Il deposito di arte nazista negli Stati Uniti

È custodito dall'esercito da 70 anni: ci sono grandi quadri celebrativi e alcuni acquerelli dipinti da Hitler

Disegni di Adolf Hitler in mostra a Berlino, 27 luglio 2017
(Wolfgang Kumm/dpa/ANSA)
Disegni di Adolf Hitler in mostra a Berlino, 27 luglio 2017 (Wolfgang Kumm/dpa/ANSA)

Prima di diventare il dittatore che tutti conoscono, Adolf Hitler voleva fare l’artista: ci provò disperatamente ma venne respinto due volte all’esame di ingresso dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, tra il 1908 e il 1913 cercò di mantenersi dipingendo paesaggi e vendendo cartoline e durante la Prima guerra mondiale si portò al fronte, dove serviva come fante, carta e pennelli che usava nei momenti liberi. Continuò a dipingere per tutta la vita, secondo i critici è autore di circa 300 opere, stando a calcoli fatti da lui stesso sarebbero almeno 600. Molte sono andate perse dopo la sconfitta del nazismo, alcune sono state vendute all’asta, altre sono conservate negli Stati Uniti, in un deposito climatizzato gestito dall’esercito americano, e non vengono mai mostrate al pubblico.

Si trovano insieme ad altre opere d’arte nazista a Fort Belvoir, in Virginia, sede della 19esima divisione di fanteria, dell’Agenzia Nazionale per l’Intelligence Geospaziale e del Centro americano di storia militare. È quest’ultimo a curare e preservare la collezione, che consiste in dipinti di grandi dimensioni, statue e scene di battaglie vittoriose, destinate all’élite nazista con l’obiettivo di legittimare e dare dignità culturale al Terzo Reich. Qui, invece, arrivarono per essere allontanate dalla Germania a guerra finita e tenute al riparo dall’ammirazione di fanatici e nostalgici di nazismo e fascismo.

Come ha raccontato un recente articolo del New Yorker, arrivarono a Fort Belvoir nel 1947, più di 70 anni fa, ed erano il frutto di due anni di lavoro di Gordon Gilkey, un giovane capitano dell’Oregon: era figlio di un allevatore e si era pagato gli studi d’arte all’università sgomberando e pulendo i campi. Nel 1939 aveva conosciuto il presidente americano Franklin D. Roosevelt, che aveva notato e apprezzato alcuni suoi dipinti per la Fiera mondiale di New York. Durante la guerra convinse Roosevelt a inviare in Europa, insieme alle truppe, un gruppo di esperti d’arte, che indicassero quali opere dovevano essere risparmiate dai bombardamenti.

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Nel 1943 Roosevelt istituì la Commissione americana per la protezione e la salvaguardia dei monumenti storici nelle zone di guerra, con a capo il giudice della Corte Suprema Owen J. Roberts. Vi facevano parte alcune delle più importanti figure americane del mondo dell’arte, come Paul Sachs del Fogg Museum di Harvard e David Finley Jr., direttore della National Gallery di New York. Erano i cosiddetti “Monuments Men” – protagonisti di un libro di Robert Edsel e Bret Witter e poi di un omonimo film diretto da George Clooney – e avevano il compito di recuperare le opere d’arte rubate dai nazisti a famiglie ebree, chiese e musei nell’Europa occupata. Gilkey non aveva le competenze necessarie per entrare nel gruppo e rimase in Texas a insegnare agli aviatori americani come leggere mappe, cartine e fotografie aeree. Poi, nel 1945, arrivò anche il suo momento.

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Durante la conferenza di Potsdam, l’ultimo vertice degli Alleati tenutosi dal 17 luglio al 2 agosto, il presidente americano Harry Truman, il primo ministro britannico Winston Churchill e il presidente sovietico Joseph Stalin si accordarono perché l’arte di propaganda nazista venisse sequestrata alla Germania. Il compito di recuperarla e portarla negli Stati Uniti fu affidato a Gilkey che per i successivi due anni setacciò l’Austria e la Germania in cerca delle opere che, nel frattempo, erano state nascoste dai loro proprietari per timore di essere scoperti e additati come nazisti. Scovò dipinti nascosti in un castello bavarese, al mercato nero sul lungofiume del Danubio, un migliaio di dipinti affidati alla protezione di un colonnello nella zona controllata dall’Unione Sovietica e altri conservati nelle miniere di salgemma di Bad Aussee, in Austria. Qui Hitler aveva ammassato anche oltre 6.000 tele di maestri del passato – tra cui Rubens, Rembrandt, Goya e Leonardo da Vinci – che a guerra finita sarebbero entrate a far parte di un museo a Linz dedicato alle arti figurative d’Europa.

Uno dei bottini più ricchi lo fece nella capanna abbandonata di un taglialegna, in una montagna al confine con la Cecoslovacchia. Pochi giorni prima della fine della guerra, infatti, un treno pieno di opere d’arte naziste diretto da Berlino alla Cecoslovacchia venne intercettato dagli aviatori americani e bombardato. Si bloccò vicino al confine e i soldati riuscirono a fuggire e a nascondere le opere nella casupola. Si diedero ai festeggiamenti e un gruppo di SS arrivato nei paraggi li scambiò per truppe americane, attaccandole e dando il via a un reciproco sterminio. Tempo dopo arrivò Gilkey, che scoprì disegni e acquerelli appartenuti a ufficiali nazisti arrotolati e nascosti sotto le assi del pavimento. Erano stati danneggiati dalla muffa e mordicchiati dai topi, alcuni erano bucherellati, tutti avevano i bordi mangiucchiati e irregolari.

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In due anni, Gilkey recuperò in tutto 8.722 opere, tra cui disegni, dipinti e schizzi, realizzati da circa 360 artisti nazisti. Li imbarcò su una nave diretta verso gli Stati Uniti e da lì arrivarono nel deposito di Fort Belvoir, dove si trovano tuttora. Completata la missione, Gilkey si dedicò alla carriera accademica e divenne decano delle arti della Oregon State University, a cui donò più di 10mila stampe che aveva raccolto durante la vita, prima di morire nel 2000.

L’arte nazista era fondamentale per il regime ed era interamente propagandista, fatta soprattutto di poster e volantini da distribuire alla popolazione; le opere più ricercate erano monumentali e ideologiche e cercavano di convincere con il peso schiacciante delle proprie dimensioni. Stilisticamente erano ispirate al realismo e cercavano di legare il presente alla grandezza passata della Germania. Hitler mise anche insieme un gruppo di artisti con il compito di seguire le truppe sul campo e immortalare le battaglie; i dipinti erano poi venduti ad alti funzionari e militari nazisti e appesi nei musei militari.

L’arte nazista era completamente diversa da quella sofisticata e all’avanguardia che c’era in Germania nel 1933, quando Hitler prese il potere. I nazisti, infatti, disprezzavano i modernisti e Hitler era convinto che «cubismo, dadaismo, futurismo, impressionismo, non hanno niente a che fare con il popolo tedesco»: secondo lui era arte ebraica e degenerata, aberrante nell’uso dei colori e nella resa di forme e proporzioni. Nel 1937 organizzò una grande mostra con i lavori dei più grandi artisti dell’epoca, tra cui Ernst Ludwig Kirchner e Paul Klee, per condannarli pubblicamente e negli anni fece confiscare opere di Pablo Picasso, Marc Chagall e Wassily Kandinsky. Allo stesso modo i nazisti odiavano la musica jazz, che consideravano senza melodia e con troppo spazio per l’improvvisazione.

La visione artistica di Hitler era molto più semplice e utilitaristica, priva di ironia, di sottigliezza e di sfumature: doveva parlare a tutti, celebrare la vita rurale, la tradizione familiare e gli ideali ariani e nazisti. Quando l’esercito tedesco occupava un nuovo territorio, ne requisiva le opere d’arte e le sostituiva con altre che glorificavano la causa nazista.

Tutti questi aspetti sono caratteristici delle opere conservate a Fort Belvoir. The Washingtonian annovera un busto di Hitler alto un metro talmente celebrativo da sembrare kitsch, ci sono dipinti che demonizzano i russi e i comunisti, come quello intitolato Terrore Rosso, dipinto nel 1942 da Willfried Nagel; mostra uno scheletro vestito di rosso che attraversa il mare su un cavallo bianco, facendo annegare le sue vittime. In alcuni Hitler è raffigurato come una divinità, altri mostrano impiccagioni pubbliche e prigionieri ebrei, altri ancora richiamano il passato feudale tedesco.

Una delle opere più note è Il portabandiera, dipinta da Hubert Lanzinger un anno dopo l’ascesa al potere di Hitler, nel 1934. Lo ritrae in armatura scintillante su un cavallo nero, con in mano una bandiera nazista. Sarah Forgey, la curatrice d’arte dell’esercito, ha spiegato al New Yorker che «è raffigurato come un cavaliere teutonico per mostrare il collegamento tra il Terzo Reich e il passato feudale della Germania». Il dipinto ha dimensioni monumentali: l’arte nazista infatti non mirava alla raffinatezza ma cercava di impressionare e soverchiare lo spettatore. A guerra finita, un soldato americano trovò Il portabandiera in una delle residenze di Hitler e lo sfregiò infilando la punta della baionetta sotto l’occhio sinistro di Hitler. Non venne restaurato e il foro è considerato una testimonianza storica.

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All’inizio ci fu il verbo fu dipinto da Hermann Otto Hoyer nel 1937. Raffigura Hitler, giovane e in abiti civili, che parla in una stanza piena di sostenitori, che spiccano dalle ombre illuminati di luce divina; è ambientato al tempo del fallito colpo di stato a Monaco del novembre del 1923 che si concluse con l’arresto di Hitler e molti seguaci. A Hitler piacque così tanto che se lo comprò. Altri due dipinti mostrano invece i primi cedimenti del progetto nazista. Uno è Hitler al fronte di Emil Scheibe, del 1942, che racconta il progetto di invadere l’Unione Sovietica: Hitler è circondato da giovani soldati tedeschi che lo guardano con adorazione. Il secondo è I combattenti del fronte orientale di Wilhelm Sauter che racconta, due anni dopo, la sconfitta di quella campagna: la guerra si è rivelata più dura del previsto, i soldati sono esausti ma indomiti.

Il deposito americano conserva anche quattro acquarelli dipinti da Hitler durante la Prima guerra mondiale. Il loro pregio è far capire immediatamente, osserva il New Yorker, perché Hitler venne ripetutamente respinto dall’Accademia viennese. Il disegno è accurato ma rigido, senza calore, privo di visione personale, senza leggerezza nel tocco. Raffigurano perlopiù scene di strada nostalgiche ma stranamente prive di vita e di persone perché Hitler non sapeva dipingere le forme umane, come ha spiegato sempre al New Yorker Sarah Forgey, la curatrice artistica dell’esercito. Uno degli acquerelli, Banchina ferroviaria (1917), ha toni terrosi, uno stile vagamente impressionista e mostra due persone, poco più di macchie blu. Fort Belvoir presta, anche se raramente, alcune opere ai musei, ma gli acquerelli sono raramente richiesti: il loro valore artistico è nullo e possono interessare solo per via dell’autore.


Delle oltre 8.000 opere recuperate da Gilkey, è rimasta a Fort Belvoir soltanto una minoranza. Già quando arrivarono in America erano viste come un problema e vennero rimpallate da un ufficio governativo all’altro prima di finire nel deposito. Nel 1950, 1.600 pezzi furono considerati innocui e restituiti all’allora Germania Ovest. Il governo tedesco li abbandonò in un magazzino a Bonn fino alla fine degli anni Settanta, quando la storia venne fuori grazie a un documentario televisivo. L’opinione pubblica spinse allora il governo a richiedere tutte le opere. Nel 1981 il presidente americano Ronald Reagan acconsentì e finirono nel Museo di storia tedesca di Berlino. Rimasero a Fort Belvoir 586 opere: 327 perché considerate violentemente filonaziste, che raffigurano svastiche e celebrano i leader del Terzo Reich, e 259 trattenute per motivi educativi; ci sono per esempio grandi scene di battaglia dipinte dagli artisti che accompagnavano l’esercito tedesco.

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Negli anni, alcuni artisti e qualche loro familiare hanno chiesto di poter riavere i propri lavori, soprattutto per motivi economici. Uno di loro, Herbert Agricola, ammise di aver dipinto scene di battaglia e impiccagioni, ma sottolineò di aver raffigurato anche paesaggi e ritratti. Eve Zimmerman, vedova dell’artista Bodo Zimmerman, scrisse al governo americano per riavere i quadri del marito: avrebbero alleviato la miseria della famiglia e aiutato a strapparlo dalla dimenticanza.