La messa è così importante per i cattolici?

La risposta breve è sì, ma non tutti la pensano come la CEI

(Carlos Alvarez/Getty Images)
(Carlos Alvarez/Getty Images)

Da due giorni alcuni pezzi della Chiesa cattolica criticano il governo per non avere incluso la messa, cioè la principale celebrazione cattolica, fra le attività che potranno riprendere dopo il 4 maggio, giorno in cui si allenteranno alcune delle restrizioni per il coronavirus. La Conferenza Episcopale Italiana (CEI), l’assemblea permanente dei vescovi, ha diffuso un duro comunicato dicendo che «esige» di «poter riprendere la sua azione pastorale», perché vede «compromesso» l’esercizio della libertà di culto. Il governo ha risposto che nei prossimi giorni dovrebbe emanare un «protocollo» per riprendere a celebrare le messe «in sicurezza».

In molti, soprattutto fra i non cattolici, si sono chiesti se la messa sia davvero così necessaria a fronte di una emergenza sanitaria mondiale, e più in generale se sia così centrale nella dottrina. La risposta breve è sì, ma le cose sono più complicate di così.

La tradizione di celebrare un nuovo rito nacque nei decenni successivi alla morte di Gesù Cristo, e prendeva spunto da elementi presenti nella religione ebraica e in alcune tradizioni pagane diffuse in Medio Oriente. I momenti fondamentali erano due, rintracciabili ancora oggi: la lettura e preghiera collettiva di testi sacri e il pasto. Il momento più importante del pasto era quello dell’Eucarestia, che in greco antico significa riconoscenza, e replicava un importante episodio raccontato nei Vangeli.

Nell’ultima cena prima della crocifissione, si racconta che Gesù Cristo diede da mangiare ai propri seguaci pane e vino, dicendo loro che avevano lo stesso valore del suo corpo e del suo sangue. I cristiani hanno continuato a replicare quel gesto – mangiare pane e bere vino – convinti che Gesù Cristo fosse presente nei cibi che stavano consumando.

I cristiani cattolici credono quindi che nel pezzo di pane secco (“particola”) che mangiano a messa durante il momento dell’Eucarestia – detta anche “comunione” – sia presente Gesù Cristo: è il concetto di transubstanziazione, rifiutato invece dalla maggior parte delle Chiese protestanti, ed è uno dei sacramenti più importanti.

Attorno al quarto secolo d.C. il pasto scomparve e l’Eucarestia venne definitivamente accorpata al momento della lettura dei testi sacri e della preghiera. Durante il Medioevo, con l’espansione dell’autorità del clero, lo spazio di partecipazione dei fedeli si restrinse sempre di più, finché la messa recitata dal sacerdote e quella dei fedeli diventarono due entità separate. Fino al Novecento i sacerdoti pronunciavano la messa in latino, una lingua sconosciuta alla gran parte delle persone, e celebravano a bassa voce dando le spalle ai fedeli. La messa come la conosciamo oggi, più aperta e partecipata, è frutto di una riforma decisa nel 1963 dal Concilio Vaticano II, il più importante congresso riformatore tenuto dalla Chiesa negli ultimi secoli.

Nonostante le varie modifiche alla struttura e alla “liturgia” – cioè l’insieme di formule e cerimonie che vengono celebrate da sacerdote e fedeli – il centro della messa è sempre rimasto l’Eucarestia, tanto che simbolicamente la particola può essere consegnata ai fedeli soltanto dal sacerdote oppure da alcune persone particolarmente legate alla Chiesa. Secondo il Concilio Vaticano II l’Eucarestia è «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» perché mangiando la particola i cattolici credono di incorporare Gesù Cristo, cioè Dio.

Per queste ragioni si può comprendere perché i cattolici più osservanti soffrano l’assenza delle messe, e quindi dell’Eucarestia. Poi c’è anche la dimensione comunitaria: per molte persone andare a messa significa banalmente incontrare amici e conoscenti, fare quattro chiacchiere, portare avanti una vita di comunità.

Non tutti però, soprattutto negli ambienti cattolici più progressisti, concordano con il modo con cui la Chiesa cattolica italiana ha chiesto con forza di tornare a celebrare le messe.

Don Cristiano Mauri, cappellano dell’Università Bicocca di Milano, ha pubblicato un lungo post per prendere le distanze dal comunicato della CEI. Mauri ha criticato soprattutto il fatto che la CEI abbia tirato in ballo la libertà di culto: «A nessun italiano è proibito di manifestare pubblicamente la propria fede. […] Oltretutto, denunciare una aggressione alla libertà di culto è irrispettoso verso coloro che nel mondo realmente non ne godono». In Italia, per esempio, esistono pochissime moschee per un milione e 500mila fedeli musulmani, speso costretti a celebrare i loro riti in capannoni e scantinati. Milano non ne ha nessuna, per fare l’esempio più eclatante, a causa delle politiche del centrodestra in comune (quando governava) e in regione.

Mauri ha aggiunto che i vescovi italiani sbagliano quando sostengono che riprendere le messe equivalga a «riprendere l’azione pastorale»: «l’azione pastorale non si è mai interrotta, anzi, per certi versi si è perfino potenziata e molti, tra l’altro, si sono trovati a inventare modalità che difficilmente avrebbero considerato». Mauri si riferisce probabilmente alla celebrazione di messe o preghiere in streaming, ai rapporti che sacerdoti e altri uomini della chiesa stanno cercando di mantenere con i parrocchiani, e alle varie attività di solidarietà portate avanti da singole chiese o diocesi.

Più in generale, Mauri scrive che «il culto cristiano, grazie a Dio, è ben più dell’Eucaristia e questo va detto con chiarezza, pur preservando l’importanza di quest’ultima».

La Messa non è l’unica risposta ai “bisogni spirituali” dei credenti. Chi lo sostiene dimostra una visione di Chiesa e di vita cristiana estremamente limitata e riduttiva. Perché, altrimenti, tutti i discorsi che si fanno a chi non può ricevere l’Eucaristia, dove finiscono?

È vero che manca molto il poterci radunare a pregare insieme, ma si tratta di una situazione temporanea. In queste settimane credo si sia davvero visto che il culto cristiano non è solo l’Eucaristia e negarlo o comunque spazzarlo via con un comunicato così è disperdere un patrimonio.

Secondo questa lettura, negli ultimi decenni la Chiesa cattolica italiana ha puntato moltissimo sull’importanza della messa e dell’Eucarestia – quindi su una dimensione associativa della fede – trascurando per esempio di fornire ai fedeli i rudimenti per leggere in maniera autonoma la Bibbia. Il fatto che per celebrare una messa e dare l’Eucarestia sia necessaria la presenza di un sacerdote, inoltre, limita moltissimo il coinvolgimento e la partecipazione dei fedeli laici nella gestione dei riti.

Secondo alcuni, avere insistito sulla messa come rito associativo senza possibilità di coinvolgere i fedeli in maniera più partecipata è una delle ragioni per cui un po’ in tutta Italia le messe sono sempre meno frequentate.

Enzo Bianchi, teologo e fondatore della comunità monastica di Bose (in provincia di Biella), ha scritto di recente che quando assiste a certe messe «l’impressione che vivo è quella di “assistere”, non di parteciparvi realmente, quale parte di un’assemblea celebrante presieduta da un presbitero. Tutti sono spettatori passivi di un’azione dalla quale si è di fatto esclusi, testimoni di un cerimoniale ripetitivo e poco convinto». Bianchi auspica anche che nei prossimi anni la Chiesa avvii un totale ripensamento della messa:

«Siamo davvero convinti che qualche ritocco della traduzione del Messale (del quale sta per uscire in Italia la terza edizione) sarà sufficiente affinché risuoni nella celebrazione una “lingua viva”, che per essere tale abbisogna di creazione, invenzione, trasformazione, riformulazione, dialogo […]? Non si tratta di invocare una creatività selvaggia e anarchica, ma perché continuare a ripetere formule nate nel primo millennio? Perché mantenere immagini di Dio che non corrispondono più alla nostra fede attuale?»