Una canzone di Grant-Lee Phillips

Che mise insieme i Novanta e gli Ottanta, incollandoli con le chitarre

(Rick Diamond/Getty Images for Americana Music)
(Rick Diamond/Getty Images for Americana Music)

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Stevie Wonder ha pubblicato due canzoni militanti, con parecchi altri dentro.
Venerdì esce il disco di Francesco Bianconi (Francesco Bianconi dei Baustelle) e c’è questa canzone. Non so se il testo abbia delle banalità (“il potere”, lo sprezzo demagogico verso obiettivi facili, gli attacchi contro i discografici, il compiacimento di dire “alla tua fica”) oppure sia – quasi – tutto una citazione deliberata di Battiato.

Under the milky way
Non vorrei che la mia palese predilezione per il pianoforte facesse sentire discriminati i chitarristi. Ci mancherebbe: si sono fatte cose notturne, dolci e meravigliose, con le chitarre. Una chitarra era già protagonista della versione originale di Under the milky way dei Church, band australiana con un suo culto* internazionale soprattutto negli anni Ottanta (la canzone è del 1988), anche se lì era memorabile pure quella specie di cornamusa prodotta con un synclavier. Andò forte negli Stati Uniti e fu usata in molti contesti e occasioni.

*una volta che il termine “culto” ha un senso meno pigro del solito.

Pochi anni dopo l’inizio di quel successo Grant-Lee Phillips, cantautore rock californiano di quelli con la chitarra al collo, ribattezzò la sua band Grant Lee Buffalo ed ebbe finalmente un discreto seguito nel decennio ruggente dell’alternative rock americano: il periodo in cui – dal grunge in giù – gli americani riscoprirono e ripensarono il rock tradizionale chitarra-basso-batteria e ci colonizzarono mezzo mondo dopo le sbornie sintetiche britanniche degli anni Ottanta. Pianoforti, pochi, in quel mondo là.

Nel 1999 Phillips sciolse la band e si mise in proprio, recuperando più spesso la chitarra acustica rispetto a quella elettrica, e a un certo punto fece uno strano disco di cover degli anni Ottanta, molto bello, in cui mise in relazione i due opposti decenni summenzionati, a dire che le buone canzoni sono buone canzoni comunque le arrangi. Oppure a dire il contrario, che a seconda di come le arrangi le canzoni migliorano o peggiorano di molto? Propendo per la seconda, ma nel caso di Under the milky way vale la prima: era ottima nell’originale, lui la rese diversamente ottima spegnendo la luce tutto intorno e lasciando solo la chitarra e lui che pronuncia la canzone, su una base lugubre e preziosa.

And it’s something quite peculiar
Something shimmering and white
Leads you here despite your destination
Under the Milky Way tonight

(Buffo come il suono di peculiar – e il suo maggiore uso in generale, certo – renda la parola così frequente nelle canzoni anglofone: “and I’m floating in a most peculiar way”, eccetera. Qui da noi nessuno normale direbbe “peculiare” in una canzone).


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