• Italia
  • Martedì 26 gennaio 2021

Nessuno aiuta le donne al centro di detenzione di Ponte Galeria

Dal primo lockdown viene impedito l'accesso ai gruppi di assistenza legale che aiutano le detenute a ottenere i loro diritti e a non essere espatriate

di Corinne Redfern

Il muro del centro di rimpatrio di Ponte Galeria (Lapresse)
Il muro del centro di rimpatrio di Ponte Galeria (Lapresse)

Questo articolo è pubblicato in collaborazione tra il Post e The Fuller Project, una redazione non profit internazionale che si occupa di temi che riguardano le donne 

Il 9 marzo dell’anno scorso, con l’avvio del lockdown, venne annullata all’improvviso l’assistenza esterna per le 40 donne detenute nel “Centro di permanenza per il rimpatrio” di Ponte Galeria, alla periferia sudovest di Roma: lo comunicarono le associazioni non profit che fino ad allora fornivano loro sostegno legale e aiuto. Dapprima le autorità sospesero i voli di rimpatrio, ma anche quando furono ripresi – a giugno, dopo il lockdown – molte organizzazioni esterne scoprirono di non poter ancora accedere al centro per entrare in contatto con le detenute. Senza che questi gruppi le assistano e le rappresentino, per le donne del centro prive di documenti regolari aumentano i rischi di essere rimpatriate, anche se sono state vittime del traffico di esseri umani e dovrebbero godere del diritto di asilo, dicono gli stessi gruppi.

Sono decisioni che possono ritenersi illegali: deportare le vittime della tratta di esseri umani viola la legge sui migranti del 1988, spiega Martina Millefiorini dell’Università di Roma Tre, che si occupa di assistenza legale.

Nel 2020 almeno 136 donne sono state rimpatriate dall’Italia (31 dopo essere state a Ponte Galeria), secondo i dati che il Fuller Project ha ottenuto dal ministero dell’Interno. Più di metà di loro dopo l’inizio del lockdown e quindi dopo l’interruzione dell’assistenza legale fornita dalle associazioni volontarie. Gli esperti dicono che molte di queste donne non potevano più usare i servizi delle associazioni impegnate contro la tratta di esseri umani, che spesso sono la prima opportunità di contatto con avvocati specializzati su questo e sugli abusi sessuali.

Decine di altre donne traumatizzate da anni di discriminazioni e violenze si sono trovate completamente isolate nel centro di Ponte Galeria. E quelle che vengono rilasciate dal centro senza essere rimpatriate finiscono in un limbo, come S.: ferma davanti a un supermercato nel centro di Roma a chiedere agli sconosciuti di comprarle del cibo. Si ricorda i suoi dieci giorni a Ponte Galeria e dice che è meglio mendicare per strada, piuttosto che rimanere durante la pandemia in quello che è l’unico centro femminile del genere in Italia.

Molte donne temono di essere rimpatriate senza ricevere nessuna assistenza esterna, dice Salvatore Fachile, un avvocato e ricercatore esperto di tratta di esseri umani e immigrazione: «colpisce moltissimo che lo Stato possa essere cosi biecamente efficiente con quelle categorie come le donne particolarmente vulnerabili e titolari di diritti che non riescono ad esercitare».

Il ministero ha fatto sapere che almeno nove donne sono state rimpatriate durante la pandemia e durante la sospensione dell’assistenza esterna, ma non ha risposto alle decine di richieste su quando le organizzazioni non profit otterranno accesso al centro di detenzione nelle modalità precedenti al lockdown. Gli avvocati dicono di essersi preoccupati della situazione all’interno appena il lockdown di marzo è stato annunciato. Dopo una sola settimana, il 16 marzo, una donna tunisina era stata ricoverata in ospedale dopo che aveva ingerito della candeggina per protestare contro le condizioni, aveva riferito un’organizzazione per i diritti dei migranti. Per paura del contagio, altre donne si erano rifiutate di uscire dai dormitori: la settimana dopo, un gruppo di assistenza aveva scritto sul proprio blog che quattro donne avevano iniziato uno sciopero della fame.

La gran parte delle donne proviene dalla Nigeria e dalla Tunisia, ma altre arrivano dall’Europa orientale, dall’Asia e dall’America Latina. Una ricerca ha spiegato che molte sono state costrette alla prostituzione e ad attività criminali una volta arrivate in Italia, dove sono state quindi arrestate.

S. era stata portata a Ponte Galeria a novembre dell’anno passato. Viveva da dieci anni in Italia ed era andata a presentare richiesta d’asilo, ma al commissariato era stata arrestata in esecuzione di un precedente decreto di espulsione. Nel centro di detenzione si era trovata confinata in un nudo dormitorio imbiancato: gli agenti le avevano sequestrato lo smartphone e aveva passato ogni notte giacendo insonne e trattenendo il pianto. La prospettiva di essere rimpatriata in Nigeria la terrorizzava e temeva di essere in pericolo di vita. A Benin City era stata vittima di mutilazione genitale e la violenza l’aveva accompagnata fino a quando era diventata adulta. Ora ha 45 anni: «Avevo paura di tornare. Ci sono persone che mi minacciavano: mi hanno sempre minacciata di uccidermi nella mia città».

Gli studi a riguardo mostrano che la maggioranza delle donne nigeriane in Italia avrebbe diritto all’asilo o a una protezione legale, spiega Millefiorini, riferendosi alle alte percentuali di sfruttamento e mutilazioni genitali femminili tra la popolazione in Nigeria: «Rimpatriarle è una violazione sistematica dei loro diritti». Gli avvocati italiani che se ne occupano sostengono che in Italia ci sia stata una lunga assenza di volontà politica di proteggere le donne senza documenti, o di soddisfare le loro richieste di assistenza legale. «Il governo cura poco la tutela dei diritti delle vittime» dice Fachile: «lo stato ha un unico interesse, prioritario, che è quello di effettuare i rimpatri».

L’esclusione delle organizzazioni di assistenza all’interno del centro di Ponte Galeria permette alle autorità italiane di applicare questa priorità senza maggiori ostacoli, aggiunge. «Qualche mese fa avevamo pensato che la pandemia potesse essere un’opportunità per chiedere una maggiore applicazione dei diritti dei migranti. Ma tutto quello che abbiamo ottenuto è un muro assoluto rispetto al tornare a permettere l’accesso ai centri», conferma Yasmine Accardo dell’associazione non profit LasciateCIEntrare, nata per chiedere l’ingresso di volontari e stampa nei centri di rimpatrio a garanzia della loro legalità.

Ponte Galeria è un quartiere a metà strada tra Roma e il mare, in direzione dell’aeroporto di Fiumicino. Il centro può ospitare fino a 80 donne alla volta, ognuna per un massimo di tre mesi. Durante la pandemia il numero delle donne detenute è crollato, ma varia di settimana in settimana. Il 20 novembre ce n’erano sei, stando al Garante nazionale dei detenuti. Due settimane dopo ne era rimasta solo una, peruviana, dice Sara Foi di Lazio Crea, un’azienda che fornisce servizi amministrativi e di gestione. Il ministero dell’Interno ha comunicato che almeno 222 donne sono state detenute a Ponte Galeria dall’inizio del 2020.

Nel centro di Roma, a quindici chilometri da lì, c’è l’Università Roma Tre, dove ha sede il gruppo legale volontario che ha difeso S. e ha ottenuto il suo rilascio. Avvocati e studenti offrono assistenza legale gratuita da quasi dieci anni agli immigrati irregolari, spesso parlando con i loro clienti per giorni – o persino settimane – per capire e ricostruire la successione degli eventi che li hanno portati in Italia. Molti di questi clienti sono entrati in contatto con gli avvocati attraverso le organizzazioni per i diritti umani o di assistenza ai migranti, come Be Free e A Buon Diritto, che prima avevano accesso al centro femminile di Ponte Galeria in diversi pomeriggi della settimana e potevano spesso creare una sorta di ufficio temporaneo in una stanza vicino alle macchine distributrici del caffè (la direttrice a interim del Fuller Project è stata ospite di recente di un programma radiofonico presentato dalla direttrice dei progetti internazionali di Be Free, Loretta Bondi, ndr).

L’ultima volta che Be Free è entrata nel centro era il 4 marzo 2020. Alla fine del lockdown, il 18 maggio, i responsabili dell’organizzazione chiesero l’autorizzazione a riprendere i servizi nel centro, ma a distanza di otto mesi il ministero non l’ha ancora concessa. Dal 3 luglio A Buon Diritto ha avuto il permesso di entrare il venerdì pomeriggio, ma dice che da allora ha potuto visitare la sezione femminile solo tre volte, e solo per parlare con tre donne che i responsabili del centro avevano descritto come particolarmente sofferenti, e che sono state rilasciate dopo i colloqui.

Il caso che riguarda S. mostra quanto siano in pericolo le donne trasferite nel centro, dice Millefiorini: anche con un certificato medico che confermava il suo essere stata vittima di mutilazione genitale, è stata detenuta e avviata verso il rimpatrio fino a che gli avvocati non hanno potuto intervenire in sua difesa. Il rischio che fosse rimpatriata era alto, spiega Millefiorini: «Solo per il fatto di essere vittime della tratta hanno diritto di asilo. Poi purtroppo la commissione territoriale e il tribunale spesso non hanno la stessa visione».

Dopo l’intervento degli avvocati, il tribunale ha accettato di esaminare la richiesta di S. e dopo dieci giorni di detenzione le ha concesso di tornare a casa a Roma. Sta ancora aspettando che sia accolta la sua domanda di asilo: senza un permesso di soggiorno non può avere un lavoro. Ma malgrado tutto è fiduciosa e grazie agli avvocati si sente meno sola: «mi dicono sempre che stanno lavorando ai miei documenti. Io credo che ci riusciranno».

Corinne Redfern è una giornalista del Fuller Project che vive a Milano.