L’industria alimentare sta reggendo, per ora

L'Economist scrive che si sono trovate soluzioni coraggiose e creative alla crisi, ma esiste il rischio che milioni di persone possano soffrire la fame

(Brent Stirton/Getty Images)
(Brent Stirton/Getty Images)

L’industria agroalimentare è fortemente globalizzata e molti paesi al mondo dipendono dalle importazioni per molti prodotti alimentari che consumano: questa situazione potrebbe incontrare grosse difficoltà a causa delle restrizioni per contenere il contagio da coronavirus. L’Economist ha raccontato i problemi ma anche la capacità di adattarsi di tutta la filiera, con il rischio che milioni di persone soffrano la fame, ma anche alcuni modi per evitarlo o contenerlo.

Circa quattro quinti dei quasi otto miliardi di abitanti della Terra, spiega l’Economist, si nutrono in parte grazie alle importazioni: nel 2019 erano valse 1.400 miliardi di euro, tre volte tanto rispetto all’inizio degli anni Duemila. «Battaglioni di camion e flotte di navi collegano decine di milioni di aziende agricole a centinaia di milioni di negozi e cucine», scrive. È un sistema complesso e sofisticato che, grazie alla lungimiranza dei produttori, è riuscito finora a destreggiarsi tra le restrizioni per contenere la malattia, trovando di volta in volta nuovi fornitori di materie prime, nuovi paesi in grado di lavorarle e reindirizzando la catena di approvvigionamento.

Il problema principale, spiega l’Economist, non è dovuto tanto alle falle nella struttura della filiera ma alla riduzione o alla perdita degli stipendi. L’ONU stima che la crisi economica causata dal coronavirus potrebbe raddoppiare il numero di persone al mondo che soffrono la fame, portandolo a 265 milioni entro la fine dell’anno.

La struttura ha infatti rischiato di incepparsi più volte, ma nella maggior parte dei casi si sono trovate delle soluzioni: per ora i prezzi della maggior parte degli alimenti sono stati contenuti e non c’è stata una grossa carenza di merci. Quando a inizio anno la Cina aveva vietato i viaggi turistici dall’estero, per esempio, la Nuova Zelanda aveva proposto un prestito alla compagnia di bandiera Air New Zealand se avesse mantenuto aperte le tratte in Cina (che è il principale acquirente alimentare del paese) a Singapore e negli Stati Uniti, per esportare kiwi e altri prodotti alimentari.

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L’industria alimentare, come dicevamo, è fortemente globalizzata: le aziende agricole e le grandi industrie alimentari comprano i semi, i fertilizzanti, i macchinari e il carburante da multinazionali, spesso straniere, come le statunitensi ADM, Bunge e Cargill, l’olandese Louis Dreyfus e la Olam International di Singapore. Le loro dimensioni e la vastità dei loro commerci consentono grandi guadagni anche se con stretti margini e consentono di adattare rapidamente la catena di approvvigionamento, contenere i prezzi e mantenere il sistema flessibile.

Inoltre, negli ultimi 20 anni sempre meno aziende si sono spartite il controllo di uno stesso settore. Metà del mercato dei polli americano, il più grande al mondo, è controllato da quattro aziende; due delle più grandi fusioni negli anni Dieci sono avvenute nel settore del cibo e delle bevande. Intanto i mercati emergenti hanno nuove esigenze che hanno creato nuove multinazionali: la brasiliana JBS è diventata la più grande azienda di lavorazione di carne al mondo, e in Cina COFCO si è imposta come la più grande azienda agroalimentare del paese. Queste aziende ad alto capitale hanno reso il sistema estremamente avanzato dal punto di vista tecnologico e in grado di prevedere e aggiustare ogni minimo imprevisto. Per esempio l’uso combinato di immagini satellitari e intelligenza artificiale modifica le rotte delle navi dirette verso una tempesta, e stima la resa stagionale dei raccolti.

Un sistema così calibrato consente di gestire una produzione estremamente complessa. Il prodotto finale viene spesso assemblato vicino al mercato di destinazione, ma la raccolta delle materie prime e le fasi di lavorazione possono avvenire nei luoghi più disparati: «grano ucraino viene macinato in Turchia e trasformato in noodles in Cina», riassume l’Economist.

Questo ha portato sempre più paesi a dipendere dalle importazioni, come mostra anche un’analisi della FAO, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione. Il rischio però è che la pandemia da coronavirus provochi una crisi alimentare paragonabile a quella del 2007-2008, quando un forte aumento dei prezzi dei prodotti alimentari venne aggravato dalle decisioni dei governi, incapaci di gestirlo: circa 75 milioni di persone patirono la fame, cosa che provocò rivolte in Bangladesh, in Burkina Faso, in Mauritania, in Messico, e che contribuì anche all’inizio della guerra in Siria.

La situazione allora era però molto diversa da oggi. Nel 2007, in Australia ed Europa i raccolti di grano erano stati insufficienti, così come i raccolti di mais negli Stati Uniti; le riserve di grano non erano mai state così basse dal 1973. Il costo del greggio intanto era aumentato tantissimo, rendendo molto dispendioso commerciare cibo, sementi e fertilizzanti, e inoltre fece salire la domanda, e il costo, di mais e zucchero, che potevano essere usati come materie prime per carburanti.

Oggi le riserve di cereali sono il doppio di allora. La spedizione all’ingrosso costa 20 volte meno e, negli Stati Uniti, il prezzo del petrolio è diventato negativo per la prima volta nella storia (il petrolio WTI costa 24 euro a barile). Le materie prime, il mais e lo zucchero da usare come carburanti costano di meno. Inoltre, non è aumentato solo il numero dei paesi che importano i raccolti ma anche quello dei paesi che li esportano.

Le differenze rispetto al 2007 si vedono sul campo. Per esempio in alcuni paesi, a marzo, le vendite di pasta, cibo in lattina e da dispensa sono aumentati di sette volte, molti supermercati sono rimasti senza scorte ma sono riusciti in fretta a trovare nuove fonti di rifornimento. Ad aprile i commercianti indiani hanno sospeso le esportazioni e il gruppo di supermercati francese Carrefour si è rivolto al Pakistan e al Vietnam per rifornirsi di riso e alla Romania per importare il manzo.

Dei cambiamenti positivi si sono visti anche nella catena dei trasporti. A marzo Timbues, uno dei porti principali di Rosario, una regione da cui parte più dell’80 per cento del cibo esportato dall’Argentina, era rimasto chiuso per quasi una settimana. Le spedizioni di grano però erano continuate grazie alla gestione automatizzata degli alimenti, che sarà probabilmente rafforzata durante la pandemia. Le spedizioni marittime funzionavano a tal punto che gli stati costieri dell’India, rimasti isolati, avevano comprato la soia dall’Argentina piuttosto che farsela arrivare via camion dagli stati indiani dell’entroterra.

Spostare le merci deperibili è più complicato. Frutta, ortaggi, carne e caffè di solito viaggiano su aerei, in container refrigerati o in navi speciali. Ci sono rallentamenti su tutto il sistema e qualche problema con i container refrigerati, mentre la chiusura delle rotte aeree ha fatto crollare il costo di molti prodotti che venivano trasportati in stiva e che ora restano invenduti: in Thailandia, per esempio, i prezzi all’ingrosso del frutto del drago, molto apprezzato in Cina, sono scesi dell’85 per cento.

Rispetto all’inizio delle restrizioni, la richiesta di beni essenziali e a lunga scadenza è scesa ma è rimasta bassa anche la domanda di altri tipi di prodotti, quelli solitamente comprati da ristoranti, bar, mense delle scuole e di altre istituzioni, che sono chiusi. Gli agricoltori, che di solito li riforniscono, stanno cercando di rivolgersi ai negozi e direttamente alle persone ma non è facile perché spesso a casa non vengono cucinati gli stessi cibi che si mangiano al ristorante a cena o in pausa pranzo. Si preferiscono infatti cibi preconfezionati, industriali o ingredienti facili da cucinare, da conservare o più economici, come la carne di manzo tritata anziché le bistecche. Si beve anche un po’ meno latte, in assenza di cappuccini e altre bevande del genere comprate al bar. Anche se gli ingredienti fossero gli stessi, l’industria dovrebbe ripensare l’inscatolamento: i ristoranti e i panifici comprano sacchi di farina da 16 chili ma chi si fa il pane e la pasta a casa li compra in formato da 1 chilo. Ci vuole tempo per impacchettare il cibo nei nuovi formati e anche perché i supermercati accettino nuovi fornitori.

Il crollo della domanda di alcuni prodotti sta causando grossi problemi ad alcuni settori. L’Economist scrive che i pescatori francesi stanno rigettando in mare due terzi del pescato, l’Australia rischia un eccesso di avocado, alcuni allevatori canadesi stanno nutrendo le mucche con il loro latte. Ma la maggior parte di quello che non si potrà riciclare andrà buttato: l’Unione Europea si aspetta, per esempio, di perdere 400 milioni di euro di patate e in Belgio i produttori hanno invitato la popolazione a consumarle almeno due volte a settimana. Secondo le previsioni, quest’anno la percentuale di spreco alimentare negli Stati Uniti salirà dal 30 al 40 per cento.

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Per l’agricoltura, un altro grosso problema è la difficoltà a reperire braccianti per la raccolta nei campi. Soltanto in Italia, a causa della chiusura delle frontiere per contenere l’epidemia, mancano circa 300mila lavoratori e lavoratrici stagionali, di solito provenienti principalmente da Romania e Bulgaria. La chiusura dei consolati statunitensi in Messico potrebbe impedire a 250mila lavoratori stagionali di ottenere il permesso per andare a lavorare negli Stati Uniti. Il rischio è dover lasciare nei campi una parte dei prodotti coltivati, e rallentare – se non bloccare – gli approvvigionamenti di cibo fresco a supermercati e negozi di alimentari. Le aziende che se lo possono permettere cercheranno di automatizzare la raccolta di frutta e verdura, a discapito dei posti di lavoro. Altri agricoltori, rimasti senza mercato per la chiusura dei ristoranti, preferiranno lasciar marcire frutta e verdura piuttosto che pagare qualcuno per raccoglierle senza poi poterle vendere.

L’altro settore in difficoltà è quello della carne, la cui richiesta in questo periodo è piuttosto bassa. Carlos Rodriguez di AGRO Merchants, che gestisce magazzini a bassa temperatura in 11 paesi, ha detto all’Economist che i frigoriferi che conservano la carne e che in genere avevano ampia capacità di riserva sono ora «completamente pieni», e che sarà difficile trovare spazio per ospitare i nuovi animali macellati. Negli Stati Uniti, è un problema legato soprattutto all’industria della carne di maiale: molti macelli, in cui c’erano stati casi di contagio, hanno chiuso e la capacità di lavorazione della carne si è ridotta del 40 per cento. Ogni 5 giorni c’è un eccesso di un milione di maiali vivi negli allevamenti, che non hanno più spazio per ospitarli. La scorsa settimana, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ordinato agli impianti di confezionamento della carne di tenere aperto, nonostante almeno 15 fossero stati chiusi perché si erano verificati casi di Covid-19.

L’Economist spiega che a soffrire sono soprattutto i piccoli allevatori e agricoltori, mentre i grandi gruppi saranno in grado di aggiustare la produzione molto più facilmente. I paesi dove gli agricoltori possono chiedere prestiti a interessi bassi sono quelli che se la caveranno meglio, come gli Stati Uniti, mentre i coltivatori sudamericani rischiano molto di più. Un altro problema è la scarsità di credito. Il sistema funziona quando i prestiti a breve termine consentono a ogni anello di pagare i prodotti prima di venderli, ma se le operazioni rallentano, come in questo momento, i prestiti si allungano nel tempo e non viene liberato denaro che potrebbe essere speso altrove. In questo momento, poi, le banche sono diffidenti a finanziarie operazioni su merci di qualsiasi tipo a causa della volatilità delle valute, al crollo del mercato del petrolio e alla diminuzione del valore del grano, due beni che sono spesso offerti come garanzia.

L’ultimo fattore di incertezza è il comportamento che terranno i governi di fronte alla crisi. Nel 2007-2008, 33 paesi approvarono dei controlli sulle esportazioni, tra i principali fattori che fecero aumentare il costo del riso del 116 per cento. Oggi 19 stati hanno già limitato le esportazioni, ma per ora l’impatto è inferiore: allora ebbe ripercussioni sul 19 per cento del totale delle calorie commercializzate, ora ce l’ha avuto solo sul 5 per cento. La situazione potrebbe però cambiare e le restrizioni sulle esportazioni dal Vietnam hanno già provocato l’aumento del costo del riso.

Il costo del cibo cresce anche a causa della decisione di alcuni stati di aumentare il flusso di importazioni per fare scorte alimentari: molti stanno cercando di fare scorte di grano per 4 mesi anziché i soliti 3. Il controllo sulle esportazioni e la domanda di scorte stanno mettendo in crisi alcune nazioni più povere, che hanno anche visto crollare le loro valute e devono già pagare di più per importare cibo.

L’Economist invita la comunità internazionale ad agire per evitare la crisi alimentare. Ad aprile, 22 membri dell’Organizzazione mondiale del commercio, che insieme coprono il 63 per cento delle esportazioni dell’agricoltura, avevano chiesto di mantenere il mercato delle importazioni aperto, senza alcun tipo di controllo. Secondo l’Economist aiuterebbero anche la trasparenza sulle scorte alimentari e un coordinamento tra i supermercati, che potrebbero segnalare la scarsità di prodotti e scambiarseli tra loro.