• Mondo
  • Martedì 11 agosto 2020

Kamala Harris è la candidata vice presidente di Joe Biden

È la prima donna non bianca candidata alla vicepresidenza nella storia degli Stati Uniti, e allo stesso tempo la scelta più attesa e meno rischiosa

(Mason Trinca/Getty Images)
(Mason Trinca/Getty Images)

La senatrice californiana Kamala Harris è stata scelta come candidata alla vice presidenza degli Stati Uniti da Joe Biden, il candidato del Partito Democratico. È una decisione storica: Harris è la prima donna non bianca candidata alla vicepresidenza nella storia degli Stati Uniti, e la terza donna in generale. Nessuna donna è mai stata eletta alla vicepresidenza degli Stati Uniti, così come alla presidenza. «Una combattente senza paura per i più deboli, e una dei migliori servitori pubblici del paese» ha scritto Biden su Twitter, ricordando il periodo in cui Harris lavorò insieme a suo figlio Beau Biden, ex procuratore generale del Delaware, morto di tumore nel 2015.

La decisione di Biden è arrivata dopo settimane di attesa e ipotesi, ma non è stata particolarmente spiazzante: nonostante le molte alternative possibili e le molte persone vagliate da Biden, Harris è stata sempre considerata la scelta più probabile e meno rischiosa, e negli ultimi giorni era diventato chiaro che Biden avrebbe scelto una tra lei e l’ex consigliera alla sicurezza nazionale Susan Rice. Biden aveva detto già durante le primarie che la sua candidata a vice presidente sarebbe stata una donna, e altri fattori – tra cui il clima seguito alle proteste anti-razziste di giugno – avevano lasciato supporre che sarebbe stata una donna non bianca.

Harris, che prima di essere senatrice era stata procuratrice distrettuale di San Francisco e poi procuratrice generale della California, è una delle persone più note e popolari del Partito Democratico, e aveva sfidato Biden nelle primarie. La sua candidatura era partita molto bene, ed era stata considerata per un po’ una delle favorite: ma col tempo si era sgonfiata, principalmente per alcuni grossi errori organizzativi e di strategia. Harris si era ritirata lo scorso dicembre, dando poi il proprio sostegno a Biden a marzo.

Gli esperti di politica americana ricordano spesso che alle elezioni presidenziali nessuno decide per chi votare sulla base di chi è candidato alla vicepresidenza, ed è molto raro che questa scelta permetta di guadagnare voti: ma può farne perdere, se la persona candidata si mette nei guai e incorre in gaffe e scandali. Per questo il passato delle persone papabili viene setacciato dallo staff del candidato presidente in cerca di possibili elementi che, se dovessero saltare fuori in campagna elettorale, potrebbero danneggiarlo.

Naturalmente, poi, la persona candidata alla vicepresidenza viene scelta anche sulla base della sintonia politica con il candidato presidente, della sua efficacia in campagna elettorale e della sua esperienza. Soprattutto nel caso di Biden, che compirà 78 anni a novembre, ci si attendeva la scelta di una persona esperta abbastanza da poter subentrare alla presidenza se questo dovesse essere necessario. Inoltre, spesso si dice anche che debba avere un profilo sufficientemente diverso da quello del candidato principale, per rafforzare la sua candidatura nei suoi punti deboli: e la scelta di Harris – che al contrario di Biden non è uomo, non è bianca, non ha cinquant’anni di carriera alle spalle – dipende di certo anche da ragionamenti di questo tipo.

Harris ha 55 anni ed è nata a Oakland, vicino a San Francisco. Sua madre era un’endocrinologa emigrata dall’India negli anni Sessanta, mentre suo padre era un professore di economia emigrato nello stesso periodo dalla Giamaica. Le sue origini non sono quindi strettamente afroamericane, anche se è così che viene normalmente definita (lei ha detto talvolta di preferire semplicemente “americana”).

Dopo gli studi alla Howard University, una facoltà di Washington tradizionalmente a maggioranza nera dove si laureò in scienze politiche ed economia, tornò in California per prendere un dottorato in legge e cominciare la sua carriera come procuratrice distrettuale, cioè il magistrato che nell’ordinamento giuridico statunitense svolge le funzioni della pubblica accusa (simile quindi al pubblico ministero) per un determinato distretto. Fu prima vice procuratrice, poi svolse alcuni incarichi in commissioni politiche statali, finché diventò assistente del procuratore distrettuale di San Francisco.

Nel 2003 fece la sua prima campagna elettorale come procuratrice distrettuale di San Francisco – un ruolo elettivo, negli Stati Uniti – diventando la prima persona afroamericana a svolgere quell’incarico in California. Nei sei anni successivi diventò conosciuta e apprezzata dai Democratici locali, dove si distinse per essere tra i magistrati più progressisti, e quando nel 2010 si candidò a procuratrice generale della California ricevette sostegni importanti come quello della senatrice Diane Feinstein e della speaker della Camera Nancy Pelosi: vinse quelle elezioni, e ottenne anche la rielezione quattro anni più tardi.

Nel 2016 si candidò infine al Senato, sfidando un’altra politica Democratica (in California non si elegge un senatore Repubblicano dal 1991) e vincendo con grande scarto. La California ha 40 milioni di abitanti e una delle economie più grandi del mondo: farsi eleggere a una carica monocratica in quello stato, superando una competizione molto agguerrita pur dentro il suo stesso partito, non è meno difficile che diventare primo ministro di una nazione di medie dimensioni.

I suoi anni da procuratrice sono quelli che, durante la sua candidatura alla presidenza, le hanno attirato però le critiche principali. Nonostante avesse tenuto posizioni progressiste su temi come il matrimonio gay e la pena di morte, l’ala più a sinistra del Partito Democratico l’ha spesso accusata di aver ostacolato o di non aver sostenuto a sufficienza riforme su temi come la polizia e le pene per lo spaccio di droga. Appena si candidò a presidente, nel gennaio del 2019, il New York Times pubblicò un editoriale che metteva in fila le accuse su questi temi, sostenendo che Harris fosse stata «spesso dalla parte sbagliata della storia» e raccontando dei casi in cui rappresentò l’accusa contro imputati che, dopo essere stati condannati, risultarono innocenti.

Questo passato da magistrata agguerrita le ha fatto guadagnare il soprannome di “poliziotta” tra la sinistra del Partito Democratico, mentre altri hanno detto che per una donna nera in quella posizione Harris fece il massimo che potesse fare a meno di voler compromettere del tutto la sua carriera. Durante le primarie, Harris provò a difendersi raccontando le iniziative progressiste che prese in quegli anni: fu comunque in parte danneggiata da queste accuse, anche se secondo molti la resero contemporaneamente più credibile e autorevole per gli elettori moderati del Partito Democratico, e soprattutto avrebbero potuto renderla più gradita a parte degli elettori Repubblicani se avesse vinto.

Nei quattro anni da senatrice, Harris acquisì una certa visibilità come membro del Comitato di giustizia del Senato, mettendo in mostra le sue grandi abilità nelle audizioni e nelle arringhe durante udienze molto seguite, come quelle al CEO di Facebook Mark Zuckerberg o al giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh. Le sue capacità oratorie furono anche uno dei punti forti della sua campagna elettorale: non solo nei comizi ma specialmente nei dibattiti televisivi, in cui riuscì in diverse occasioni a mettere nei guai i candidati più esperti come Bernie Sanders, Elizabeth Warren e lo stesso Joe Biden.

Ma nonostante la grande spinta iniziale, e nonostante il momento politico per certi versi favorevole per la candidatura di una donna nera, la campagna elettorale di Harris perse nel giro di qualche mese la sua forza. Da candidata favorita all’inizio del 2019, alla fine dell’anno era ormai molto indietro nei sondaggi. Secondo gli analisti, la campagna elettorale di Harris era particolarmente disorganizzata, con uno staff politico e un altro giro di persone più vicino alla sorella a competere per il potere decisionale, e lei non era riuscita ad assumere posizioni chiare e forti sui temi fondamentali, mantenendosi spesso un po’ a metà tra la corrente più moderata e quella più radicale del partito. Finì quindi che gli elettori più di sinistra le preferirono Sanders e Warren, mentre quelli più moderati Biden, Buttigieg e Klobuchar.

– Leggi anche: Negli Stati Uniti si litiga sul voto per posta