Le morti sospette al Pio Albergo Trivulzio

Nel centro di assistenza per anziani più famoso di Milano i dipendenti accusano la dirigenza di avere gestito malissimo l'emergenza, con ritardi, negligenze e bugie

(ANSA/VINCE PAOLO GERACE)
(ANSA/VINCE PAOLO GERACE)

Negli ultimi giorni diversi quotidiani si sono occupati della gestione dell’epidemia da coronavirus al Pio Albergo Trivulzio, uno dei più famosi centri di assistenza sanitaria per anziani di Milano. La tesi di Repubblica e del Corriere della Sera – i giornali che se ne sono occupati per primi – è che nelle scorse settimane ci siano state diverse decine di morti riconducibili al coronavirus mai registrate ufficialmente come tali. Secondo diverse ricostruzioni, le morti e più in generale la diffusione del contagio vanno attribuiti a una gestione piuttosto confusa dell’emergenza da parte dei dirigenti dell’ospedale.

La storia del Trivulzio si inserisce nella cornice più ampia nell’aumento dei morti nelle case di riposo (RSA) della Lombardia, attribuiti ufficiosamente al coronavirus ma fuori dai conteggi della Protezione Civile.

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Il sospetto è condiviso da alcuni operatori e delegati sindacali che hanno parlato anche col Post. «All’inizio della vicenda gli operatori del Trivulzio sono stati mandati allo sbaraglio», ha raccontato Rossella Delcuratolo, rappresentante sindacale della CISL per gli ospedali di Milano.

Verso la fine di febbraio i casi di coronavirus individuati in Italia erano ancora poche decine. Eppure il Trivulzio – fondato nel 1766, che ospita sia una RSA sia alcuni reparti di riabilitazione – si trova a soli cinquanta chilometri da Codogno, il primo focolaio italiano, e come tutti i centri che ospitano anziani e malati era in una condizione particolarmente vulnerabile. Senza le adeguate protezioni, gli operatori sanitari avrebbero potuto contrarre il virus all’esterno e infettare i pazienti con cui entravano a contatto, oppure trasportare il virus dai pazienti infettati a quelli sani. È esattamente quello che in molti sospettano sia accaduto.

Uno dei medici che per primo chiese che gli operatori del Trivulzio indossassero le mascherine protettive è stato Luigi Bergamaschini, un geriatra che insegna all’università Statale di Milano e da alcuni anni collabora col Trivulzio. «Bergamaschini ci aveva visto lungo», ha raccontato Delcuratolo, e aveva autorizzato l’uso delle mascherine agli operatori del suo reparto, fra i più esposti di tutta la struttura: il pronto soccorso geriatrico.

La necessità di indossare le mascherine nella vita di tutti i giorni è ancora oggi oggetto di discussione, ma fin dai primi focolai l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva raccomandato di usarle a contatto con persone potenzialmente positive al coronavirus. In quei giorni, fra l’altro, l’ospedale era ancora aperto alle visite; i medici e il personale sanitario continuavano ad avere normali contatti con l’esterno, senza particolari precauzioni.

Una settimana dopo la sua decisione, però, Bergamaschini era stato convocato dalla direzione e sospeso dal suo incarico: «Il direttore generale Calicchio era montato su tutte le furie perché facevo indossare le mascherine», ha raccontato giorni dopo Bergamaschini a Repubblica. Il Trivulzio aveva spiegato invece di volerlo tutelare per via della sua età (Bergamaschini ha 70 anni).

Diverse testimonianze fanno pensare però che quello di Bergamaschini non fosse un caso isolato. Negli stessi giorni in cui veniva sospeso dal suo incarico, ha raccontato Delcuratolo, le poche mascherine disponibili «venivano nascoste chiuse a chiave dai capisala», mentre «chi le portava da casa veniva minacciato di provvedimento disciplinare». Le poche disponibili venivano utilizzate in maniera occasionale e in pochissimi reparti, cosa che di fatto le rendeva inutili.

A una prima richiesta di spiegazioni da parte della CISL, l’ospedale si difese sostenendo che non fossero necessarie per curare pazienti non affetti da CODIV-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, perché l’operatore non rischiava in nessun modo di essere contagiato. Delcuratolo sostiene che la spiegazione della dirigenza non avesse senso – «le mascherine non servivano a tutelare gli operatori ma gli anziani» – e sospetta che il Trivulzio ne scoraggiasse l’uso perché «l’obiettivo era evitare l’allarmismo fra i pazienti», cosa che a sua volta avrebbe creato un potenziale danno di immagine.

Nel frattempo Bergamaschini era stato reintegrato, ma la situazione era diventata pubblicamente preoccupante. Non è chiaro né quando sia stato registrato il primo caso ufficiale nella struttura né quale sia stato lo sviluppo del contagio, ma un articolo del Corriere della Sera del 23 marzo parlava già di «decine e decine di infettati distribuiti in quasi tutti i reparti e i padiglioni», in cui il coronavirus si era diffuso «pesantemente».

Il giorno dopo la pubblicazione dell’articolo «la mascherina ce l’avevano tutti», ricorda un po’ amaramente Delcuratolo (in una nota stampa pubblicata il 5 aprile, il Trivulzio si è difeso spiegando che «per quanto riguarda l’uso dei dispositivi di protezione individuale si è attenuto e si attiene alle disposizioni di Regione Lombardia e dell’Agenzia di Tutela della Salute)».

Ma la questione delle mascherine è soltanto la più evidente delle molte cose andate storte in quei giorni all’interno del Trivulzio, a sentire le testimonianze di chi ci lavora.

«Per molto tempo i parenti dei pazienti sono entrati senza problemi perché non c’erano restrizioni», ha raccontato un’operatrice sanitaria che ha chiesto di restare anonima per non compromettere il suo rapporto di lavoro con la struttura. Soltanto all’inizio di marzo erano state introdotte graduali restrizioni all’orario di visita, come l’ingresso a piccoli gruppi nella struttura, ma il completo isolamento era arrivato soltanto dopo il decreto del governo che ordinava l’isolamento della Lombardia, adottato il 9 marzo.

All’interno del Trivulzio, inoltre, non è mai stato creato un reparto specifico per pazienti con sintomi compatibili all’infezione da coronavirus, né la dirigenza ha mai selezionato del personale che lavorasse soltanto con i casi sospetti. Nel turno di notte, per esempio, gli infermieri della struttura lavorano a volte in sei reparti, a contatto con decine di pazienti in condizioni molto diverse, rischiando di infettare colleghi e pazienti sani.

Come in molte altre RSA lombarde, inoltre, i tamponi per accertare la positività non erano disponibili né per il personale sanitario né per i pazienti. In questo modo gli anziani con sintomi compatibili con la COVID-19 venivano identificati in maniera soltanto informale, e mai ufficialmente riconosciuti dalla struttura. «Gli anziani morivano e a noi, nonostante l’evidenza dei sintomi, dicevano che si trattava solo di bronchiti e polmoniti stagionali», ha raccontato a Repubblica Pietro La Grassa, delegato sindacale della CGIL che lavora al Trivulzio. Al momento il numero ufficiale dei morti per casi sospetti di infezione da coronavirus sono 9, dall’inizio di marzo a oggi.

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Nella nota stampa con cui si è difeso, il Trivulzio ha spiegato che il dato dei morti nei primi tre mesi del 2020 nella struttura centrale – quella che si trova a Milano – «è in linea con i decessi avvenuti nel corrispondente trimestre del 2019: 170 contro 165», e che quindi non esiste alcun caso di «morti sospette».

Sono in molti, però, a giudicare fuorvianti questi dati: per prima cosa non tengono conto del fatto che l’aumento dal mese di marzo del 2019 al marzo del 2020 sia stato molto consistente: da 47 a 65 casi, cioè il 38 per cento in più, come emerge dal confronto fra alcuni dati contenuti nel comunicato stampa e altri forniti dalla struttura al Corriere della Sera.

Il dato diffuso dalla struttura, inoltre, lascia fuori anche i morti registrati nella prima settimana di aprile. L’operatrice sanitaria, che ha contatti con la camera mortuaria della struttura, sostiene che dal primo aprile a oggi i morti siano stati 28, cioè una media di cinque al giorno. «Non sanno più dove metterli», racconta l’operatrice. Anche Repubblica ha scritto che per la prima volta nella storia dell’istituto «le bare erano state collocate nella chiesa, perché l’obitorio non aveva più posto».

Al momento le condizioni nella struttura sono piuttosto precarie: diversi reparti sono isolati, decine di operatori sanitari, infermieri e medici sono in malattia, e il personale rimasto continua a entrare in contatto – sebbene con le protezioni, infine – con pazienti con sintomi compatibili al COVID-19, ma la cui positività non è mai stata accertata.

Dopo gli articoli usciti su Repubblica e sul Corriere della Sera, il viceministro della Sanità ha annunciato di avere avviato una indagine interna sul Trivulzio, e ha detto di ritenere «utile» una ispezione ministeriale della struttura. La procura di Milano sta già indagando sia sul Trivulzio sia su diverse altre case di riposo del milanese, come confermato dalla procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano.