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  • Lunedì 20 luglio 2020

Cosa farà Spotify ai podcast?

Negli ultimi mesi la società ha annunciato una serie di investimenti e acquisizioni – l'ultima arrivata è Michelle Obama – che hanno agitato il settore negli Stati Uniti

(Jason Davis/Getty Images)
(Jason Davis/Getty Images)

Spotify, il più grande servizio di streaming musicale al mondo, ha annunciato pochi giorni fa un nuovo podcast intitolato The Michelle Obama Podcast, in cui l’ex first lady statunitense parlerà di relazioni famigliari, di educazione dei figli, di salute e di matrimonio con una serie di esperti. A fine luglio, quando uscirà la prima puntata, Michelle Obama diventerà così con ogni probabilità la persona più famosa del mondo ad avere un suo podcast: e non è un caso che a co-produrlo e a distribuirlo in esclusiva sia proprio Spotify.

Da più di un anno, infatti, la società svedese – che ha quasi 300 milioni di utenti nel mondo, di cui oltre 100 milioni paganti – sta portando avanti una serie di acquisizioni e di progetti per diventare sempre più importante nel settore dei podcast, che pur restando ancora un mercato di nicchia sta diventando sempre più rilevante e attraente per gli investitori. Perlomeno negli Stati Uniti, dove gli adulti che dicono di averne ascoltato almeno uno nell’ultimo mese sono più che raddoppiati negli ultimi cinque anni, raggiungendo il 37 per cento.

Poche settimane prima dell’annuncio della collaborazione con Higher Ground, la casa di produzione degli Obama, Spotify aveva stretto un accordo con il comico Joe Rogan per distribuire in esclusiva sulla propria piattaforma The Joe Rogan Experience, il suo podcast di interviste lunghe popolarissimo negli Stati Uniti. Secondo il Wall Street Journal, l’accordo prevede un compenso di oltre 100 milioni di dollari per Rogan: una cifra esorbitante e mai vista, per il settore dei podcast. Pochi mesi prima Spotify aveva acquisito The Ringer, il sito di sport e cultura pop fondato da Bill Simmons che produce una trentina di podcast, alcuni dei quali molto famosi e apprezzati. Secondo Variety, l’operazione è costata circa 196 milioni di dollari. Nel 2019, invece, Spotify aveva acquisito le case di produzione di podcast Gimlet e Parcast e la piattaforma Anchor, spendendo circa 400 milioni di dollari nel giro di due mesi.

Queste operazioni non dimostrano soltanto un forte interesse di Spotify per i podcast, ma un progetto assai più ambizioso e con conseguenze potenzialmente enormi per il settore. Dopo essere diventata la più grande piattaforma per la musica in streaming, Spotify vuole diventare il posto in cui le persone ascoltano i podcast, un campo in cui il concorrente principale è al momento Apple Podcast, il servizio di Apple che gode del vantaggio di essere installato automaticamente su tutti gli iPhone. «Spotify potrebbe diventare un colosso dei media – la YouTube dei prodotti audio – a meno che i suoi concorrenti non rispondano in fretta», ha riassunto un’analisi pubblicata sul blog della IESE Business School.

Daniel Ek, CEO di Spotify, ha detto che il settore dell’audio online – quindi compresa la musica – potrebbe passare dai 100 miliardi di dollari annui a mille miliardi, cioè il valore dei contenuti video online.

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Per arrivare dove vorrebbe arrivare, però, a Spotify non basta aumentare i contenuti disponibili in esclusiva sulle proprie piattaforme, o migliorare la propria user experience in modo da battere i concorrenti. La chiave per diventare quello che YouTube è per i video è infatti trovare un modo di monetizzare più efficacemente i podcast. Finora le grandi strade per il settore sono state due: le inserzioni pubblicitarie e i contenuti ad abbonamento o a pagamento. In Italia la pubblicità nei podcast fatica a diventare un mezzo per sostenere i costi di produzione, mentre alcuni dei prodotti di maggior successo sono distribuiti da servizi in abbonamento come Audible o Storytel. Negli Stati Uniti, dove c’è molta più offerta di contenuti e soprattutto molta più domanda tra il pubblico, la strada più percorsa è stata quella delle inserzioni pubblicitarie. Secondo le analisi di Interactive Advertising Bureau e PwC, il settore statunitense dei podcast genererà 659 milioni di dollari nel 2020.

Per questo, a inizio anno Spotify ha introdotto una propria tecnologia di inserzioni pubblicitarie per i podcast che «misura le visualizzazioni nel momento in cui avvengono, raccogliendo dati sull’età, genere, dispositivi usati e abitudini di ascolto». In questo modo le inserzioni pubblicitarie possono essere indirizzate agli utenti precedentemente profilati: in un modo simile a quanto avviene sulle piattaforme di Google, dal motore di ricerca a YouTube, oppure su Facebook.

Bisognerà vedere poi concretamente come sarà applicata questa tecnologia: normalmente nei podcast americani le pubblicità sono lette e recitate dagli stessi conduttori, per renderle più attraenti e organiche con il resto del prodotto. Per selezionare quali pubblicità mostrare a chi, è probabile che Spotify dovrà ricorrere a inserzioni “esterne”, che potrebbero anche essere riprodotte soltanto per gli utenti che non pagano l’abbonamento.

Questa strategia è stata commentata con preoccupazione da alcuni analisti: in particolare dopo l’acquisizione di The Ringer, il docente di economia Matt Stoller – specializzato in monopoli – ha scritto un post intitolato “Spotify rovinerà i podcast?” mettendo in fila un po’ di spiegazioni e riflessioni su cosa sta facendo l’azienda svedese. Stoller paragona il settore dei podcast per com’è oggi a internet dei primi anni Duemila: «un posto aperto» in cui proliferavano blog e siti piccoli ed eterogenei, aiutati dal fatto che i sistemi attraverso i quali gli utenti raggiungevano i contenuti erano diversi, e i servizi per monetizzare le visualizzazioni erano decentralizzati.

Nel giro di un decennio, internet è cambiata completamente e oggi ci sono singole società che ne controllano pezzi enormi: principalmente Google e Facebook.

Anche se Google e Facebook sono descritte come società di tecnologie, sono in realtà società pubblicitarie e intermediari nel flusso delle informazioni. Google ottiene circa l’80% dei suoi ricavi dalle inserzioni, Facebook più del 98%. E quello che hanno fatto tra il 2004 e il 2014 è di reindirizzare il flusso dei soldi della pubblicità dagli editori a se stessi.

Stoller identifica due strategie fondamentali attraverso le quali Google e Facebook hanno costruito quello che, secondo molti, è di fatto un monopolio. La prima è stata quella che li ha resi il posto in cui gli utenti vanno per ottenere dei contenuti: con il dominio sulle ricerche online nel caso di Google, con il social network più frequentato al mondo nel caso di Facebook. È quello che in gergo viene chiamato potere di gatekeeping, che permette di fatto di poter scegliere quali contenuti vengono distribuiti alla stragrande maggioranza degli utenti, e come. La seconda, conseguente, è stata imporre la cessione dei dati sugli utenti alle aziende che si rivolgevano a loro per distribuire i propri contenuti: Stoller fa l’esempio degli abbonati e dei lettori dei grandi quotidiani americani, come il Wall Street Journal.

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In questo modo, Google e Facebook hanno reso superfluo il ruolo degli editori come inserzionisti, diventando molto più efficienti, precisi ed economici nel mostrare pubblicità personalizzate agli utenti. «La relazione tra il New York Times e il lettore è costruita sulla fiducia guadagnata attraverso il capitale investito dando le notizie. Google prende quella relazione sotto forma di dati, e ci fa soldi che sarebbero dovuti andare al New York Times mostrando ai suoi lettori delle pubblicità inserite in un contenuto prodotto da qualcun altro. Questo sembra più un furto, che efficienza» scrive Stoller.

Questo potere, spiega Stoller, è stato raggiunto con una serie di acquisizioni che, secondo molti, violano le regole sulla concorrenza e il monopolio: come quelle con cui Google ha comprato YouTube e la società di web marketing Double Click, o con cui Facebook ha comprato Instagram e WhatsApp. Questo perché, scrive Stoller, il dibattito sulla privacy e sui dati raccolti online degli anni Novanta e Duemila è stato vinto da chi voleva che il mercato si regolasse da solo, e non da chi voleva regolamentazioni che li considerassero un bene pubblico. Oggi non è di certo impossibile leggere i giornali senza passare da Google o Facebook: ma è attraverso i loro servizi che la maggior parte dei lettori legge le notizie.

Il rischio, secondo Stoller, è che ai podcast stia accadendo qualcosa di simile. Attualmente la stragrande maggioranza è distribuita attraverso la tecnologia RSS, un formato aperto sviluppato tra gli altri dal noto attivista Aaron Swartz. Anche se Apple controlla il settore della distribuzione, «finora si comporta come un despota benevolo, e perlopiù non raccoglie dati e non privilegia i propri contenuti». Il risultato di questo sistema aperto e accessibile è che negli Stati Uniti quello dei podcast è un settore vivace ed eterogeneo, con molti esempi di progetti di successo anche non solo dal punto di vista editoriale, ma anche imprenditoriale.

Secondo Stoller, Spotify sta imitando Google e Facebook con i podcast, dopo averlo fatto con la musica. Ma a differenza della musica, quello dei podcast è un settore ancora largamente inesplorato dalle grosse società – non ci sono operatori potenti come le grandi etichette discografiche – e nel quale è relativamente economico produrre contenuti originali. Un passaggio fondamentale di quest’operazione è proprio cambiare il sistema di distribuzione, secondo Stoller: abbandonando i feed RSS, che rendono molto difficile raccogliere efficientemente i dati sugli utenti, e centralizzandolo su di sé rendendolo da aperto a privato.

Nel dibattito seguito all’accordo con Rogan, c’è anche chi ha sostenuto però che l’ingresso di Spotify nel settore dei podcast potrebbe essere un momento di svolta positivo, perché potrebbe costruire un modello di business più solido in grado di monetizzare davvero i contenuti, cosa che non sempre è stata possibile con il solo sistema delle inserzioni pubblicitarie. È improbabile poi che i concorrenti della società, a partire da Apple, stiano a guardare: l’evoluzione del settore dipenderà anche da quali strategie decideranno di adottare. «È probabilmente la fine del Far West dei podcast. Quello che viene dopo è la modernità, con tutto il bene e il male che può portare», ha scritto Vulture.