Buone ragioni per litigare a tavola

Il vero ragù è bolognese o napoletano? La braciola è un involtino o una fetta di carne? Chi ha inventato la parmigiana? E cos'è il pesto?

(Io sono l'amore)
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Vogliamo darvi un buon motivo per litigare a Natale, mettendo da parte la politica, lo sport e i rancori familiari mai sotterrati. È sempre più comune che le tavolate delle feste siano mescolate con parenti acquisiti da altre regioni, ognuna con la sua diversa tradizione gastronomica: quando sentirete la conversazione farsi tesa o al contrario, troppo pacifica e noiosa, potete far litigare un napoletano o un bolognese su quale sia l’unico vero ragù, oppure creare un po’ di turbamento tra romani e pugliesi annunciando una portata a base di stracciatella. E ancora: è meglio la parmigiana siciliana o napoletana? la cotoletta milanese o bolognese? e le lasagne da dove vengono? e i taralli?

Il ragù napoletano e il ragù bolognese
Il nome deriva dal francese ragoût che indicava un piatto di carne di montone stufata e con molto condimento; derivava a sua volta da ragoûtant, “appetitoso”. La diatriba su quale sia il ragù autentico e più buono è forse la più classica della cucina italiana, anche per la diffusione che il condimento ha nel paese e nel resto del mondo. Quello che si è affermato di più è probabilmente – preferiamo essere cauti anche noi – il ragù alla bolognese, servito tradizionalmente con le tagliatelle. La ricetta più conosciuta venne codificata nel Cucchiaio d’argento, il popolare ricettario pubblicato nel 1950, e ripresa in una versione depositata nel 1982 alla Camera di Commercio di Bologna dall’Accademia Italiana della Cucina (la trovate qui): prevede polpa di manzo macinata grossa, pancetta di maiale, carote, costa di sedano, cipolla, passata di pomodoro o pelati, vino bianco, latte, un po’ di brodo, olio o burro, sale, pepe, panna liquida facoltativa e una cottura di circa due ore.

Una primissima testimonianza del ragù alla bolognese si trova nel Cuciniere italiano moderno, di metà Ottocento, dove i Maccheroni alla famigliare vengono conditi con la carne avanzata da un sugo di braciole, poi tritata; i Maccheroni alla bolognese vennero descritti per la prima volta da Pellegrino Artusi, in La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene del 1891: il condimento è a base di pancetta di maiale e carne di vitello insaporiti con sedano, carote e cipolla e cotti nel brodo di carne, seppur ancora privo del pomodoro. La ricetta con la carne di manzo macinata e passata si codificò nel secondo Dopoguerra.

L’odierno ragù napoletano è il sugo densissimo derivato dalla lenta cottura di alcuni tipi di carne nel pomodoro; viene usato per condire la pasta mentre la carne è servita a tavola come secondo. Deriva dai ragoût francesi arrivati a Napoli nel Settecento, ma la carne di montone venne sostituita da quella di manzo o vitello con l’aggiunta di pomodoro. La testimonianza scritta più antica si trova nel ricettario Il cuoco galante del 1773 di Vincenzo Corrado, dove indicava diversi tipi di carne e pesce cotti a lungo in una sorta di brasato e mangiati come un piatto a sé o come ripieno. Nel 1790 Francesco Leonardi nominò in L’Apicio moderno i Maccaroni alla Napolitana, conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo; la seconda versione del ricettario prevede anche l’aggiunta di pomodoro. Il ragù napoletano come lo conosciamo appare nel 1837 nella Cucina teorico pratica di Ippolito Cavalcanti, forse il più famoso ricettario napoletano antico, dove compare anche per la prima volta la ricetta degli Spaghetti al pomodoro: qui la pasta è condita in zuppiera con «once 12 di parmigiano grattugiato e sugo di carne ovvero brodo di ragù».

Esistono infinite varianti sulla carne da scegliere: non possono mancare – oltre alla passata di pomodoro, all’olio e alle cipolle – le costine di maiale, un pezzo di carne di manzo, pancetta, braciola (che a Napoli è un involtino di carne di manzo ripieno di uvetta, pinoli e pecorino); chi vuole ci aggiunge anche il lardo e lo strutto. Si fa cuocere con coperchio e a fuoco lento dalle tre alle quattro ore – il ragù deve pippiare, si dice, cioè sobbollire, sbuffare lievemente – finché si ottiene un sugo rosso cupo pronto per la pasta.

 

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In Sicilia infine si prepara un ragù molto simile a quello bolognese ma con molta più passata e l’aggiunta di piselli; viene usato per condire la pasta e le lasagne e per farcire gli arancini o arancine (sono la stessa cosa, ma a Palermo sono indicati con il femminile, a Catania con il maschile).

Lasagna o lasagne
Anche qui lo scontro è tra Napoli e l’Emilia-Romagna, anche se è un piatto presente in tutto il centro-sud con centinaia di varianti. La parola lasagna, come spiega Massimo Montanari nel saggio Il mito delle origini, deriva dal greco antico làganon e dal latino lagana, che indicavano pasta di acqua e farina che veniva stesa e tirata, arrostita su pietra, fritta o cotta al forno, a volte lievitata, ma mai bollita in acqua.

Le lasagne emiliane, e in particolare bolognesi, sono verdi per l’aggiunta di spinaci o erbette nell’impasto; vengono condite a strati con ragù bolognese, besciamella, burro, parmigiano e ripassate al forno. La ricetta è documentata per la prima volta nel 1935 dallo scrittore e giornalista Paolo Monelli nel libro Il Ghiottone errante, ma era diffusa già a inizio Novecento nei ristoranti; nel 2003 l’Accademia Italiana della Cucina l’ha depositata presso la Camera di Commercio di Bologna, la trovate qui.

La lasagna napoletana si serve tradizionalmente a Carnevale, il giovedì o martedì grasso. È fatta di strati di pasta sfoglia o all’uovo conditi con ragù napoletano, polpettine fritte nell’olio e insaporite nel ragù, con un ripieno di ricotta di pecora al posto dell’emiliana besciamella e, in base alle diverse versioni, salsiccia piccante, salame, uova sode, mozzarella fior di latte, provola, pecorino e parmigiano grattugiati; se non basta, potete aggiungere anche un cucchiaino di strutto. Una nota sul ragù: quello preparato a Carnevale è ricco di carni di maiale, che veniva macellato in questo periodo: abbonda quindi di costine e cervellatine (sottili salsiccette di suino).

Le braciole
Come avrete intuito, la parola braciola sarebbe arrivata presto in questa lista. Nell’Italia settentrionale indica un taglio di carne bovina o suina che proviene dal carré, la parte dorsale. Si tratta quindi di fette di carne con l’osso, solitamente cotte alla griglia o in padella; un tempo indicava la costata di manzo o il nodino di vitello, ora più frequentemente il nodino o la costoletta di maiale. Nel Sud, e in particolare ancora una volta a Napoli, indica un involtino di carne di manzo, solitamente la noce di manzo, farcito con pecorino, uvetta, pinoli, prezzemolo e aglio, e cotta a lungo nella salsa di pomodoro. Il sugo viene usato per condire la pasta, come con il ragù napoletano; la braciola è anche un ingrediente fondamentale per il suddetto ragù.

Pesto
È sinonimo di pesto alla genovese, quello con il parmigiano e il basilico, ma in Italia indica sughi e preparati molto diversi.

Quella alla genovese trae probabilmente origine dal moretum romano, un miscuglio di erbe aromatiche, aglio, pecorino fresco e stagionato e olio, pestato con il mortaio e spalmato sul pane. Genova poteva disporre in più dei pinoli, che arrivavano dalla rivale Pisa che aveva sconfitto a fine Duecento, e del basilico, che era arrivato dall’India. La ricetta originale del cosiddetto “battuto genovese” è citata per la prima volta da Giovanni Battista Ratto in La Cuciniera genovese nel 1863, e prevedeva anche il gouda olandese:

Prendere uno spicchio d’aglio, basilico (baxaicö) o in mancanza di questo maggiorana e prezzemolo, formaggio olandese e parmigiano grattugiati e mescolati insieme e dei pignoli e pestate il tutto in mortaio con poco burro finché sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fine in abbondanza. Con questo battuto si condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie), unendovi un po’ di acqua calda senza sale per renderlo più liquido.

Il pesto alla genovese ha dato origine a varianti regionali: a Trapani per esempio, venne portato dalle navi genovesi che vi facevano sosta dal Medio Oriente e fu modificato con gli ingredienti locali, cioè le mandorle e i pomodori. A Catania è diffuso il pesto di pistacchio (di Bronte), mentre il pesto catanese è a base di finocchietto selvatico, olio e pinoli; alcuni aggiungono anche i pomodori secchi e le acciughe.

Completamente diverso è invece il pesto alla modenese, detto anche cunza: è una battuta di lardo di maiale con aglio e rosmarino, usato per condire le tigelle. A Trapani e a Catania, un piatto di pasta al pesto indica quasi sempre quello alla genovese mentre le varianti regionali vengono specificate; a Modena e in provincia invece se qualcuno vi parla di pesto intende questa cosa qui.

La cotoletta
La cotoletta più famosa d’Italia è quella alla milanese che, insieme al panettone e al risotto allo zafferano, è il piatto più tipico di Milano. La rivalità più nota è quella con l’austriaca Wiener Schnitzel, una fetta sottile di vitello impanata e fritta nello strutto. Gli austriaci sostengono che furono i milanesi a copiare la cotoletta dalle truppe stanziate durante l’occupazione ottocentesca, mentre i milanesi ribattono che fu portata in Austria da Josef Radetzky dopo aver governato il regno del Lombardo-Veneto dal 1848 al 1857. A favore di questa tesi ci sarebbe la citazione, nella Storia di Milano di Pietro Verri del 1783, di un documento del XII secolo che nomina tra le portate di un pranzo a Milano, «lombolos cum panitio» cioè la lombata impanata. La classica cotoletta alla milanese è infatti una lombata di vitello con l’osso, impanata e fritta nel burro; più recente è la cosiddetta orecchia di elefante, battuta, più sottile e grande, dove spiccano soprattutto il sapore e la croccantezza della panatura.

La cotoletta alla bolognese, chiamata anche petroniana, è ancora più sostanziosa. Qui la carne è una fetta di vitello senza osso, che viene battuta, fatta insaporire con sale, pepe e succo di limone, passata nell’uovo, infarinata, ripassata in uovo, pangrattato e parmigiano e infine fritta nel burro. A quel punto si aggiungono una fetta di prosciutto crudo, parmigiano, brodo di carne, un po’ di burro e si cuoce con coperchio a fuoco lento. Alcune versioni prevedono l’aggiunta di salsa di pomodoro, c’è chi le ripassa al forno per renderle più croccanti, chi infine ci aggiunge scaglie di tartufo bianco.

Stracciatella
Indica piatti e ingredienti diversissimi tra loro. Il significato che probabilmente conoscete tutti è il gusto di gelato, cioè fiordilatte con scaglie di cioccolato fondente, che venne inventato nel 1961 da Enrico Panattoni, un toscano emigrato negli anni Venti a Bergamo, dove gestiva il caffè-ristorante La Marianna. Come si legge sul sito del caffè, quando Panattoni inventò il nuovo gusto decise di chiamarlo «come uno dei piatti più richiesti del ristorante, la stracciatella alla romana»: il cioccolato “stracciato” ricordava infatti l’uovo che si rapprende nel brodo caldo del piatto romano, diffuso anche nelle Marche e in Abruzzo. Si prepara aggiungendo al brodo di carne un composto di uova sbattute, parmigiano e noce moscata; si tiene ancora sul fuoco per qualche minuto mescolando con una frusta prima di servire.

Per finire, la stracciatella indica anche un formaggio fresco a pasta filata, tipicamente foggiano, che è fatto di mozzarella di bufala sfilacciata mescolata a panna: se non l’avete mai assaggiata, è simile all’interno della burrata.

 

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Il sanguinaccio
È un insaccato fatto di parti di maiale, interiora e sangue, diffuso in tutta Italia in innumerevoli varianti e chiamato in modo diverso da regione a regione. In Lombardia si prepara con sangue di maiale e patate o pane (come nella provincia pavese) e viene chiamato marzapane, da non confondere con i dolci fatti di pasta di mandorle. In Calabria, dov’è chiamato sangiari, prevede anche ricotta e vino cotto, in Puglia si aggiunge l’intestino. Al Nord viene spesso cotto con la polenta, al Sud in padella con cipolla, oppure tagliato a fette e grigliato o fritto.

Il sanguinaccio indica anche un dolce a base di cioccolato con l’aggiunta di sangue di maiale fresco, preparato a Carnevale quando il maiale veniva macellato. È tipico della Basilicata, della Calabria, dell’Abruzzo, di Napoli dove si mangia con le chiacchiere (i dolci fritti tipici di Carnevale noti anche come frappe, bugie, galani, crostoli) ma presente più o meno in tutte le zone contadine d’Italia. Dal 1992 in Italia è vietato vendere sangue di maiale per ragioni igieniche e oggi il sanguinaccio è a base di cioccolato fondente, cacao, farina, burro, cannella, chiodi di garofano; nella ricetta originaria il sangue caldo del maiale appena sgozzato si cuoceva in una pentola con il mosto cotto d’uva fino a farlo rapprendere in una sorta di crema, poi si aggiungevano noci e cannella.

Taralli
I più famosi sono quelli pugliesi, soprattutto nel formato dei tarallini: si trovano facilmente al supermercato, nei distributori automatici e sono un accompagnamento comune per gli aperitivi. Di base, sono degli anellini di pasta non lievitata, cotti al forno, a base di farina, acqua o vino, olio e sale a cui si possono aggiungere altri ingredienti come i semi di finocchio, la cipolla, il peperoncino o l’anice. Oltre che in Puglia, sono tipici anche della Basilicata, della Calabria, del Lazio, del Molise, della Sicilia, dell’Abruzzo e della Campania. Alcune regioni hanno una variante dolce, come nel Lazio, dove sono fatti anche con olio e vino e intinti nei vini locali dei castelli, e in Sicilia, dove vengono glassati e serviti per il Giorno dei morti. I taralli dolci pugliesi si chiamano anche inginocchiati e sono preparati per Pasqua: sono più grandi, prevedono l’uso di uova, sono prima bolliti, poi infornati e infine glassati. Si chiamano taralli anche dei tipici dolci abruzzesi, più simili a piccoli fagottini farciti di marmellata d’uva o amarene e mandorle in polvere.

 

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Infine a Napoli i taralli, preparati come cibo povero già dal Settecento nei fondaci cioè le zone attorno al porto, sono torcioni fatti con farina, pepe e strutto, a cui nell’Ottocento si aggiunsero le mandorle. Si mangiavano inzuppandoli nel vino oppure comprandoli direttamente caldi dal tarallaro, che li vendeva girando in città con una cesta in spalla.

Caponata
È un piatto tipicamente siciliano con innumerevoli varianti: di base si tratta di ortaggi, generalmente melanzane, tagliati a pezzi, fritti, conditi con passata di pomodoro e salsa agrodolce. Viene servito come antipasto o contorno ma nel Settecento era un piatto unico mangiato con il pane. È una preparazione tipica di tutta l’area mediterranea e non esiste una ricetta più autentica delle altre, come non è chiara l’origine del nome: pare infatti una leggenda quella che lo fa derivare dal Capone, il pesce Lambuca dalle carni magre e pregiate che era alla base di una zuppa di pesce e verdure in agrodolce servita alle tavole dei ricchi; i più poveri avrebbero ripreso la preparazione sostituendo il pesce con le melanzane.

La ricetta palermitana prevede melanzane, capperi, olive, cipolle, sedano, salsa di pomodoro, olio, sale, aceto e zucchero, quella catanese ha una maggiore quantità di melanzane e pomodoro con l’aggiunta di pinoli e basilico, ad Agrigento aggiungono i peperoni arramascati (i friggitelli) e a Trapani le mandorle tostate.

Anche in questo caso, la tradizione gastronomica napoletana conosce un piatto dallo stesso nome ma dalla preparazione del tutto diversa. La caponata napoletana è un condimento di pomodorini, tonno sott’olio, olive nere, olio e basilico da mangiare con le freselle, un tarallo di grano duro biscottato al forno, da ammorbidire con un po’ d’acqua e olio. A Capri indica una preparazione ancora diversa: è un’insalata con melanzane, tonno sott’olio, mozzarella, olive verdi e foglie di insalata servita su un fondo di crostoni di grano saraceno.

Zeppole
È una parola usata in tutta Italia per indicare due famiglie di dolci: quelli di Carnevale e quelli per San Giuseppe, la Festa del papà. I primi sono ciambelle fritte preparate con qualche variante in Sardegna, nelle Marche, in Umbria e in Campania. Le tzípulaas sarde per esempio possono avere nell’impasto anche patate, essere aromatizzate con arancia, zafferano, mirto e acquavite e poi glassate o zuccherate in superficie.
Le zeppole di San Giuseppe sono un dolce campano diffuso anche nelle regione vicine: sono ciambelle di pasta choux (quella dei bignè) farcite di crema pasticcera e con sopra un’amarena sciroppata. A Napoli, sono chiamate zeppole anche dei fritti di pasta cresciuta, fatta con pastella di farina, acqua e lievito, preparati nelle friggitorie tipiche con alghe di mare, acciughe salate o pesciolini bianchetti.

 

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Cassata, Parmigiana e Brioche
Se avete letto in ordine questo articolo avrete capito che la cucina napoletana è quella con più contenziosi di tutte e che ha un rapporto particolarmente conflittuale con quella siciliana. Le due tradizioni sono infatti molto simili per la prossimità geografica e per l’abbondanza di ingredienti in comune, che hanno costruito una storia di influenze e scambi reciproci. Inoltre hanno fatto parte del Regno delle due Sicilie, il dominio borbonico dal 1816 al 1861, che ebbe come capitale Napoli e come seconda città Palermo: fu in quegli anni che si codificarono molti piatti che si mangiano ancora oggi, che vengono chiamati allo stesso modo ma che hanno varianti consistenti. Volendo tracciare una linea, la cucina partenopea è più influenzata dalla tradizione francese, quella siciliana da quella mediorientale, come mostrano il cous cous trapanese, l’uso di mandorle, pistacchi, agrumi, zafferano e semi di sesamo, il gelato, la granita e la cassata, tutti dolci – pare – di provenienza araba.

La cassata, per esempio, è preparata sia nella cucina siciliana che in quella partenopea. Quella originale – nonché più celebre – è quella siciliana, che si è sempre mangiata anche a Napoli nelle pasticcerie storiche; di recente quella che ora si chiama cassata napoletana venne reinventata dal pasticcere Mario Scaturchio, figlio del fondatore dell’omonima pasticceria famosa per aver creato il Ministeriale, un dolce di cioccolato fondente ripieno.

La cassata siciliana si sviluppò da un dolce a base di formaggio portato dagli Arabi nel XI-XII secolo (il nome può derivare dall’arabo quas’at, che significa bacinella o dal latino caseum, formaggio). Era inizialmente a base di ricotta di pecora avvolta nella frolla e cotta al forno, poi nel tempo si arricchì della pasta di mandorle, inventata dalle monache del Convento della Martorana a Palermo, delle gocce di cioccolato, del pan di Spagna, delle decorazioni di frutta candita in epoca barocca e della glassa di zucchero nel Settecento. La versione napoletana è – stranamente – più leggera: con ricotta vaccina, pan di Spagna bagnato nel liquore o nel rum e una più sobria quantità di canditi. In Sicilia infine è considerata un dolce tipico di Pasqua, a Napoli di Natale.

 

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Anche le melanzane alla parmigiana – come si dice in Sicilia – o la parmigiana di melanzane – come si dice a Napoli – è un piatto rivendicato da siciliani e napoletani e cucinato in modo molto simile. La melanzana fu diffusa nel Quattrocento dagli Arabi, che la importarono dall’India, non venne mangiata in Europa per molto tempo e ancora nel Settecento in Italia era consumata principalmente in Campania, Calabria e Puglia. La prima parmigiana era probabilmente simile ad altre preparazioni mediorientali, come la moussaka greca e turca; il primo a citare un piatto che la ricorda fu, nel Settecento, Vicenzo Corrado, un cuoco pugliese a servizio delle famiglie nobili napoletane: a essere fritte nello strutto erano però le zucchine, poi cosparse di parmigiano e infornate. Nel 1839 Ippolito Cavalcanti inserì nel ricettario napoletano Cusina casarinola co la lengua napolitana, un piatto in cui le melanzane vengono fritte e disposte in teglia a strati con formaggio, basilico, brodo di carne, salsa di pomodoro e infine stufate.

Anche l’etimologia confonde: secondo alcuni parmigiana deriva da parmiciana, che in siciliano indica i listelli di legno della persiana e ricorderebbe la disposizione delle melanzane in teglia. Secondo altri deriva invece da petronciana, una parola usata per indicare la melanzana, come mostra l’uso del gastronomo Pellegrino Artusi nel famoso ricettario La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del 1891. Per finire potrebbe avere anche un collegamento con la città di Parma: come segnala la Cucina Italiana, nel XV e XVI secolo «cucinare alla maniera dei Parmigiani» indicava disporre i vegetali a strati, e un ramo della famiglia dei Borbone, che governava il Regno delle due Sicilie, governò anche il Ducato di Parma e Piacenza dal 1748 al 1860.

Al di là dell’origine del piatto non esiste una differenza sostanziale tra la ricetta napoletana e siciliana, anche perché nella sola Sicilia ci sono molte versioni. Entrambe prevedono melanzane fritte, salsa al pomodoro, parmigiano e basilico; a Napoli si usa solitamente la mozzarella fiordilatte o la provola affumicata mentre in Sicilia c’è a volte il caciocavallo; c’è chi ci aggiunge anche le uova sode e il prosciutto cotto (e chi trova blasfemo solo il pensiero). In Sicilia viene mangiata fredda.

Tra i rari casi in cui Napoli e la Sicilia (e anche la Calabria) sono unite contro il resto d’Italia c’è la brioche o brioscia: indica un dolce tondeggiante con una pallina in cima (tuppo o piripicchio) molto morbida e burrosa che si mangia a colazione e in Sicilia si inzuppa nella granita. È questo l’uso corretto della parola, che altrove viene spesso usata come sinonimo di cornetto, che deriva dal viennese kipfel e che si serve sia vuoto che farcito, e del francese croissant, che è privo di uova, ha più burro ed è sfogliato.

 

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Vedi anche: A tavola, al cinema