Trump ha minimizzato le conseguenze del coronavirus pur sapendo quanto fosse letale

Non lo sappiamo attraverso una fuga di notizie, né sono accuse dei suoi avversari: lo ha detto lui stesso a Bob Woodward

Donald Trump alla Casa Bianca, Washington, 9 settembre 2020 (Doug Mills-Pool/Getty Images)
Donald Trump alla Casa Bianca, Washington, 9 settembre 2020 (Doug Mills-Pool/Getty Images)

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump era consapevole dei rischi legati al coronavirus già dai primi mesi dell’anno, e ne ha volutamente minimizzato le conseguenze descrivendolo come una comune influenza. Non lo sappiamo attraverso una fuga di notizie, né sono accuse rivoltegli dai suoi avversari: lo ha detto lui stesso a Bob Woodward, famoso e rispettato giornalista del Washington Post che negli anni Settanta indagò sul caso Watergate insieme a Carl Bernstein. Il nuovo libro di Woodward si intitola Rage e non è ancora uscito, ma diversi giornali e tv ne hanno pubblicato alcuni passaggi notevoli, facendo ascoltare parti delle 18 interviste che Woodward ha fatto a Trump da dicembre 2019 a luglio 2020 e che contengono dichiarazioni sulla pandemia, sul razzismo e altre questioni ancora.

Il 9 settembre, durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, alla domanda dei giornalisti se avesse volutamente minimizzato i rischi della pandemia per ridurre il panico tra la popolazione, come raccontato da Woodward, Trump ha risposto così: «Beh, se dite “per ridurre il panico” allora forse è così. Il fatto è che sono un sostenitore di questo paese, amo questo paese, e non voglio che la popolazione sia spaventata. Non voglio creare panico, come dite».

Fin da febbraio Trump aveva cercato di sminuire la gravità della COVID-19, paragonandola all’influenza stagionale, e svalutando l’importanza delle misure anti-contagio. Aveva criticato molto i lockdown decisi dagli stati, da mesi irride chi indossa le mascherine, ha dato dell’allarmista a Anthony Fauci, il principale consulente della Casa Bianca sulle malattie infettive, promosso presunte e screditate terapie miracolose e ripetuto che il virus sparirà da solo. Ha insistito sulla necessità di ridurre il numero di test effettuati perché per moltissimi la COVID-19 è praticamente un raffreddore. Dalle interviste date dallo stesso Trump a Woodward, però, emerge tutta un’altra storia.

A febbraio Trump ha detto a Woodward di sapere quanto il virus fosse pericoloso, trasmissibile per via aerea, molto contagioso e molto «più letale di una forte influenza». Trump definiva la pandemia «una questione molto complicata, molto delicata»: «È più mortale dell’influenza più pesante. È roba letale». Il coronavirus, aveva aggiunto, «ha un tasso di mortalità del 5 per cento rispetto all’1, o anche meno, delle altre influenze». Woodward dice anche che il 28 gennaio Trump era stato informato che il virus sarebbe stato la più grande minaccia della sua presidenza dal consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O’Brien. Trump ha detto a Woodward che non riusciva a ricordare quell’avvertimento.

In un’intervista del 19 marzo Trump aveva poi ammesso di aver sempre voluto minimizzare la pandemia: «E preferisco ancora sminuire, perché non voglio creare panico». Dopo le anticipazioni, la portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, ha spiegato che Trump non ha mai mentito, ma ha voluto semplicemente tranquillizzare gli americani: «Quando si affrontano sfide molto difficili, è importante esprimere un senso di fiducia e calma».

Il libro di Woodward riporta anche alcuni estratti delle lettere fra Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un da cui emerge una «profonda e speciale amicizia» che funzionerà «come una forza magica»; riporta le dichiarazioni sulla poca stima di Trump verso il suo predecessore Barack Obama, giudicato «poco intelligente» e «un cattivo oratore», e altre dichiarazioni ancora sul razzismo negli Stati Uniti: Trump dice di aver fatto per gli afroamericani più di qualsiasi altro presidente a parte Abraham Lincoln, ma spiega anche di non provare «alcun amore» per la comunità nera. Il Washington Post cita infine un’intervista in cui Woodward chiede al presidente se negli Stati Uniti ci sia un problema di razzismo sistemico e lui, dopo aver chiarito che queste questioni esistono ovunque, aggiunge che negli Stati Uniti sono meno gravi che altrove.