L’inchiesta sulla mancata “zona rossa” in Val Seriana

La sta portando avanti la procura di Bergamo, che oggi ha sentito Conte, Lamorgese e Speranza: da settimane il governo e la Lombardia si rimbalzano le colpe

L'ospedale di Alzano Lombardo (ANSA/Tiziano Manzoni)
L'ospedale di Alzano Lombardo (ANSA/Tiziano Manzoni)

Venerdì si sono tenute a Palazzo Chigi le deposizioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del ministro della Salute Roberto Speranza e della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese nell’ambito dell’inchiesta sulla mancata istituzione della “zona rossa” a Nembro e Alzano Lombardo, due comuni della Val Seriana, in provincia di Bergamo. L’inchiesta è ancora senza indagati e senza ipotesi di reato, e i tre sono stati ascoltati dai magistrati di Bergamo come persone informate dei fatti.

La Lombardia è stata la regione maggiormente colpita dall’epidemia da coronavirus, con quasi 100mila casi di contagio rilevati e oltre 16mila morti secondo i bollettini ufficiali, che notoriamente sottostimano la portata dell’epidemia. La provincia di Bergamo, e in particolare in Val Seriana, è stata probabilmente la zona più colpita: e i magistrati sospettano che alcune sottovalutazioni ed errori abbiano contribuito a creare un focolaio che si sarebbe potuto evitare se si fosse istituita una “zona rossa” per tempo. Ma da settimane il governo nazionale e quello della Lombardia si rimbalzano la responsabilità per la mancata istituzione della “zona rossa”, ed è su questo che sta indagando la procura di Bergamo.

Su questa vicenda lo scorso 29 maggio i pm avevano già ascoltato il presidente della Lombardia Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera, chiedendo loro conto anche della mancata chiusura del Pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo e dell’alto numero dei decessi nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA). Per quanto riguarda la “zona rossa” in Val Seriana, Fontana aveva detto ai magistrati che «era pacifico» che l’isolamento dei comuni fosse una decisione che spettava al governo. Dopo la deposizione di Fontana, anche la pm di Bergamo che sta indagando sulla vicenda, Maria Cristina Rota, aveva detto che «da quel che ci risulta è una decisione governativa. C’è un dovere da parte nostra di rendere giustizia, in questo momento siamo al primo gradino, alla ricostruzione dei fatti».

Secondo Conte, invece, era la regione Lombardia che avrebbe dovuto istituire «una zona rossa», tesi che aveva già espresso lo scorso 6 aprile a TPI: «Non vi è argomento da parte della regione Lombardia per muovere contestazioni al governo nazionale o ad altre autorità locali», aveva detto Conte. «Se la regione Lombardia ritiene che la creazione di nuove zone rosse andava disposta prima, con riguardo all’intero territorio regionale o a singoli comuni, avrebbe potuto tranquillamente creare “zone rosse”, in piena autonomia. A conferma di questo assunto si rileva che la regione Lombardia ha adottato – nel corso di queste settimane – varie ordinanze recanti misure ulteriormente restrittive, le ultime delle quali il 21, il 22 e il 23 marzo 2020».

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Secondo il Corriere della Sera, Conte è stato sentito per tre ore dai pm, e alla fine ha detto che: «Ogni passaggio è stato ricostruito e chiarito». Rota ha aggiunto che le deposizioni di Conte, Lamorgese e Speranza si sono tenute «in un clima di distensione e di massima collaborazione», chiarendo che quando aveva anticipato che la decisione sembrava di competenza del governo aveva comunicato quanto appreso fino a quel momento: «oggi non ho altro da aggiungere».

Tra le cose che devono chiarire i pm è se la Regione Lombardia avesse presentato una richiesta formale al governo per istituire la “zona rossa”, e che tipo di comunicazioni e valutazioni ci siano state in quei giorni tra governo nazionale e Regione Lombardia.

Cos’è successo in Val Seriana
Dopo l’individuazione dei primi casi di contagio da coronavirus in provincia di Lodi, il 21 febbraio l’ospedale di Codogno venne chiuso e due giorni dopo, nella notte tra il 22 e il 23, il governo decise di istituire un’area di quarantena totale intorno a dieci comuni del lodigiano e intorno al comune di Vo’ in provincia di Padova, dove erano stati riscontrati altri casi di contagio.

In queste aree tutte le attività economiche vennero sospese e alla popolazione venne impedito di uscire, nella speranza di limitare la diffusione del virus e di impedirgli di raggiungere altre aree. Erano le prime “zone rosse” e nei giorni successivi si rivelarono un successo. Il 10 marzo, a meno di tre settimane dall’istituzione della “zona rossa”, a Codogno non venne registrato nessun nuovo positivo al virus.

Quanto fatto nel Lodigiano e in provincia di Padova non fu fatto però in Val Seriana, in provincia di Bergamo, dopo che il 23 febbraio si scoprì la positività di due pazienti ricoverati all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, il centro più importante della bassa valle. La direzione dell’ospedale ordinò l’immediata chiusura del pronto soccorso e l’isolamento dell’intera struttura e i due pazienti vennero trasferiti al grande ospedale di Bergamo, il Giovanni XXIII, designato fin dall’inizio dell’emergenza come centro di raccolta per i pazienti infettati dal coronavirus. Circa un paio d’ore dopo, l’ospedale di Alzano venne però riaperto: numerosi testimoni hanno raccontato che la struttura non fu sottoposta a nessuna particolare misura di sanificazione.

Nonostante l’enorme rischio di un contagio in ospedale – un posto da cui passano medici e pazienti fragili – nessuna “zona rossa” venne imposta nel comune, e la regione Lombardia disse che non erano allo studio ulteriori misure di quarantena. Diversi politici, esperti e amministratori locali e nazionali ridimensionarono l’emergenza, cercando di minimizzare la pandemia e mettendo in guardia i cittadini contro i pericoli del panico e dell’adozione di misure troppo severe.

Nel frattempo però iniziarono ad arrivare i risultati dei test effettuati nel fine settimana del 23 febbraio. Il 26 febbraio i positivi nella provincia di Bergamo erano diventati 20, tra cui anche diversi medici e operatori sanitari dell’ospedale di Alzano Lombardo, e lo stesso primario. La situazione esplose definitivamente il 2 marzo quando arrivarono i risultati di un grosso numero di test realizzati nei giorni precedenti. La provincia di Bergamo era arrivata a 508 casi certificati di contagio, pochi meno della zona rossa di Lodi, dove i contagi erano 621.

Quel giorno l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) inviò la prima di due note scritte al comitato tecnico scientifico che si occupava di consigliare il governo in cui raccomandava l’apertura di una nuova “zona rossa” all’imboccatura della Val Seriana, che comprendesse almeno i comuni di Alzano Lombardo, circa 13 mila abitanti, e di Nembro, poco più di 11 mila. Nonostante ciò, né il governo né la regione decisero di istituire una “zona rossa” e il 3 marzo l’assessore Gallera disse di aver chiesto all’ISS «di fare valutazioni e suggerire a noi e al governo le migliori strategie».

Successivamente, Gallera aveva spiegato che in quei giorni sapeva che l’ISS aveva raccomandato la zona rossa, ma che la Regione aspettava l’intervento del governo: «Avremmo potuto farla noi? Ho approfondito le indicazioni che mi avevano dato ed effettivamente sì» aveva detto a inizio aprile alla trasmissione Agorà.

Nella notte tra il 7 e l’8 marzo polizia e carabinieri erano pronti a chiudere un’area che comprendeva almeno i due comuni di Alzano e Nembro, ma alla fine l’opinione prevalente fu che il contagio fosse oramai così esteso che bloccare quei due comuni non avesse più senso. Al posto della zona rossa il governo scelse di mettere in atto una più blanda “zona arancione” in tutta la regione e in altre 14 province del nord Italia, un’area di quarantena più estesa ma con regole molto meno severe. Il 9 marzo, però, ci si rese conto che il contagio si era ormai esteso anche al di fuori delle zone inizialmente interessate e il governo decise di eliminare le zone “rosse” o “arancioni” e trasformare tutta l’Italia in un’unica “zona protetta”.

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