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  • Giovedì 24 settembre 2020

Come andrà stavolta nelle RSA

Abbiamo parlato con medici ed esperti per capire come affronteranno l'autunno le strutture che assistono gli anziani: tutti si sentono più preparati che a marzo, ma a una condizione

Un ospite della Fondazione Martino Zanchi di Alzano Lombardo riceve la visita di due parenti. (AP Photo/Luca Bruno/Lapresse)
Un ospite della Fondazione Martino Zanchi di Alzano Lombardo riceve la visita di due parenti. (AP Photo/Luca Bruno/Lapresse)

A mesi di distanza dai giorni in cui il coronavirus faceva delle stragi nelle strutture per anziani del Nord Italia, le case di riposo e le RSA hanno ricominciato ad aprire le aree comuni, permettendo un po’ di socialità agli ospiti, che da qualche mese sono tornati anche ad avere visite in presenza dai propri parenti, tra molte precauzioni e protezioni. Il ricordo delle settimane di marzo e aprile in cui mancava tutto a partire dalle mascherine, e il virus nelle case di riposo si comportava come «un cerino in un pagliaio», è ancora vivo e doloroso per chi ha perso un proprio caro o ha lavorato in una delle strutture colpite dall’epidemia. Ma da allora tante cose sono cambiate, e ora chi si occupa di RSA condivide un cauto ottimismo sulle prospettive per i prossimi mesi.

Ottimismo subordinato però a una condizione, condivisa un po’ da tutti nel settore: che occorre continuare ad applicare un gran rigore alle visite dall’esterno. Soprattutto con l’avvicinarsi dei mesi invernali, il modo migliore di proteggere gli anziani nelle RSA dal coronavirus è impedire che entri nelle strutture. «Il virus nelle case di riposo è stato portato dall’esterno: trovo pretestuosa la polemica sulle limitazioni alle visite dei parenti, la prudenza vuole che si stia molto attenti» spiega Franco Massi, presidente di UNEBA, la principale organizzazione di categoria del settore sociosanitario e assistenziale.

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, tra febbraio e aprile il tasso di mortalità per coronavirus e sindromi simil-influenzali nelle RSA e case di riposo italiane è stato del 3,1%, con picchi del 6,5% in regioni come la Lombardia. Oggi non è più possibile risalire a quante tra le migliaia di morti sospette avvenute in quelle settimane fossero causate dal coronavirus. Ma chi la scorsa primavera ha lavorato o ha avuto a che fare con una struttura per anziani non ha molti dubbi. «Nella nostra struttura c’è stato un solo decesso accertato, ma purtroppo è morta circa la metà degli 80 ospiti. Il sospetto è che siano tutti per COVID, anche se non ne abbiamo la certezza» racconta Luca Laffranchi, che presiede una casa di riposo a Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia.

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Ma le cose oggi vanno molto meglio. «Il problema in questo momento non esiste» dice Laffranchi. Gli ospiti della casa di riposo sono testati di frequente, e sono sempre negativi. «Adesso si è tornati alla normalità: le visite sono permesse, con tutti i protocolli, e la riapertura delle sale comuni è di gran conforto agli ospiti». Nel corso dell’estate, gran parte delle RSA e delle case di riposo italiane ha potuto approfittare degli spazi all’aperto, dai cortili ai giardini, per permettere un minimo di aggregazione tra gli ospiti e svolgere le visite in relativa sicurezza, con l’ausilio di mascherine, distanziamento e talvolta pannelli di plexiglas.

A breve questo non sarà più possibile, e probabilmente serviranno maggiori rigori nell’organizzazione dei momenti settimanali in cui gli ospiti possono passare un po’ di tempo con i propri cari. «Le lamentele dei parenti sono comprensibili, ma non c’è altro rimedio» dice un medico piemontese che lavora in una casa di riposo da un centinaio di ospiti. «Spero che non comincino battaglie demagogiche su questo tema, perché rischiamo di ritrovarci in situazioni come quelle di aprile».

Il figlio di un’ospite della RSA Pio Albergo Trivulzio con un cartello per chiedere di poter vedere la madre, il 22 maggio. (Claudio Furlan/LaPresse)

Laffranchi si dice «moderatamente ottimista» sul fatto che «se anche dovessero ripresentarsi casi di contagio nella struttura, saremo attrezzati per rispondere». L’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale, una delle difficoltà principali delle settimane di emergenza nelle case di riposo, ora non è più un problema. Le direttive regionali impongono poi di tenere libere un certo numero di camere – in Lombardia sono il 5% di quelle presenti nella struttura – per isolare tempestivamente eventuali ospiti sospetti o positivi. La mancanza di spazi per separare i sani dai contagiati era stata un’altra delle ragioni della propagazione a tratti incontrollata del virus nelle strutture, in primavera.

Oggi poi le strutture hanno costruito rapporti di comunicazione e collaborazione con le ASL generalmente efficienti, che consentono di richiedere i tamponi e di riceverli con relativa solerzia. Non è detto che il sistema nazionale che somministra i test sia pronto a rispondere alla grande richiesta che arriverà con le sindromi influenzali, inizialmente indistinguibili dalla COVID-19. Ma oggi la macchina dietro ai tamponi è estremamente più efficiente e potente rispetto alle prime settimane dell’epidemia, e ha sviluppato un occhio di riguardo proprio per le strutture assistenziali e residenziali per anziani, nelle quali spesso applicare il distanziamento e l’isolamento, come nelle scuole, è difficile se non impossibile. E quindi serve capire in fretta se c’è qualche ospite positivo.

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Ma l’efficacia delle misure di isolamento all’interno delle RSA sarà strettamente collegata alla diffusione del vaccino anti-influenzale, che permetterà di ridurre il numero di ospiti che contrarranno la normale influenza, limitando i falsi allarmi. «I primi a essere vaccinati saranno gli ospiti delle case di riposo e il personale, e questo è positivo» spiega Massi. «Ma qualche regione è in ritardo nell’approvvigionamento, ed è importante che arrivi a inizio ottobre e non a novembre». 

Tra le tante cose migliorate, è rimasto invece il problema della carenza di infermieri. Il loro basso numero nelle strutture, secondo qualcuno, ha avuto un ruolo nella diffusione del contagio tra gli ospiti, non assistiti con la dovuta cura e professionalità, anche al netto della mancanza dei dispositivi di protezione individuale. I posti annuali nelle scuole infermieristiche sono insufficienti per formare tutto il personale di cui ci sarebbe bisogno, e le strutture faticano a trovarne anche perché spesso non sono considerate posti attraenti in cui lavorare, tra le altre cose per le condizioni contrattuali generalmente meno vantaggiose rispetto alla sanità pubblica. A una progressiva diminuzione del personale con formazione specializzata nelle strutture, negli ultimi anni, si è sommato peraltro un parallelo aumento dell’intensità assistenziale sanitaria garantita agli ospiti.

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Nei giorni dell’emergenza, poi, questo problema è stato aggravato dalle assenze di personale dovute alle quarantene obbligatorie o cautelative. Questo ha creato gravi conseguenze sull’organizzazione del lavoro quotidiano e sulla continuità dell’assistenza agli ospiti, e anche sulla gestione economica delle strutture. Decine di ospiti morti nel giro di poche settimane vogliono dire altrettante famiglie in lutto, ma anche decine di rette in meno per tante case di riposo, almeno nel Nord Italia. Con i nuovi ingressi che per ragioni prudenziali sono stati a lungo sospesi, ci sono strutture che hanno visto dimezzarsi le rette per diversi mesi, che teoricamente dovrebbero essere finanziate per metà dal sistema sanitario nazionale e per metà dai residenti o dalle loro famiglie (in realtà spesso la quota pagata privatamente è superiore).

«La preoccupazione più grande adesso riguarda l’aspetto economico» spiega Laffranchi. «Ancora oggi siamo sottodimensionati, e abbiamo accumulato una grossa perdita» a cui si è fatto fronte prevalentemente con l’iniziativa privata, in mancanza di adeguati aiuti pubblici e regionali. La speranza, dice Massi, è che le regioni rispettino gli impegni presi quando fu stanziato il budget per il 2020 per le RSA e le case di riposo – in Lombardia si parla di circa 1,3 miliardi di euro – anche se servirebbero risorse aggiuntive.

Non è facile invece fare un bilancio di quali siano state le conseguenze della pandemia sulla salute psicologica degli anziani nelle case di riposo. Una buona percentuale degli ospiti delle strutture, infatti, non si è probabilmente nemmeno resa conto di cosa sia successo. Come spiega il direttore di una casa di riposo lombarda «nelle case di riposo, il vicino di letto che muore è una cosa normale. Non è normale che succeda a decine di ospiti nel giro di poche settimane: ma se è stato facile percepire le dimensioni del fenomeno per chi nelle strutture ci lavorava, o per chi stava fuori, non è scontato che sia stato lo stesso per gli ospiti».

Il peso della pandemia, per molti anziani nelle RSA, si è misurato principalmente nella sospensione delle visite dei famigliari. Anche da quando sono riprese, un incontro settimanale di un quarto d’ora, a distanza e con mascherina, non è di grande conforto, specialmente per gli ospiti con problemi cognitivi, oppure alla vista e all’udito. Ma per quanto doloroso, e nonostante le talvolta vivaci proteste dei parenti, chi è nel settore dell’assistenza agli anziani crede che mantenere alta l’asticella della prudenza sia l’unica soluzione per evitare di ritrovarsi nella situazione di qualche mese fa.