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  • Sabato 12 settembre 2020

Paul Gascoigne e l’azione salvifica del talento

È una delle storie di grandi sportivi con carriere sfortunate raccontate dagli autori dell'Ultimo Uomo nel libro “La caduta dei campioni”

Paul Gascoigne durante un'amichevole tra Inghilterra e Camerun nel 1991. (Nick Potts/ Allsport UK/Getty Images)
Paul Gascoigne durante un'amichevole tra Inghilterra e Camerun nel 1991. (Nick Potts/ Allsport UK/Getty Images)

È uscito da alcuni giorni La caduta dei campioni, una raccolta di dieci racconti sportivi pubblicata da Einaudi con il sottotitolo “Storie di sport tra la gloria e l’abisso”. Li hanno scritti alcuni degli autori dell’Ultimo Uomo, la più apprezzata rivista di sport online italiana, raccontando le storie di dieci sportivi – calciatori, tennisti, nuotatrici, ciclisti e cestisti – che hanno in qualche modo sprecato il loro grande talento, per sfortuna o per colpa, o più spesso per tutte e due le cose. Come Paul Gascoigne, leggendario centrocampista inglese degli anni Ottanta e Novanta che giocò anche per alcune stagioni alla Lazio: uno con un grandissimo talento che però fece parlare di sé più per i suoi comportamenti eccentrici e per i problemi di alcolismo. Ma la sua storia è più complessa di così, come ha raccontato Fabrizio Gabrielli: in realtà è una storia di salvezza.

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Wembley, dicembre 1990: l’Inghilterra sfida una selezione di stelle del Mondiale italiano, una specie di revival per rinfocolare il ricordo di un’estate in cui sembrava davvero che gli inglesi fossero tornati competiti- vi (al Mondiale si erano classificati quarti). Il pretesto vero è la centoventiseiesima e ultima partita di Peter Shilton con la maglia dei Tre Leoni. Shilton è l’uomo che se avesse anche solo sfiorato quel pallone sotto il sole accecante dell’Estadio Azteca, nel 1986, contro l’Argentina, togliendolo dalla porta, ci avrebbe privati dell’espressione barrilete cósmico, nonché del gol del secolo. Per ovvi motivi, alla sua partita d’addio, Diego Armando Maradona non c’è.

Al sessantesimo Tony Daley passa la palla al numero 8 che la controlla, la lascia sfilare tra le gambe ingannando uno, due difensori; dribbla il portiere, segna. L’ultima finta somiglia a quella con cui Maradona ha messo a sedere Shilton quattro anni prima, ha la stessa arroganza. Quel numero 8, che in una foto presto divenuta iconica verrà immortalato mentre abbraccia da dietro l’arbitro George Courtney mettendogli le mani sui testicoli, ha il disincanto sorridente di tutte le next big things. Si chiama Paul, Paul Gascoigne. Anche se tutti lo chiamano Gazza.

Ha esordito con l’Inghilterra appena due anni prima. Veniva da una stagione strepitosa al Newcastle che gli era valsa l’ingaggio da parte del Tottenham, e Bobby Robson, il ct della Nazionale dei Tre Leoni, se ne era innamorato. Di lui diceva: «In futuro avremo bisogno di giocare con due palloni, uno per Gazza e uno per il resto della squadra». Ne aveva riconosciuto il genio grezzo, eppure inarginabile, l’anarchia.

Quando Gazza partiva in dribbling non dava mai l’impressione di essere in pieno controllo della situazione. La sua andatura era tutta uno scivolio. La sequenza di finte, di movimenti rigidi con cui beffava gli avversari, anche nello strettissimo, sembrava una gag di Benny Hill, ma spogliata del senso del ridicolo. Le venti, trentamila persone che lo osservavano dagli spalti sembrava- no solo un impiccio, un bug dell’intimità. Il talento di Gazza si bastava. Nel suo oscillare non c’era leggiadria, ma qualcosa dell’ubriachezza che sfocia in una rissa da pub. Una sensibilità nata e affinata in un parcheggio di cemento, nel grigiume industriale.

Suo padre faceva il trasportatore di mattoni. All’interno dei cantieri edili, il gradino piú infimo della scala gerarchica. Di mattoncini rossi era anche l’edificio del Council di Gateshead, conurbazione ad alta densità proletaria di Newcastle, in cui Gazza è cresciuto dopo esserci nato Paul John, cosí battezzato in onore delle due anime antitetiche dei Beatles, che proprio il giorno prima della sua venuta al mondo, il 27 maggio del 1967, avevano pubblicato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Si lasciava ossessionare facilmente, Paul, da ragazzino: dall’ordine, dalla ripetizione di sequenze predefinite, dalla tangibilità delle cose. Nelle ossessioni cercava rassicurazione: tenere le luci sempre accese, accertarsi che le porte fossero aperte, chiuderle, riaprirle. Toccarle. E poi di notte, all’improvviso, gli veniva paura. Una paura immotivata, e gigantesca, di morire. A dieci anni, mentre girava per il quartiere con gli amici, il fratellino di uno di loro, affidato alla sua custodia, venne investito da una macchina. Morí sul colpo. Il padre, colpito da emorragia cerebrale, rischiò di lasciarlo orfano. È cresciuto a contatto con la caducità della vita. Col senno di poi diremmo che avrebbe interiorizzato una certa ansia per l’oblio.

Un giorno, quando era uno scricciolo, una zingara lesse la mano a sua madre. Le disse: «Ci sono cosí tanti piedi nella tua mano che sembra possano uscir fuori da un momento all’altro!» Poi aggiunse: «Uno dei tuoi figli diventerà famoso grazie ai piedi». Sua madre pensò subito ad Anna, la figlia maggiore, che faceva la ballerina.

Paul era un ragazzino turbolento, pieno di tic nervosi, iperattivo, indomabile. Ma anche dotato di un talento cristallino. Nelle giovanili del Newcastle entra a tredici anni: quasi dieci piú tardi, mentre gioca con l’Under 23, segna un gol strepitoso al Watford, da quaranta metri. Jack Charlton, campione del mondo nel ’66, si trova ai bordi di quel campo: «Serviranno mille anni per rivedere un gol cosí», sussurra al suo vicino di posto.

La categoria del Genio, di per sé, non basta a definire Gazza, che ha sempre avuto qualcosa di weird, di capriccioso, non catalogabile, ed estremamente fragile. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta c’era bisogno di nuove sensazioni, nel calcio inglese. Di nuovi fenotipi calcistici irriverenti e sfrontati. Gazza era il modello perfetto per quel tipo di abito.

Stan Seymour, il presidente del Newcastle, una volta lo definí «un George Best senza cervello». Lo stesso Best si lasciò sfuggire una frase maligna: «Indossa la maglia numero dieci: pensavo fosse la sua posizione invece è semplicemente il suo quoziente intellettivo».

L’ipotesi del fallimento è uno degli sviluppi potenziali di ogni carriera: per essere fragoroso, però, un fallimento necessita di presupposti grandiosi. Ogni aspetto di Gazza, dal suo gioco a una marcata predisposizione all’esuberanza, in effetti, era grandioso.

Del Mondiale di Italia ’90 giocato da Paul Gascoigne conserviamo sprazzi di classe assoluta, pose circensi, che erano in realtà espressione di un fallimento in itinere. Nell’arco di un mese, di un’estate mediterranea, l’at- tesa per un giocatore dal talento sopra la media si tra- sforma in mania: Paul Gascoigne viene soppiantato da Gazza, personaggio da showbiz, saltimbanco, icona di un colosso che poteva benissimo essere fatto d’argilla.

Durante i tempi supplementari della semifinale con la Germania, a partita ancora aperta, interviene con irruenza su Thomas Berthold, e l’arbitro lo ammonisce. Gazza scoppia in lacrime: quel cartellino giallo potrebbe privarlo della possibilità di giocarsi la Coppa del Mondo, non può sopportarne il peso. In mondovisione l’immagine del gradasso impunito che lo aveva accompagnato fin lí si sfalda in una cascata di trucioli. Gazza entra nel cuore dei tifosi. «Prima di Gascoigne chi altri è diventato un eroe nazionale e un milionario semplicemente piangendo? – si chiede l’indomani Salman Rushdie. – Favoloso. Lacrima, e il mondo lacrimerà con te».

Sono gli anni Novanta, il confine di una decade in cui nel calcio era ancora possibile fallire. Il calcio è stata la prima dipendenza di cui Paul Gascoigne ha scoperto di non poter fare a meno: ne seguiranno altre. La routine giornaliera, l’uniforme, un ruolo definito, la possibilità di viaggiare, di avere soldi, di essere amato lo fanno sentire al sicuro, sono tutto ciò di cui ha bisogno. Tutto ciò che ha. La sua famiglia surrogata.

Poco prima di trasferirsi a Londra, a un colloquio interlocutorio con Terry Venables, coach degli Spurs, Gazza si presenta con un orso di peluche gigante, al quale – con la voce impastata e il suo accento geordie – fa condurre la trattativa. Sembra un gesto infantile, un po’ pazzo: è un grido di solitudine.

Alla seconda stagione con gli Spurs, nel 1991, è protagonista di una cavalcata esaltante in FA Cup. Nel giorno del mio decimo compleanno ricordo di avergli visto distruggere in coppia con Gary Lineker, in diretta su TMC, l’Arsenal: il mio regalo era stato Gazza II, un videogame per Commodore 64 che non possedeva particolari pregi se non quello di avere, in copertina, il suo volto. Al gol di Gascoigne su punizione da 34 iarde sono rimasto imbambolato davanti alla tv, quasi confuso. Senza che me ne rendessi conto lo tsunami della Gazzamania mi aveva travolto.

La finale a Wembley contro il Nottingham Forest sarebbe potuta essere l’occasione per affermarsi definitivamente. Dopo un quarto d’ora però gli Spurs sono già sotto. Palla al centro, e Gazza che stizzito entra a gamba tesa e con il piede a martello all’altezza del ginocchio di un avversario, il quale riesce a schivarlo quel tanto che basta per farlo uscire incolume. A Gascoigne, invece, saltano i legamenti crociati del ginocchio destro.

La Coppa la vedrà alzare al cielo dai suoi compagni in tv, in ospedale, dove avrebbe passato il suo ventiquattresimo compleanno. Sarebbe rimasto fuori per mesi, a volte si spingeva a convincersi che potesse anche essere per sempre. Chi lo avrebbe voluto piú? Era terrificato dal pensiero che per colpa di un gesto folle, e stupido, avesse buttato via la carriera. Quello della finale di FA Cup sarebbe stato il primo di una serie di infortuni autoindotti, una specie di autosabotaggi, sempre sul piú bello, sempre a una spanna dalla magnificazione. Infortuni sopraggiunti sistematicamente a seguito di un’aggressione, come se a danneggiarlo fosse la troppa veemenza.

Una volta Michael Caine ha detto, di Gazza, che gli ricordava Marilyn Monroe: «Non era la piú grande attrice del mondo, ma era una star. E non te ne fregava niente se arrivava in ritardo». La Lazio, al momento dell’infortunio, aveva già acquistato il suo cartellino: forse per una questione di eleganza non si tirerà indietro, ma strapperà un sostanzioso ridimensionamento dell’importo da versare nelle casse degli Spurs. Nel campionato delle Sette sorelle arriverà, in effetti, con quindici mesi di ritardo, un tempo inaccettabilmente dilatato, paradossale, come le sue smorfie e i suoi atteggiamenti: i tifosi della Lazio avrebbero imparato presto ad amare la sua natura duplice, formidabile e vulnerabile insieme. Non era un simbolo di supremazia, aveva gambe che sembravano fragili, sempre sul punto di spezzarsi, ma la testa dura, che pareva poter dominare il vento.

Di Gascoigne tendiamo sempre a definire incoscienza, con tono di rimprovero, qualcosa che somiglia di piú all’inconsapevolezza, per la quale dovremmo invece provare compassione. Nel 1994, durante una partita d’allenamento, la sua squadra subisce un gol, del quale viene scherzosamente incolpato. Forse per sdebitarsi, per smentire l’arrendevolezza che gli imputano, entra in tackle su un giovane della Primavera, che fortunatamente riesce a schivarlo. La gamba di Gazza, invece, si rompe: nel suo ginocchio Gascoigne vede aprirsi una voragine di cinque centimetri di diametro, tibia e perone in frantumi, un altro anno lontano dal campo. Il giovane della Primavera si chiama Alessandro Nesta.

Del Gazza romano, oggi, conserviamo il ricordo di una fragilità fisica insospettabile, non foss’altro perché il lato piú debole, teoricamente, sarebbe dovuto essere quello emotivo. La figura della fidanzata eterna Sheryl, che è anche la sua kryptonite, sulla quale Gazza sfoga ogni inquietudine, è piú temuta dai tifosi dei tackle avversari, dai quali Gazza dimostra di saper rifuggire scaltro. Non si può dire fosse altrettanto abile ad accettare la personalità estroversa di Sheryl. Per una parentesi di sette mesi, in cui sono lontani, Gascoigne trova forse la sua forma migliore. Si allena cinque volte al giorno, ha anche smesso di bere. Un giorno lo chiamano dagli uffici dirigenziali: dobbiamo dirti una cosa, gli annunciano, ma non è che vogliamo tanto, perché stai giocando bene, sei cambiato. «Put me out of my misery», risponde lui spalancando il petto. Sa già quale sarà il colpo di grazia: Sheryl lo sta cercando. Ha chiamato gli uffici di Formello perché non ha piú il suo numero. I due tornano insieme, Gascoigne ripiomba nelle storture di Gazza. Ogni dimensione che nella sua testa ha le fattezze della panacea finisce per spalancarglisi innanzi come un baratro.