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  • Sabato 18 aprile 2020

L’indipendenza dello Zimbabwe, 40 anni fa

Il 18 aprile 1980 Bob Marley suonò nello stadio della capitale per celebrare la fine del governo coloniale, e l'inizio di quello che sarebbe diventato uno dei più noti regimi africani

I leader dell'indipendentismo dello Zimbabwe Robert Mugabe, a sinistra, e Joshua Nkomo, a destra, il 7 ottobre 1979. (AP Photo)
I leader dell'indipendentismo dello Zimbabwe Robert Mugabe, a sinistra, e Joshua Nkomo, a destra, il 7 ottobre 1979. (AP Photo)

Il 18 aprile 1980, quarant’anni fa, un ufficiale britannico ammainò la bandiera del Regno Unito da un’imponente asta nel mezzo dello stadio Rufaro di Salisbury, il nome dell’allora capitale della Rhodesia. Al suo posto venne issata la colorata bandiera di un nuovo stato africano indipendente, che avrebbe preso il nome di un’antica capitale abbandonata nel Quindicesimo secolo: Zimbabwe. In uno stadio pieno di decine di migliaia di persone, Bob Marley cantò la sua canzone che portava il nome del paese, alla presenza di capi di stato internazionali e del principe Carlo d’Inghilterra.

La musica di Marley aveva accompagnato i guerriglieri della Chimurenga, il nome in lingua shona – parlata da milioni di persone nell’Africa meridionale – della lotta armata cominciata negli anni Sessanta e che portò alla fine del governo coloniale britannico in Zimbabwe e all’inizio dell’era di Robert Mugabe, che avrebbe governato fino al 2017 diventando uno dei più longevi e controversi leader politici del Novecento.

La presenza britannica in Zimbabwe era cominciata quasi un secolo prima, quando l’uomo d’affari Cecil Rhodes arrivò con la sua British South Africa Company, una compagnia commerciale che stabilì con la violenza, l’oppressione e lo sfruttamento un impero coloniale nell’Africa meridionale. Rhodes controllava gran parte del mercato diamantifero mondiale, e raggirando le popolazioni locali con la complicità della monarchia britannica ottenne estese concessioni in Zimbabwe (che sarebbe diventato la Rhodesia Meridionale nel 1898) e in Sudafrica (che allora era chiamata Colonia del Capo).

Fallita la prima rivolta della popolazione nativa, lo Zimbabwe rimase di fatto governato dalla compagnia di Rhodes fino al 1923, quando un referendum sancì lo status di colonia britannica indipendente. Il territorio si dotò di leggi e governi propri, controllati dagli europei che redistribuirono le terre in questo modo: per metà andarono a circa 50mila coloni bianchi, e soltanto il 30 per cento fu assegnato agli oltre un milione abitanti nativi.

Fin dall’inizio del secolo si erano stabiliti in Zimbabwe oltre 30mila coloni europei, attirati dalla promessa di una terra florida e a loro disposizione, e nei vent’anni successivi crebbero fino a superare i 150mila. Erano tutelati da leggi discriminatorie che garantivano loro potere e controllo economico delle risorse, messe in piedi dal primo ministro Godfrey Huggins che riteneva che il potere non dovesse essere dato agli africani finché non si fossero dimostrati in grado di condividerlo con gli europei.

Huggins voleva anche creare una federazione con la Rhodesia Settentrionale, cioè lo Zambia, e il Nysaland, l’attuale Malawi: l’ostilità della popolazione nativa al progetto, insieme a una sempre maggiore consapevolezza politica e insofferenza per il sistema coloniale, venne raccolta da Joshua Nkomo, uno dei più importanti leader politici nazionali i cui partiti sarebbero stati sistematicamente vietati dal governo bianco. Nel 1963 un suo giovane compagno di partito si unì all’Unione Nazionale Africana di Zimbabwe, fondata in dissenso con Nkomo, che voleva condurre la battaglia politica per un paese indipendente in esilio.

Un sostenitore del “sì” al referendum sulla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Rhodesia attraversa la strada a Salisbury, nel 1964. (Express/Express/Getty Images)

Nel 1965 il governo della minoranza bianca dichiarò unilateralmente l’indipendenza della Rhodesia, che però non fu mai riconosciuta a livello internazionale e fu bloccata dall’opposizione della monarchia britannica e delle Nazioni Unite. Nel giro di pochi anni il progetto naufragò, e un nuovo referendum nel 1969 – le cui regole, come negli anni precedenti, di fatto impedivano la partecipazione ai nativi – ristabilì lo status di repubblica della Rhodesia, stabilendo una ridottissima partecipazione parlamentare per i politici neri. Nel frattempo, però, l’opposizione politica africana si era dotata di bracci armati, raccogliendosi in due fazioni principali: quella di Mugabe, costituita principalmente da miliziani di etnia shona, e quella di Nkomo, per la quale combattevano gli ndebele.

Dopo prime sporadiche – e in gran parte deboli – azioni di guerriglia contro l’esercito regolare, gli attacchi della fazione di Mugabe si intensificarono all’inizio degli anni Settanta, con il sostegno della Cina e dei fronti di liberazione di altri stati africani, come il Mozambico. Per anni la guerra non ebbe soltanto due fronti, perché i gruppi di Mugabe (ZANU) e di Nkomo (ZAPU) combattevano anche tra di loro: si riavvicinarono però nel 1976 formando il Fronte Patriottico. Negli anni degli strascichi della Guerra fredda, anche la battaglia per l’indipendenza dello Zimbabwe venne descritta come una guerra tra l’Occidente liberale e le forze comuniste appoggiate dall’Unione Sovietica. E in parte fu davvero così: come moltissimi altri movimenti di liberazione nazionale di quegli anni, anche il Fronte Patriottico diventò nominalmente una forza di ispirazione comunista.

Una guardia armata sorveglia un hotel per bianchi in Rhodesia, nel 1978. (AP Photo/Eddie Adams)

Il politico che rappresentò la lotta della minoranza bianca contro le rivendicazioni degli africani fu Ian Smith, primo ministro tra il 1965 e il 1979, che nel 1976 pronunciò un famoso discorso in cui annunciò: «Non credo in un governo della maggioranza nera in Rhodesia, nemmeno tra mille anni. Credo nei bianchi e nei neri che lavorano insieme: se oggi ci sono i bianchi e domani i neri, credo che avremo fallito e che sarà un disastro per la Rhodesia».

La previsione di Smith si rivelò quantomeno inesatta. Il Fronte Patriottico aveva messo insieme un esercito di diverse migliaia di soldati, alcuni dei quali veterani di paesi occidentali che si erano uniti alla causa di Mugabe e Nkomo, compresi molti americani che avevano combattuto la guerra in Vietnam. L’Unione Sovietica intensificò i suoi aiuti, in funzione anti-occidentale e anche anti-cinese, e grazie alle armi fornite il Fronte Patriottico riuscì ad assestare attacchi pesanti al modesto esercito del governo bianco. La caduta del potere portoghese nel confinante Mozambico, poi, fu una pessima notizia per il governo della Rhodesia, che ora condivideva centinaia di chilometri con un paese apertamente ostile e alleato dei ribelli.

Robert Mugabe e Joshua Nkomo all’ONU nel 1978. (AP Photo/David Pickoff)

Smith da tempo aveva perso il sostegno internazionale, e perfino il Regno Unito da anni si dichiarava neutrale. Si rese quindi conto che era necessario trattare con la maggioranza nera: mentre negoziava una transizione dei poteri con i politici africani moderati, però, intensificò la repressione delle forze del Fronte Patriottico, servendosi anche di armi chimiche e con frequenti incursioni in Mozambico e Zambia, dove si nascondevano i guerriglieri. Tra il 1977 e il 1979 le violenze raggiunsero il loro massimo, con numerose stragi di civili e con l’abbattimento di due voli commerciali da parte del Fronte di Liberazione. Con l’economia in crisi, la minoranza bianca che diminuiva di mese in mese per la massiccia emigrazione, e con la pressione militare del Fronte Patriottico sempre più forte, Smith acconsentì alle elezioni aperte nel 1979.

Stravinse il Consiglio Nazionale Africano Unito, partito moderato della maggioranza nera che aveva condotto le trattative con Smith, che rinominò la Rhodesia in Zimbabwe. Ma un governo senza il Fronte Patriottico era destinato a vita breve, e così fu: dopo altre trattative furono organizzate nuove elezioni nel febbraio del 1980, alle quali il partito di Mugabe ottenne 57 seggi su 80. 20 andarono al partito di Nkomo, e soltanto 3 al Consiglio Nazionale Africano Unito. Lo ZAPU fu accusato di brogli e intimidazioni, ma il sostegno per Mugabe era prevalente: il risultato fu accettato, e lui fu nominato primo ministro.

Il governo di Mugabe abbatté le discriminazioni messe in piedi dal governo bianco, ridistribuì le terre, avviando un massiccio programma di spesa sociale che allargò l’alfabetizzazione e l’accesso alle cure mediche per la popolazione dello Zimbabwe. Ma contemporaneamente mise le basi per un regime oppressivo, acquisendo i mass media e allontanando dal governo Nkomo, che – accusato di progettare un colpo di stato – dovette lasciare il paese. Le mai risolte tensioni tra ZAPU e ZANU, che si portavano dietro quelle più profonde e radicate tra etnie shona e ndebele, si riacuirono dopo l’indipendenza.

A partire dal 1983, l’esercito di Mugabe compì una serie di massacri nella regione del Matabeleland Settentrionale, a prevalenza ndebele e dove si era concentrato il dissenso contro il nuovo governo. Finirono soltanto nel 1987, quando Mugabe e Nkomo trovarono un accordo per unire ZANU e ZAPU, di fatto sottomettendo il secondo al primo. Nkomo tornò in Zimbabwe, dove fu nominato vice presidente, carica prevalentemente simbolica che mantenne fino alla morte nel 1999. Mugabe sopravvisse altri vent’anni, tutti al potere tranne due: nel 2017, l’esercito lo rimosse dal potere mettendo fine a un regime totalitario che era stato caratterizzato, nel suo ultimo decennio, da una grave crisi economica, repressione del dissenso, corruzione, brogli elettorali e persecuzioni contro le minoranze.