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  • Mercoledì 11 novembre 2020

I nuovi problemi con l’aborto

Mancano procedure chiare su tamponi ed eventuale positività delle donne che vogliono interrompere la gravidanza, e alcune regioni non hanno recepito le nuove linee guida del ministero

Un momento della manifestazione di Non Una di Meno davanti alla sede della regione Piemonte, Torino, 31 ottobre 2020 (Foto di Irene Ghiberto)
Un momento della manifestazione di Non Una di Meno davanti alla sede della regione Piemonte, Torino, 31 ottobre 2020 (Foto di Irene Ghiberto)

Nell’attuale momento di emergenza sanitaria sta tornando a essere complicato l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), già di norma problematico per l’alto numero di obiettori di coscienza. Le difficoltà principali hanno a che fare con la sospensione o la riduzione del servizio in alcuni ospedali (come durante la prima ondata della pandemia da coronavirus), con l’assenza di procedure chiare e uniformi su tamponi ed eventuale positività delle donne che vogliono abortire e con la mancata attuazione delle nuove linee di indirizzo ministeriali sull’aborto farmacologico, che potrebbe essere invece parte della soluzione: «Diverse regioni non le hanno ancora attivate» ci spiega Eleonora, attivista di “Obiezione Respinta”, e «nei consultori la RU486 non viene ancora somministrata per un problema burocratico-amministrativo», aggiunge Marina Toschi, ginecologa. C’è poi chi si è esplicitamente rifiutato di adeguarsi a queste nuove linee di indirizzo.

L’aborto farmacologico
Lo scorso 8 agosto, il ministero della Salute aveva aggiornato le linee di indirizzo sulla pillola abortiva RU486 annullando l’obbligo di ricovero, estendendo a nove settimane la somministrazione del farmaco, e prevedendone la somministrazione in consultorio e in ambulatorio. La riduzione delle restrizioni all’aborto farmacologico era stata una vittoria delle mobilitazioni dal basso portate avanti negli anni dai movimenti femministi, dalle associazioni che lavorano per i diritti delle donne e dalle ginecologhe non obiettrici. Era arrivata dopo il caso della regione Umbria e le conseguenti proteste, e dopo che, durante la prima ondata della pandemia, i servizi per l’interruzione di gravidanza erano stati seriamente messi a rischio.

L’aborto per via farmacologica prevede l’assunzione di due farmaci a distanza di 48 ore uno dall’altro, il mifepristone in combinazione con il misoprostolo: è una pratica sicura – come dimostra la più autorevole letteratura scientifica internazionale e come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha incluso i due farmaci abortivi nella lista delle medicine essenziali – e non richiede l’intervento chirurgico, l’anestesia e l’ospedalizzazione. In Italia la possibilità dell’aborto farmacologico, dopo molte battaglie, era stata introdotta solo nel 2009 (in Francia nel 1988 e nel Regno Unito nel 1990), ma con una serie di ostacoli: con un limite di tempo ridotto (sette settimane) rispetto a quello indicato dal farmaco stesso e adottato dagli altri paesi d’Europa (nove settimane); e con una procedura “all’italiana” che prevedeva il ricovero ordinario in ospedale di tre giorni.

Le limitazioni non hanno mai avuto l’effetto di ridurre il ricorso all’IVG, come auspicato da chi le aveva pensate e sostenute, ma solo di rendere l’esperienza più invasiva, traumatica e, in tempi di pandemia, più pericolosa e difficile. Nonostante alcune regioni italiane, negli anni, si fossero discostate dalle linee di indirizzo ministeriali introducendo di loro iniziativa il regime di ricovero in day hospital e nonostante nelle regioni dove restava valida l’obbligatorietà del ricovero le donne avessero comunque trovato il modo di aggirare il problema scegliendo, nel 90 per cento dei casi, le dimissioni volontarie, l’obbligo dell’ospedalizzazione restava sulla carta.

Durante la prima ondata dell’emergenza, l’aborto farmacologico era stato dunque uno dei primi servizi ad essere sospesi, pur essendo parte della soluzione perché avrebbe permesso di decongestionare gli ospedali sovraccarichi o riconvertiti a seguito dell’inizio della pandemia. Ora, nonostante le linee di indirizzo siano state aggiornate e le principali restrizioni alla RU486 siano state formalmente superate, il problema non è stato risolto.

I problemi con l’aborto farmacologico, di nuovo 
A fine settembre la regione Piemonte, su iniziativa di un consigliere di Fratelli d’Italia, ha diramato una circolare che non solo mette in discussione le nuove modalità di accesso alla pillola abortiva RU486 nei consultori (la vieta), ma finanzia e rafforza l’ingresso delle associazioni anti-abortiste negli ospedali pubblici: prevede infatti l’attivazione di sportelli informativi all’interno degli ospedali da parte di «idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». La delibera cita, a titolo esemplificativo, il Movimento per la vita e i Centri di aiuto alla vita (CAV) ad esso collegati: il meccanismo alla base di queste e simili associazioni, come ha spiegato l’Espresso, è inserirsi al momento dei colloqui per l’IVG, quelli dopo i quali è rilasciato il certificato medico per recarsi in ospedale. E «il colloquio non seguito dal rilascio del titolo» spiega il Movimento per la Vita in un suo rapporto «costituisce il successo della prevenzione».

Contro la delibera piemontese e per difendere il diritto ad un aborto libero e sicuro, a fine ottobre centinaia di persone sono scese in piazza a Torino per partecipare alla manifestazione organizzata dal movimento femminista Non Una di Meno sotto la sede della regione.

Il caso del Piemonte – che rientra a sua volta in un disegno molto più ampio per limitare la libertà delle donne ad ogni livello possibile – costituisce un precedente pericoloso che potrebbe essere imitato da altre regioni guidate oggi dal centrodestra (14 su 20). In alcune città, come Verona, sono già state fatte proposte simili.

Senza che sia stata presa una posizione specifica ed esplicita sulle nuove linee di indirizzo ministeriali come ha fatto il Piemonte, «diverse regioni di fatto non le hanno ancora attivate» ci spiega Eleonora, attivista di “Obiezione Respinta”: per la RU486, in alcune regioni, continua dunque ad essere valido il limite delle sette settimane di amenorrea che in realtà, dato che si conta dal primo giorno dell’ultima mestruazione, si riducono a cinque settimane di gravidanza: comunque un tempo molto limitato anche in tempi di normalità. «Le linee di indirizzo» spiega Marina Toschi, ginecologa che fa parte del direttivo dell’European Society of Contraception and Reproductive Health e che è parte di Pro-Choice, Rete italiana contraccezione aborto, «devono essere recepite formalmente dalle regioni, l’Umbria ad esempio non l’ha fatto. E questo comporta che gli ospedali, almeno in teoria, non possano fare la RU486 oltre le sette settimane né in day hospital. Nella pratica ci sono comunque ospedali che, viste le nuove linee di indirizzo del ministero, somministrano il farmaco fino alle nove settimane, perché ora nessuno può portarti in tribunale». Ma si tratta di iniziative singole, non uniformi e non risolutive.

Marina Toschi ci spiega poi che «nei consultori, così come previsto dalle linee di indirizzo, la somministrazione della RU486 non è mai partita: perché manca il nomenclatore tariffario, il costo cioè del rimborso dovuto all’azienda sanitaria per quella prestazione fornita gratuitamente. Non possono essere erogate prestazioni non specificatamente comprese nel nomenclatore e non essendo ancora stata fissata una cifra per la RU486, la prestazione non viene fornita. La situazione è dunque bloccata, senza contare il fatto che siamo tornate alla sospensione o alla riduzione del servizio di IVG in alcune strutture per l’emergenza coronavirus e che in Umbria le sedi più grandi ed universitarie di Perugia e Terni non hanno mai iniziato né ad usare né ad insegnare l’aborto farmacologico». Resta insomma un grave problema strutturale, in Italia, con la RU486: solo pochi ospedali offrono infatti la possibilità di scegliere tra farmacologico e chirurgico, e per questo motivo nel nostro paese la percentuale di aborti con la RU486 rispetto al totale delle interruzioni volontarie è pari al 17,8 per cento, contro il 97 per cento della Finlandia, il 93 per cento della Svezia o il 75 per cento della Svizzera.

IVG e tamponi
«In questo paese abbiamo rinunciato da tempo a governare la sanità, e alla fine sono soprattutto le donne a pagarne il prezzo». Elisabetta Canitano è ginecologa e presidente di Vita di Donna, associazione che fornisce gratuitamente consulenze e assistenza per qualsiasi problema di salute e sessualità e che gestisce un ambulatorio alla Casa Internazionale delle donne di Roma. Ci ha raccontato che, in queste ultime settimane,  l’associazione ha ricevuto da varie regioni segnalazioni di donne che devono praticare un’interruzione di gravidanza, che sono risultate positive al coronavirus e che vengono “rifiutate” dagli ospedali a cui si rivolgono senza la garanzia di poter effettuare l’aborto: «Una donna si è sentita dire da due diversi ospedali di Roma che non erano attrezzati per fare l’intervento su di lei, e che doveva dunque trovare un altro posto. Non è accettabile». Per questo, prosegue Canitano, «abbiamo preparato una lettera da inviare alla direzione sanitaria dell’ospedale che rifiuta l’intervento, e che si basa su un documento del ministero della Salute dello scorso marzo nel quale si dice che, in corso di emergenza COVID-19, l’IVG è tra le prestazioni non differibili». Il modulo si può trovare qui.

In quelle raccomandazioni, il ministero si limitava a fornire un elenco, senza però assumere in modo più sistematico la questione, come invece stanno facendo o hanno fatto altri paesi. C’era scritto semplicemente che l’IVG doveva e deve essere garantita. Ma come?

Eleonora, di “Obiezione Respinta”, ci ha spiegato che alla loro piattaforma «stanno arrivando tantissime richieste di informazione e aiuto: “Mi faranno un tampone prima dell’operazione?”, “Cosa succederà se risulto positiva?”, “Sono positiva, mi faranno mai l’operazione?”. Come al solito», dice, «non c’è una linea guida nazionale sulla procedura da seguire, sono pochissime le aziende sanitarie locali che hanno pubblicato dei protocolli chiari. E tutto questo causa complicazioni e ritardi»: ritardi, per una procedura in cui il tempo è un fattore fondamentale.

«Alcune aziende sanitarie, nel caso di IVG farmacologica in day hospital non richiedono il tampone, altre invece lo richiedono. Questo, oltre a creare una disparità tra regioni o singole strutture, rende macchinoso un tipo di IVG, quella farmacologica, che con la giusta organizzazione permetterebbe alle persone di slegarsi dall’ospedale. Nel Regno Unito stanno sperimentando l’aborto farmacologico per telemedicina, che consente agli operatori sanitari di supervisionare l’uso delle pillole tramite videoconferenza o consultazioni telefoniche; in Francia è stata incoraggiata l’IVG farmacologica a casa», spiega Eleonora. Ci racconta altre situazioni di particolare difficoltà in cui la telemedicina sarebbe di grande aiuto: «Abbiamo ricevuto la chiamata di una ragazza positiva, in isolamento in un cosiddetto “Covid hotel”: non poteva uscire, non poteva fare gli esami per capire l’avanzamento della sua gravidanza e dunque i termini legali entro i quali interromperla. E non aveva nemmeno la possibilità di fare il certificato per abortire. Ci siamo attivate, così come un’altra associazione che ha alla fine ottenuto il permesso di accompagnarla da un medico che si è detto disponibile a visitarla e a farle il certificato. Ma ancora una volta, la situazione si è sbloccata grazie alle associazioni e alle reti tra donne».

Sulla difformità delle procedure (tampone sì, tampone no in caso di farmacologico in day hospital) Marina Toschi dice che «più tamponi si fanno, meglio è. E dovrebbero essere gli ospedali stessi a garantirlo. Ma il problema vero è che non dovrebbe essere necessario andare in ospedale. L’aborto telemedico in casa è la soluzione: è il sistema più logico, sempre, e tanto più durante una pandemia. Ma in Italia, come dimostra il fatto che la contraccezione è gratuita in sole quattro regioni, non c’è una politica sulla salute sessuale e riproduttiva delle donne».

Il tampone è obbligatorio prima dell’ospedalizzazione, quindi viene sempre fatto prima dell’IVG chirurgica. Mario Riccio lavora presso l’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale San Giuseppe Moscati di Avellino, dove è direttore dell’unità operativa dipartimentale di ginecologia sociale e preventiva. Qui praticano sia l’aborto chirurgico sia l’aborto farmacologico «in day hospital, fin dall’inizio. È un’unità operativa che funziona bene, che ha un proprio anestesista dedicato e una propria sala operatoria». Dopo le nuove linee di indirizzo, «lo pratichiamo anche oltre la settima settimana» dice. Riccio ci spiega come funziona da loro un aborto di questi tempi: «Anche per l’IVG farmacologica in day hospital, nonostante non sia obbligatorio, facciamo il tampone al primo accesso, e dopo otto ore abbiamo la risposta: questo perché, oltre ad essere una cosa utile per la paziente, se poi si presentano delle complicazioni che richiedono un ricovero siamo già a posto».

Riccio dice che tra inizio marzo e fine maggio alla loro unità non è risultato alcun caso di donne positive: «Dallo scorso 15 ottobre in poi, invece, abbiamo avuto 4 casi di positività su circa 70 pazienti. Il primo coinvolgeva una minorenne, la procedura era dunque di carattere urgente. Quando la ragazza ha scoperto di essere positiva al coronavirus ha deciso di modificare la procedura inizialmente scelta, quella farmacologica, e di passare all’aspirazione. È stata dunque prelevata con l’ambulanza da casa, accompagnata in ospedale in una barella di biocontenimento e portata nella sala operatoria dedicata alle persone positive. Quando ha ripreso i suoi parametri vitali, sempre in una barella di contenimento è stata riportata a casa». Le altre pazienti risultate positive, ci spiega Riccio, ripeteranno invece i tamponi perché lo stato di avanzamento della loro gravidanza lo consente.

Eleonora, di “Obiezione Respinta”, conferma che «in caso di tampone positivo l’operazione potrebbe essere rinviata di 10 giorni in 10 giorni, fino ai successivi tamponi. E queste posticipazioni, per chi non vuole portare avanti una gravidanza, sono molto pesanti. C’è chi rientrerebbe nell’aborto farmacologico, ma se è risultata positiva si trova ad attendere il tampone successivo dovendo alla fine fare l’operazione, come se fosse normale e automatico passare dal prendere una pillola al fare un’anestesia; c’è chi è partita alla quinta settimana ed è arrivata alla dodicesima… si rimanda, si rimanda e solo all’ultimo, alla scadenza del termine legale, ti operano: ma portare avanti una gravidanza indesiderata non è come avere una cisti».