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  • Venerdì 22 maggio 2020

Ci sono sempre più dubbi sull’accusa di abuso sessuale contro Joe Biden

Una storia che sembrava inizialmente solida è stata messa in discussione da nuove e approfondite inchieste

(Drew Angerer/Getty Images)
(Drew Angerer/Getty Images)

Diverse inchieste giornalistiche uscite negli ultimi giorni negli Stati Uniti hanno generato forti dubbi sull’accusa di abuso sessuale rivolta settimane fa contro il candidato Democratico alla presidenza Joe Biden. L’accusa era stata avanzata a metà marzo dalla sua ex collaboratrice Tara Reade, e risaliva agli anni Novanta: dopo un iniziale scetticismo, le indagini di alcuni giornali americani erano sembrate corroborare l’accusa, ma nuovi dettagli e ricerche più approfondite hanno portato in molti a dubitare della veridicità della versione di Reade.

La discussione è delicata sotto molti punti di vista: soprattutto dopo gli scandali seguiti al movimento MeToo, ci si è interrogati estesamente – e specialmente negli Stati Uniti – sulle modalità con cui trattare le accuse di violenze e molestie sessuali. Spesso le attiviste hanno insistito sull’importanza di credere alle vittime che le denunciano, e sulla necessità di evitare indagini morbose e pretestuose nei loro confronti che insinuino dubbi sulle loro versioni basandosi su fatti delle loro vite estranei agli episodi in questione.

Questo tipo di giornalismo, dicono spesso gli esperti e le attiviste, sposta l’attenzione dai presunti molestatori alle vittime, dando l’idea che la molestia possa risultare credibile solo se chi la subisce ha un passato credibile e corrisponde perfettamente a un certo modello di vittima. Questa modalità dissuade spesso le donne dal denunciare pubblicamente gli abusi, temendo – a ragione – di venire per questo messe alla gogna. Allo stesso tempo, però, diversi casi in cui accuse di questo tipo si sono rivelate infondate hanno fatto emergere i limiti dell’approccio che non vorrebbe mettere in discussione le accuse. È un dibattito irrisolto e complicato, ma la rilevanza di un’accusa di violenza sessuale contro un potenziale presidente degli Stati Uniti, sostengono giornalisti e giornaliste americani, richiede necessariamente indagini approfondite, per quanto spiacevoli.

La prima parte della storia
Secondo Reade, nella primavera del 1993 Joe Biden – all’epoca senatore per il Delaware – la spinse contro un muro nel corridoio di un edificio annesso al Senato, le baciò il collo, le infilò una mano sotto la gonna e la penetrò con le dita, fermandosi poi quando la donna lo respinse. Mesi dopo, aveva raccontato Reade, lei fu licenziata per aver denunciato l’episodio; successivamente però Reade ha specificato che la sua denuncia non menzionava abusi e molestie sessuali.

– Leggi anche: L’accusa di abuso sessuale contro Joe Biden

Indagando sull’accusa il New York Times e Associated Press, pur avendo ottenuto soltanto smentite dagli ex collaboratori di Biden, avevano trovato almeno due amici di Reade – rimasti anonimi – secondo cui all’epoca la donna aveva raccontato loro l’episodio. Il sito The Intercept aveva poi scoperto che nell’agosto del 1993 la madre di Reade chiamò il talk show Larry King Live di CNN raccontando che sua figlia aveva dovuto lasciare il suo lavoro per «un importante senatore» perché non riusciva a sopportare i problemi che aveva avuto, che non aveva raccontato alla stampa soltanto «per rispetto» nei confronti di quel senatore. Biden aveva categoricamente smentito le accuse, ma la maggior parte dei commentatori americani aveva scritto che, anche se non era possibile confermare definitivamente l’accusa, qualcosa era probabilmente avvenuto.

Tara Reade nel 2019. (AP Photo/Donald Thompson)

I nuovi dubbi
Le nuove indagini hanno cambiato le opinioni di diversi di loro. PBS Newshour, per esempio, ha parlato con 74 ex membri dello staff di Biden, 62 dei quali donne: nessuno ha raccontato di aver sentito di episodi simili nemmeno su altre donne, né ha detto di aver mai sentito parlare dell’episodio denunciato da Reade. Uno di loro ha invece sostenuto che Reade fu licenziata perché non era brava nel suo lavoro, e non per presunti problemi con Biden. In generale, le testimonianze raccolte da PBS Newshour descrivono un ambiente di lavoro particolarmente favorevole per le donne nello staff di Biden, a differenza degli staff di molti altri senatori all’epoca.

Allo stesso tempo, in tanti hanno confermato un’altra cosa che si dice da tempo di Biden: che per decenni ha tenuto comportamenti molto fisici verso le donne, cercando frequentemente contatti come abbracci e baci. Tutti però hanno convenuto che questi comportamenti, per quanto inappropriati e percepiti da alcune donne come sgradevoli, non nascondevano intenzioni sessuali. Questi atteggiamenti di Biden erano già stati segnalati, e confermati da foto e video: lo stesso Biden si era scusato, ammettendoli, e garantendo che avrebbe fatto più attenzione in futuro.

Ci sono stati poi altri elementi raccolti dai media che hanno fatto dubitare della versione di Reade. La donna aveva parlato dei comportamenti eccessivamente fisici di Biden già nel 2019, senza però menzionare il presunto abuso. Nelle scorse settimane aveva sostenuto che all’epoca avrebbe voluto raccontare tutto, ma che i giornalisti con cui parlò non la misero a suo agio e non si guadagnarono la sua fiducia. Laura McGann, una giornalista di Vox che ha indagato sulla vicenda di Reade per circa un anno, ha scritto che questo le era sembrato subito strano, visto che i principali media americani dopo il caso MeToo sono diventati particolarmente combattivi e capaci nell’approfondire le indagini sulle molestie sessuali in modo da non spaventare o mettere a disagio le vittime.

Reade, che aveva contattato McGann ad aprile del 2019, le aveva raccontato che Biden le aveva chiesto di servire cocktail a una serata elettorale, perché – le aveva detto un altro assistente – gli piacevano le sue gambe. Si era poi lamentata coi colleghi che il senatore le aveva messo le mani sul collo e nei capelli mettendola a disagio, finendo per essere licenziata. La sua storia, aveva detto esplicitamente Reade a McGann, non riguardava condotte inappropriate ma un abuso di potere. Mesi dopo Reade ha cambiato drasticamente la sua versione. McGann ha chiesto conto a Reade di queste incongruenze, ottenendo la risposta che per lei un abuso sessuale è comunque un abuso di potere.

Sempre indagando sulla vicenda, nel 2019 – quando l’accusa di Reade non includeva molestie sessuali – Reade aveva incoraggiato McGann a parlare con una sua amica a cui aveva raccontato a suo tempo l’esperienza nello staff di Biden. L’amica aveva detto esplicitamente che la vicenda «non era così brutta» se paragonata ad altre vicende simili: «non provò mai a baciarla direttamente. Non provò mai a toccarla. Era una di quelle situazioni da “mi spiace che tu abbia frainteso”». Dopo le nuove accuse di Reade, McGann ha chiesto all’amica perché fu così esplicita nel negare ci fossero state molestie o abusi sessuali, ottenendo come risposta che non voleva aggiungere elementi che mettessero a disagio Reade.

Un altro punto della versione di Reade è sembrato strano. La donna raccontò che la violenza avvenne «in un’area semiprivata» tra l’edificio del Senato e il Russell Senate Office Building, una struttura collegata. PBS Newshour ha fatto quel percorso in cerca di spazi simili, senza trovarne. L’area è invece molto frequentata da senatori e collaboratori, rendendo quella di cui è accusato Biden «una sfacciata aggressione in un’area con un alto rischio di essere visti». Come dice lo stesso PBS Newshour, però, le vittime di violenze sessuali spesso hanno difficoltà a ricordare con precisione i dettagli di quanto accaduto, per il forte trauma conseguente.

Anche altri dettagli raccontati da Reade sono stati messi in discussione dalle testimonianze dei colleghi: per esempio hanno spiegato che Biden ci teneva che le giovani collaboratrici non facessero cose come servire cocktail, per evitare di dare cattive impressioni. La stessa esistenza di una serata come quella descritta da Reade ha generato dubbi, visto che Biden generalmente evitava gli eventi mondani – il più delle volte alla fine di ogni giornata tornava a casa in treno in Delaware – e che una direttiva del suo ufficio proibiva allo staff di lavorare a eventi di raccolta fondi.

C’è stato poi un altro articolo che ha fatto discutere: Politico ha parlato con una decina di persone che hanno avuto a che fare con Reade negli anni, che hanno raccontato che era solita mentire su di sé per ottenere prestiti economici ed evitare di pagare affitti e bollette. L’articolo è stato criticato perché in tantissimi casi la vita privata delle vittime di violenze sessuali è stata usata dai media per screditare pretestuosamente le loro accuse. Il New York Times ha però pubblicato altre accuse simili più circostanziate: Reade per un decennio testimoniò in diversi processi presentandosi come esperta di violenza domestica diplomata in un’università di Seattle, che però ha negato che la donna ottenne la certificazione finale, come sostenne invece per qualificarsi nei tribunali.

Dopo l’articolo, l’avvocato di Reade, famoso per aver rappresentato altre vittime di uomini importanti tra cui Harvey Weinstein, ha deciso di terminare i suoi rapporti con Reade, sostenendo però che continuava a crederle.

Cosa pensare
Su Vox, McGann ha scritto che indagando sulla vicenda quando ancora non si parlava di abusi sessuali, nell’aprile del 2019, desiderava ardentemente essere la prima a pubblicarla, specialmente sapendo che altri giornali la stavano seguendo. Non avendo trovato prove solide, però, non lo fece, come non lo fecero gli altri autorevoli media che l’avevano indagata. Dopo le nuove e più gravi accuse di Reade, McGann ci ha parlato di nuovo a lungo, ritrovandosi in grande difficoltà. Se fosse stata una sua amica, ha scritto, le avrebbe certamente creduto, ma essendo una giornalista ha dovuto mettere in discussione la sua versione.

«È irrealistico pretendere di trovare una “vittima perfetta”», ha scritto McGann, ricordando che una vittima di abusi sessuali spesso incappa comprensibilmente in contraddizioni e difficoltà nel raccontare la sua storia, che si aggiungono alla sofferenza di rivivere il trauma. Ma le inchieste che hanno portato avanti il movimento MeToo si basavano su grandi quantità di prove, scrive McGann, mentre il caso di Reade è assai più complicato e dubbio.

Nonostante il grande dispiego di forze, nessun giornale americano ha trovato testimonianze di altri episodi simili riguardo a Biden: ed è quantomeno insolito, hanno sottolineato molti giornalisti americani, che un uomo abbia comportamenti predatori per una sola volta in tutta la vita. Nemmeno la squadra che esaminò a fondo il suo passato per conto di Barack Obama, quando lo scelse come vice presidente, trovò niente di simile; e niente emerse negli otto anni successivi, quando Biden fu una delle persone più importanti e visibili al mondo. A questo si aggiunge il fatto che la versione di Reade è molto cambiata nel tempo, e presenta diverse contraddizioni.

Volevo credere a Reade quando mi ha contattato, e ho lavorato molto duramente per trovare le prove affinché anche gli altri le credessero. Non le ho trovate. Niente di tutto questo significa che Reade stia mentendo, ma questo ci lascia nel limbo del MeToo: una storia che potrebbe essere vera ma che non possiamo dimostrare.

In tutto questo, dice McGann, Reade non raccontò tutta la sua storia nell’aprile del 2019, all’inizio della campagna elettorale per le primarie, quando non era chiaro chi avrebbe tratto vantaggio da un eventuale scandalo ai danni di Biden. Lo ha fatto invece più tardi, quando Biden aveva ormai quasi vinto le primarie, e l’unico che – molto difficilmente – avrebbe potuto batterlo era rimasto Bernie Sanders, che Reade sosteneva apertamente. Reade, peraltro, ha raccontato la sua storia per la prima volta proprio su un podcast simpatizzante di Sanders. Qualche giorno prima aveva risposto al tweet di un giornalista che sottolineava come l’aumentare delle indagini sul passato di Biden avrebbe potuto danneggiarlo scrivendo: «Sì. Tempistica… Aspettate… tic toc».

«La mia storia non è mai cambiata. Semplicemente non ho detto tutti i dettagli. È molto semplice. Ho nascosto questa storia perché avevo paura di un uomo potente», ha detto Reade a McGann per difendersi da queste accuse.

Il comportamento da tenere nei confronti dell’accusa a Biden ha messo in crisi molti Democratici, e specialmente molte Democratiche: per anni il partito ha sempre sostenuto l’importanza di credere alle vittime di abusi sessuali, cercando di distinguersi in questo dai Repubblicani, che hanno soprasseduto su accuse assai più circostanziate come quelle contro il giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh e lo stesso Donald Trump.

Sul Washington Post, l’editorialista Jennifer Rubin ha spiegato perché quella tra l’accusa di Reade contro Biden e quella di Christine Blasey Ford contro Kavanaugh sia una falsa equivalenza. Se sulla prima ci sono molti dubbi, la seconda fu confermata da molte testimonianze e fatti emersi dalle indagini giornalistiche e del Congresso. «Credere alle donne non significa che dobbiamo essere ciechi di fronte ai fatti o non voler vedere deliberatamente», ha scritto Rubin. «Le violenze sessuali sono un crimine. Nel nostro sistema giudiziario e davanti al tribunale dell’opinione pubblica, i fatti contano ancora, e non tutte le accuse hanno la stessa dignità. Alcune sono totalmente false. Per quanto riguarda Reade, è tempo che i media la smettano di suggerire che se credi a Ford, devi credere anche a Reade».