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  • Mercoledì 25 dicembre 2019

C’è un’area del mar Mediterraneo particolarmente in pericolo

La parte orientale è messa molto male, a causa dei cambiamenti climatici, degli sversamenti inquinanti, della guerra e del disinteresse generale

Rifiuti su una spiaggia del Libano, 22 gennaio 2018 (AP Photo/Hussein Malla)
Rifiuti su una spiaggia del Libano, 22 gennaio 2018 (AP Photo/Hussein Malla)

Le condizioni della maggior parte dei mari del mondo sono critiche, a causa dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento, ma la situazione della parte orientale del mar Mediterraneo è particolarmente rischiosa. Lo ha raccontato l’Atlantic, dicendo che per salvarla è necessario intervenire subito, e che potrebbe essere già troppo tardi. La parte del Mediterraneo in questione è quella su cui si affacciano Turchia, Siria, Libano, Israele, Egitto, parte della Grecia e parte della Libia.

Il mar Mediterraneo è «soffocato» dalla plastica: sebbene costituisca meno dell’uno per cento degli oceani del mondo, contiene il 7 per cento delle microplastiche presenti. Gli stati sulle sue coste continuano a sporcare il mare con tonnellate di sversamenti, l’ecosistema è contaminato, il livello dell’acqua si sta alzando, il traffico marittimo è in continuo aumento, così come l’invasione di specie aliene e l’acidificazione, con conseguenze sulla biodiversità ma anche sulle milioni di persone che dal Mediterraneo dipendono. Alcuni di questi problemi hanno a che fare con la topografia del mare: il Mediterraneo ha pochi sbocchi esterni, pochissimo ricambio d’acqua e una bassa diluizione delle tossine. Poiché alcune delle correnti più forti scorrono da ovest a est, l’area orientale è più colpita da questi problemi.

Ma i problemi più gravi non hanno a che fare con le correnti e la conformazione del mare, bensì con le attività degli esseri umani. Oltre il 20 per cento del Mediterraneo è stato dato in concessione per l’industria petrolifera, e la produzione di gas offshore verrà quintuplicata entro il 2030, soprattutto nell’area orientale. Petroliere e impianti di perforazione stanno mettendo a rischio gli habitat naturali: decine di tartarughe morte si sono già riversate lungo la costa israeliana (una possibile conseguenza delle esplosioni sottomarine) e in Grecia il traffico marittimo in forte espansione da e verso il canale di Suez e le esplorazioni stanno uccidendo o allontanando i capodogli sensibili al sonar e altri cetacei.

Negli ultimi dieci anni, poi, la rincorsa alle scoperte di idrocarburi e i conflitti in corso tra alcuni paesi che si affacciano su quella porzione di mare (Siria e Gaza, per esempio) hanno peggiorato la situazione. In guerra, e con gran parte dell’Europa concentrata sui flussi migratori, sembra che la questione ambientale non sia una priorità. A tutto questo vanno aggiunte le crisi finanziarie dei vari paesi, come quella della Grecia, che hanno reso la protezione marina ancora meno prioritaria. I vari stati hanno poi agito in solitudine e unicamente per i propri interessi, con conseguenze impreviste. Il Canale di Suez e il suo allargamento hanno facilitato il passaggio di specie invasive molto aggressive dal Mar Rosso, per esempio, molte delle quali hanno danneggiato i pesci nativi: ad oggi si contano 1.000 specie aliene nel Mediterraneo.

Il fatto che i mari non mostrino subito e in modo evidente le conseguenze di tutto questo, dice l’Atlantic, potrebbe essere parte del problema. Ma questa parvenza non durerà a lungo: a causa dei cambiamenti climatici e della rapida crescita della popolazione, il danno diventerà sempre maggiore e sempre più rapido: «Ogni anno, le tempeste diventano più violente e imprevedibili», ha detto Dimitris Achladotis, un pescatore greco. «Nulla di ciò che vedo è normale».

Tutti i paesi che hanno contribuito a sporcare le acque di questo mare dovranno lavorare insieme per risolvere la situazione, conclude l’Atlantic. Ma la maggior parte degli stati si sta impegnando molto poco per questa crisi: il Libano assegna al suo ministero dell’Ambiente un budget annuale di soli 9 milioni di dollari, per esempio. La maggior parte delle ONG e degli enti transnazionali, poi, hanno pochi finanziamenti o troppo poco potere per intervenire: «Possiamo fare molto rumore. Possiamo stare con il fiato sul collo delle autorità, ma se le persone non ascoltano c’è un limite a ciò che possiamo fare», ha detto Asaf Ariel, funzionario di EcoOcean, una ONG israeliana.

Gli interessi commerciali potrebbero allora diventare la migliore scommessa per il Mediterraneo: ma non quelli che hanno a che fare con petrolio e gas. Più di 200 milioni di turisti, infatti, arrivano sulle coste del Mediterraneo ogni anno. «Se, o molto probabilmente quando, il deterioramento delle condizioni inizierà a devastare i profitti delle imprese turistiche, le conseguenze saranno gravi. Le economie del Mediterraneo sono troppo fragili per sostenere un simile colpo da KO verso una delle loro industrie primarie».