Ci preoccupiamo troppo dei contagi nelle scuole?

I dati raccolti finora indicano che i focolai negli istituti sono pochi e che i bambini più piccoli diffondono meno il coronavirus, scrive il sito di Nature

(Hans Gutknecht/Orange County Register via ZUMA Wire / ANSA)
(Hans Gutknecht/Orange County Register via ZUMA Wire / ANSA)

La scuola è da mesi al centro di un ampio dibattito sul ruolo che potrebbe avere nella diffusione del coronavirus, sui rischi che potrebbe comportare e al tempo stesso sulla necessità di garantire il diritto all’istruzione per milioni di studenti. I dati raccolti finora, segnala un articolo sul sito di Nature, sembrano indicare che le scuole non siano fonte di particolari infezioni, e che comunque nel caso di focolai possano essere tenute sotto controllo a patto di effettuare un efficace tracciamento dei contatti. Naturalmente le limitazioni all’attività delle scuole decise in molti paesi tengono anche in considerazione le ricadute più estese sui movimenti delle persone, sull’uso dei trasporti pubblici, sulle occasioni di contagio esterne alle scuole create dai comportamenti indotti: ma è importante anche capire meglio cosa succede al loro interno.

Malgrado i fattori di aumento dei contagi nel mese successivo all’apertura delle scuole in diversi paesi siano tutti da determinare, in numerosi paesi non è stato riscontrato un rapporto di causa-effetto tra la riapertura e l’incremento di nuovi positivi, anche se ricerche e analisi sono ancora in corso. Diversi studi hanno segnalato che i bambini non solo possono contrarre il coronavirus, ma possono contribuire a diffonderlo, anche nei numerosi casi in cui non sviluppano sintomi. Bambini e adolescenti hanno più probabilità di trasmetterlo rispetto ai più piccoli, ma non sono ancora completamente chiare le cause.

Scuole nel mondo
I dati diffusi finora dalle autorità sanitarie di diversi paesi aiutano comunque a farsi un’idea. In Italia a settembre le attività scolastiche sono riprese in circa 65mila istituti, con precauzioni e qualche apprensione sull’eventualità che il ritorno in classe di milioni di studenti, il loro utilizzo dei mezzi pubblici e le maggiori occasioni di socialità potessero incidere sensibilmente sull’andamento dei contagi. Stando alle informazioni finora diffuse, casi di contagio sono stati rilevati in circa 1.200 scuole a un mese dalla loro riapertura. I focolai veri e propri sono stati pochi e nel 93 per cento dei casi è stato rilevato un solo caso di infezione in una classe o in un istituto.

La mancanza di dati aggiornati e completi complica però la valutazione dell’impatto della scuola sulla pandemia in Italia. Da settimane non sono disponibili tramite i canali istituzionali dati ufficiali affidabili per fare stime più approfondite, e che potrebbero aiutare a comprendere il fenomeno.

Negli Stati Uniti il coronavirus circolava ampiamente tra la popolazione ancora prima della riapertura delle scuole, avvenuta ad agosto, e l’aumento dei contagi ha interessato anche gli istituti scolastici, senza particolari differenze negli andamenti rispetto al contesto generale.

In Inghilterra è emerso come nel caso dei contagi a scuola i più interessati siano comunque gli adulti. La maggior parte dei 30 focolai rilevati lo scorso giugno ha riguardato la trasmissione tra personale scolastico, mentre la diffusione tra gli studenti è stata marginale.

Nello stato di Victoria, in Australia, i focolai nelle scuole sono stati rari anche nel corso della seconda ondata che ha interessato la zona lo scorso luglio. I contagi sono avvenuti in un contesto in cui non tutte le scuole erano regolarmente aperte e con diverse altre restrizioni per la popolazione. Circa due terzi dei 1.635 casi di contagio rilevati nella scuole sono stati limitati a un solo caso.

Pochi contagi
Nature
segnala che a oggi i ricercatori non sanno dire con certezza come mai i contagi a scuola siano relativamente contenuti. Ipotizzano comunque che i bambini e gli adolescenti – soprattutto nella fascia di età tra 12 e 14 anni – siano meno a rischio di venire contagiati rispetto agli adulti. Se sviluppano comunque un’infezione, hanno meno probabilità di trasmettere il coronavirus ad altri. Questa condizione riguarda anche i bambini molto piccoli, con età fino a 5 anni.

Un’analisi dell’andamento dei contagi nelle scuole in Germania ha rilevato una minore incidenza tra i bambini con età compresa tra i 6 e i 10 anni, rispetto alle classi con studenti più grandi e in generale al resto della popolazione scolastica costituita da adulti. I dati indicano che il potenziale di trasmissione del virus aumenta con l’età e che gli adolescenti hanno più o meno la stessa probabilità di contagiare il prossimo rispetto a quella di un adulto. Per questo soprattutto nelle scuole superiori dovrebbe essere sempre indossata la mascherina e, se possibile, si dovrebbero privilegiare soluzioni per la didattica a distanza.

Evidenze analoghe sono state raccolte da alcuni ricercatori negli Stati Uniti. Hanno calcolato che il tasso d’infezione è doppio nella fascia di età 12-17 anni, rispetto a quella 5-11 anni. L’incidenza è più alta tra gli studenti delle superiori, poi tende a ridursi nelle scuole medie e nelle elementari.

Il problema della maggior parte di questi studi è che si basa per lo più sui casi positivi che vengono rilevati in seguito alla comparsa dei sintomi tra i bambini, mentre non sono compresi gli asintomatici, più difficili da rilevare soprattutto nei paesi dove si è scelto di testare solamente chi presenta sintomi. Un’analisi svolta nel Regno Unito ha rilevato che negli individui infetti con età compresa tra 2 e 15 anni circa la metà non sviluppa sintomi.

Trasmissione
I ricercatori stanno cercando di capire come mai i bambini più piccoli trasmettano meno il coronavirus rispetto ai più grandi. Un’ipotesi è che emettano una minore quantità di particelle virali parlando e respirando, perché il loro apparato respiratorio è ancora di dimensioni contenute, se paragonato a quello dei bambini più grandi e degli adulti. Per alcune malattie infettive questa circostanza è stata verificata, ma nel caso della COVID-19 mancano ancora studi sufficientemente approfonditi.

Oltre agli aspetti fisiologici, ci potrebbero essere fattori sociali e legati al comportamento che aiutano a spiegare la differenza nella contagiosità tra bambini e adolescenti. In linea generale, i bambini che frequentano le elementari tendono a seguire più diligentemente le indicazioni degli insegnanti, sia sull’uso dei dispositivi di protezione individuale sia sulle buone pratiche di igiene, come lavarsi spesso e bene le mani. Gli adolescenti sono più difficili da tenere sotto controllo e tendono ad avere una maggiore vita sociale, talvolta sottovalutando comportamenti a rischio, soprattutto se non sono spiegati loro in maniera efficace e aiutandoli a comprendere l’importanza delle precauzioni per ridurre la diffusione del contagio.

Sulla base dei dati disponibili finora il rischio di infezione a scuola sembra essere relativamente basso, specialmente nei contesti in cui la trasmissione del coronavirus è bassa tra la popolazione. All’aumentare dei contagi, come sta avvenendo ormai da diverse settimane in numerosi paesi europei compresa l’Italia, la situazione naturalmente cambia e diventa più difficile isolare l’analisi su ciò che avviene nelle scuole dal resto.