98 migranti soccorsi da una nave mercantile portoghese sono stati riportati in Libia

La motovedetta "Fezzan" - ex unità della Guardia di finanza, classe Corrubia - con a bordo equipaggio della Guardia Costiera libica in una foto diffusa il 21 ottobre 2018 (ANSA/ UFFICIO STAMPA)
La motovedetta "Fezzan" - ex unità della Guardia di finanza, classe Corrubia - con a bordo equipaggio della Guardia Costiera libica in una foto diffusa il 21 ottobre 2018 (ANSA/ UFFICIO STAMPA)

L’OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni, ha detto che 98 migranti diretti in Europa attraverso il Mediterraneo centrale sono stati soccorsi il 25 maggio da una nave commerciale battente bandiera portoghese. I migranti sono stati poi affidati a una nave della cosiddetta Guardia Costiera libica e riportati in Libia, il paese da cui avevano cercato di scappare. Operazioni del genere sono molto rare perché secondo diversi esperti equivalgono a un respingimento di massa, vietato dal diritto internazionale.

Alarm Phone, il servizio telefonico che segnala la presenza dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo, aveva localizzato nella mattina del 25 maggio l’imbarcazione, in difficoltà con i 98 migranti a bordo (inizialmente si pensava fossero 91) 60 chilometri a nord di Al Khoms sulla costa libica. Alarm Phone aveva tentato di segnalare la posizione dei naufraghi, ma senza successo.

Anche Alarm Phone conferma che dopo essere stati soccorsi da una nave commerciale i migranti sono stati portati a Misurata dalla Guardia Costiera libica, contro la loro volontà. «Siamo sollevati che siano stati mandati i soccorsi – ha scritto Alarm Phone su Twitter – ma contestiamo il fatto che vengano riportati in Libia, un paese in guerra, contro la loro volontà. Verranno riportati nei campi di tortura. Questo è stato un respingimento per delega. Le persone avrebbero dovuto essere portate in salvo in Europa».

Secondo diversi esperti il fatto che la nave portoghese abbia affidato i migranti alla Guardia Costiera libica equivarrebbe a un respingimento, una pratica vietata da diverse norme sui diritti umani fra cui la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.