L’Eco di Bergamo e il Giornale di Brescia, che hanno fatto un lavoro eccezionale nella copertura della pandemia da una delle zone più colpite al mondo.

Gianluca Gallinari, giornalista del Giornale di Brescia, racconta che nel 2020 c’è stata una crescita enorme degli abbonamenti digitali, che ha compensato almeno in parte la perdita dei ricavi pubblicitari avuta nella prima metà dell’anno, con un aumento dei lettori nella fascia tra i 18 e i 24 anni. Si tratta di una testata con un’identità molto riconosciuta nella zona, che per esempio ha l’autorità per curare un inserto digitale sui bilanci delle aziende: «Con il dipartimento di Economia dell’università analizziamo tra i 500 e i 1000 bilanci di aziende bresciane per definire una sorta di classifica delle migliori», spiega Gallinari. Il tutto culmina poi in un evento che fornisce buoni ricavi e concorre ad aumentare la credibilità della testata, che può avviare altri progetti.

Qualcosa di simile fa anche l’Eco di Bergamo, ma in ambiti diversi, a dimostrazione del fatto che bisogna capire il proprio pubblico a seconda del territorio (e Brescia e Bergamo sono lontane solo una cinquantina di chilometri). Negli ultimi anni infatti il giornale ha provato a lanciare diversi prodotti online verticali, cioè che si occupino di un singolo tema: uno è “Skille”, sulle aziende della zona, un altro è “Eppen”, sugli eventi in città; ma quello che è andato meglio è stato “Corner”, di approfondimento e analisi sull’Atalanta.

“Corner” esiste da poco più di due anni, costa 3 euro e 50 al mese (oppure 38,50 all’anno) e propone un racconto giornalistico sportivo diverso da quello più tradizionale, più competente e molto simile a quello di un magazine sportivo come Ultimo Uomo. Ma solo sull’Atalanta, che pur avendo una tifoseria prevalentemente locale sta attraversando il miglior momento della sua storia, con risultati entusiasmanti in Italia e in Europa che hanno certamente accresciuto l’interesse e la voglia di notizie.

Il responsabile è Roberto Belingheri, vicecaporedattore all’Eco di Bergamo, che spiega: «Con i buoni risultati degli ultimi anni, l’offerta gratuita sull’Atalanta si era moltiplicata, ma con un livello, diciamo, medio-basso. La gente però si è stufata dei pagellisti che ti propinano la loro verità». L’esperimento ha funzionato e dopo 10 mesi è arrivato al break even, cioè i ricavi hanno pareggiato i costi. È un caso promettente anche per altre realtà editoriali. Allo stesso tempo Belingheri racconta che “Corner” riesce a mantenere costi molto bassi con molta attenzione, grazie alla buona volontà di alcuni colleghi e alla partecipazione di alcuni abbonati con dei loro contributi.

Prima della pandemia, racconta Belingheri, si facevano riunioni con tutta la redazione, in cui si era parlato della possibilità di «capire come evolvere nel futuro dal punto di vista della produzione e della commercializzazione delle notizie», e introdurre magari abbonamenti personalizzati che comprendano solo alcune sezioni. Ovviamente era poco più che un’idea, ma è interessante per capire che alcuni giornali sono in movimento e hanno la consapevolezza di dover cambiare qualcosa.

È vero che un giornale come L’Eco di Bergamo deve sostenere i costi molto alti che abbiamo elencato, ma ha anche 140 anni di storia, e un marchio consolidato sul territorio che gli permette di avere una credibilità su progetti come “Corner”. Chi arriva sul mercato oggi può evitare certi costi strutturali, ma ha la grande difficoltà di doversi fare in breve tempo una reputazione.

Una donna legge L’Eco di Bergamo a una cerimonia per commemorare la beatificazione di Papa Giovanni XXIII, a Sotto il Monte, vicino a Bergamo, il 3 settembre del 2000 (AP Photo/Felice Calabrò, LaPresse)

Da questo punto di vista Mi-Tomorrow, un free press locale che viene distribuito a Milano dal lunedì al venerdì, nato nel 2014, si può considerare un caso virtuoso per il solo fatto che non sia già chiuso. È un giornale di una ventina di pagine, tutte dedicate a Milano, e questo lo pone in una posizione di forza rispetto ai suoi concorrenti Leggo e Metro, che ne fanno 2 o 4 al massimo, spiega il direttore Christian Pradelli. Soprattutto però ha avviato diversi progetti specifici, per esempio degli speciali per alcuni eventi come il concerto di Lady Gaga, con cui sono riusciti a fare una buona raccolta pubblicitaria basandosi sugli sponsor della cantante. Oppure numeri molto curati nella copertina e nei contenuti, distribuiti nei concerti a San Siro, che diventano oggetti da conservare per chi partecipa, o ancora affiliazioni con aziende per numeri monografici in occasione di eventi e inaugurazioni.

Dall’altra parte, Mi-Tomorrow è un giornale che paga solo due stipendi, quello del direttore e quello dell’amministratore delegato, e conta su un buon numero di collaboratori freelance ormai abbastanza fissi, senza la necessità di una redazione fisica. È una base di partenza per aumentare gli investimenti quando i ricavi lo permetteranno, ma intanto si mantiene bene, e di questi tempi non è poco.

«Microcomunità locali»
L’impressione generale è che il giornale potrà continuare a esistere solo se i suoi ricavi non si baseranno più sulla sola vendita dei giornali stessi e sulla pubblicità. Andrea Iannuzzi di Repubblica ipotizza un futuro da «microcomunità locali» per lo scambio di informazioni e di iniziative, che nella sua offerta abbia anche quella informativa e che permetta a chi la possiede di gestire direttamente i dati degli utenti, come fanno ora Google e Facebook. «Mi immagino un abbonamento a “piattaforme local” in cui, se paghi di più, avrai anche il privilegio di leggere un’edizione cartacea di un giornale», dice Iannuzzi.

Qualcosa del genere esiste già con Nextdoor, una specie di social network nato negli Stati Uniti dedicato alle informazioni e alla vita di quartiere, che in molti casi ha sostituito i giornali locali e ha cominciato a sottrarre loro la pubblicità.

Una testata che da tempo sta provando a diventare un punto di riferimento anche fuori dal settore tradizionalmente considerato giornalistico è VareseNews, quotidiano della zona di Varese che da 23 anni esiste solo online e non ha dovuto subire i contraccolpi del passaggio al digitale. Da qualche mese ha attivato una membership per farsi sostenere dai lettori, mantenendo gratuito il grosso dei contenuti e con qualche contenuto “premium” per chi si abbona.

La speranza del direttore Marco Giovannelli è di arrivare a coprire il 20-25 per cento dei costi del giornale con questi abbonamenti, ma la cosa forse più interessante è che la speranza non è tanto sugli abbonati individuali, quanto sulle molte affiliazioni con le aziende che ormai riconoscono a VareseNews una certa autorità – magari ne sono state esse stesse inserzioniste – e sottoscrivono pacchetti di abbonamenti per tutti i dipendenti. Su Facebook poi VareseNews ha una serie di gruppi tematici, tra cui uno per i soli abbonati, dove le persone possono scambiarsi impressioni, consigli e conoscere meglio il lavoro della redazione. Giovannelli crede che «i giornali devono recuperare uno spirito di comunità».

Quel che è meno facile capire è come si costruisca questo spirito. Per esempio, tra le iniziative più conosciute e consolidate di VareseNews c’è il Festival “Glocal” sul giornalismo digitale, che è uno dei più frequentati in Italia nel suo genere e che contribuisce ai ricavi ma anche alla sua reputazione.

Meno conosciuta invece è stata un’iniziativa di qualche anno fa, che si chiamava “indovina chi ti porta il caffè”. Per mesi Giovannelli e altri giornalisti di VareseNews si sono spostati tra i paesini del Varesotto, nelle case dei lettori che si candidavano, a portare il caffè, a raccontare il giornale e ad ascoltare le loro storie. Si creava una certa intimità e spesso si finiva tardi, poi il giorno dopo l’incontro veniva sintetizzato in un articolo. Non era un progetto da cui il giornale faceva ricavi, ma è stato un pezzo della necessaria costruzione di un rapporto che potenzialmente si può trasformare in una disponibilità a contribuire economicamente.