Via col vento, spiegato bene

Uscì ottant'anni fa ed ebbe uno straordinario successo: nonostante molti problemi è ancora un pezzo enorme di storia del cinema, secondo qualcuno «il film più film di sempre»

di Gabriele Gargantini

Il Grand Theatre di Atlanta, il 15 dicembre 1939 (AP Photo/Atlanta Journal-Constitution)
Il Grand Theatre di Atlanta, il 15 dicembre 1939 (AP Photo/Atlanta Journal-Constitution)

Il 15 dicembre 1939, ottanta anni fa oggi, poco più di duemila persone presero posto tra le poltrone del Grand Theatre di Atlanta, in Georgia, e videro per la prima volta Via col vento, un film di cui si parlava da anni. In vista di quell’anteprima, il governatore della Georgia aveva addirittura proclamato tre giorni di festa nazionale e chiesto ai cittadini di accogliere nel miglior modo possibile le star del film, che attraversarono la città in una parata di quasi dieci chilometri, e che la sera prima avevano partecipato a una festa in costume con seimila invitati. L’attrice più osannata era Vivien Leigh, cioè Rossella O’Hara. L’attore più richiesto Clark Gable: un articolo di allora del Time parla di scene di giubilo per lui e racconta di una giovane ragazza che dopo aver ricevuto un veloce bacio da lui dice tra sé: «sono diventata una donna adesso?».

Atlanta, il 14 dicembre 1939 (AP Photo/Atlanta Journal-Constitution)

Fu davvero un grande evento. Via col vento era uno dei film più costosi di sempre ed era una colossale impresa cinematografica, perché nelle sue quasi quattro ore di durata raccontava – praticamente senza alcuna omissione o modifica – un popolarissimo romanzo omonimo di oltre mille pagine, scritto nel 1936 da Margaret Mitchell.

Molti, tra quei duemila spettatori del Grand Theatre di Atlanta, la trama del film la sapevano già. È ambientato in Georgia, uno stato del Sud, ai tempi della Guerra di secessione americana e racconta la storia di Rossella O’Hara, figlia di una ricca famiglia e innamorata tra varie sfortune di Ashley, che però sposa sua cugina Melania; O’Hara si sposa allora con altri due uomini, con il fratello di Melania, prima, per fare ingelosire la cugina e con il ricco proprietario di una segheria, dopo, per ragioni economiche. Entrambi i suoi mariti muoiono e allora lei sposa Rhett Butler, cioé Clark Gable, conosciuto anni prima. Solo che continua a pensare a quel dannato Ashley, rimasto intanto vedovo, al punto che Rhett decide di lasciarla. E a quel punto lei capisce che in realtà ama, l’aveva sempre amato, proprio Rhett, non Ashley: e glielo confessa. Solo che lui, francamente, se ne infischia e quindi se ne va via e la lascia lì, a dirsi che «dopotutto, domani è un altro giorno». Un altro modo per dirla è che, come scrive Vulture, Via col vento «racconta la storia di come una donna determinata prende il controllo della sua vita nonostante lo sgretolarsi del mondo intorno a lei».

Moltissimi, tra quei duemila spettatori del Grand Theatre di Atlanta, apprezzarono tantissimo il film, che in seguito avrebbe vinto dieci Oscar e incassato più di ogni altro film della storia. È molto probabile, invece, che pochissimi ne rimasero turbati. Eppure, a vederlo oggi, è palesemente un film razzista (Malcom X andò a vederlo da ragazzo e raccontò in seguito di esserci rimasto molto male) e c’è una scena in cui un marito compie quella che oggi chiamiamo violenza maritale nei confronti della moglie: ubriaco, la obbliga a fare sesso con lui, nonostante lei non voglia. Succede spesso, con film vecchi di decenni, che ci siano cose che rivelano la loro inattualità e, diciamo, arretratezza. Ma è una questione di cui si finisce spesso per parlare, quando si tratta di Via col vento. Perché, tra tanti film che avrebbero potuto, Via col vento è forse quello che più è arrivato a rappresentare l’apice di un certo modo di fare, e guardare, i film.

Via col vento è stato – e per certi versi ancora continua a essere – il film più film di tutti. Nonostante molti non l’abbiano nemmeno visto. E anche nonostante il fatto che contenga un momento in cui un bianco parla di una donna definendola «negra scema», personaggi neri che parlano con i verbi all’infinito, momenti e dialoghi oltremodo melodrammatici e personaggi che si arrabbiano dicendo «perdindirindina» e che si dicono cose come «Dite che mi amate. Vivrò di quest’istante tutta la vita».

Via col vento fu qualcosa di molto grande ancor prima di venire impresso su pellicola, per essere più precisi su circa 6,8 chilometri di pellicola girata. Per il grande successo del libro e per le tante e tribolate vicende sulla sua realizzazione. Molte delle quali girano intorno al nome di David Selznick, produttore (ma non solo) del film. Quando uscì Via col vento, il libro, Selznick aveva poco più di trent’anni ma era già un importante e stimato produttore. Si interessò al libro – che avrebbe in seguito definito una «Bibbia americana»– e, con non poca fatica, ottenne i diritti per farne un film.

Selznick investì moltissimi soldi e cercò sempre di mantenere il massimo controllo su ogni aspetto della produzione, cercando di finanziare di tasca sua la maggior parte del film, così da averne il totale controllo, e interessandosi in prima persona della scelta degli attori, della scrittura e della regia. Si impuntò sul fatto che volesse Clark Gable – che al tempo era sotto contratto con la MGM, una grande casa di produzione e molto difficilmente poteva fare film per altri – e ritardò le riprese per aspettarlo. Tra l’altro preferendolo a Gary Cooper, che secondo diversi resoconti disse: «Son felice che a rovinarsi con questo film sarà la faccia di Clark Gable e non quella di Gary Cooper». Per scegliere la protagonista femminile – Rossella (in inglese Scarlett) O’Hara – Selznick organizzò una serie di provini, a cui parteciparono più di mille attrici. Alla fine fu scelta l’attrice britannica Vivien Leigh, in un ruolo che quasi di certo avrebbe voluto ogni altra attrice di quegli anni.

Gable, Leigh e Selznick (AP Photo)

La storia di come Via col vento divenne un film fatto e finito è davvero lunga e a sua volta piena di storie, non tutte verificabili. Ma è certo che Selznick fece passare il film da diverse riscritture della sceneggiatura – la prima versione avrebbe previsto un film di almeno 6 ore – e da diversi sceneggiatori: ci mise le mani pure Francis Scott Fitzgerald, per una settimana o poco più, con il divieto di usare anche solo una parola che non fosse anche nel libro di Mitchell. Dopo che furono realizzati più di 90 diversi set, iniziarono gli oltre 100 giorni di riprese, che tra le altre cose usarono più di 2.500 comparse (e in alcune scene anche dei manichini). Cambiarono anche i registi: il film lo iniziò George Cukor ma dopo pochi il suo posto venne preso da Victor Fleming, che ne figura come unico regista e che si occupò delle riprese di Via col vento mentre ancora doveva chiudere il montaggio del Mago di Oz. Ci furono almeno altri due registi provvisori, ma si può soprassedere sul loro ruolo.

Gable e Leigh (Hulton Archive/Getty Images)

Pare che Cukor lasciò per via delle eccessive insistenze di Selznick, ma ci sono anche versioni che parlano di una profonda antipatia di Gable nei suoi confronti. Ci sono anche racconti secondo cui le attrici principali del film continuarono comunque a vedersi di nascosto con Cukor, per farsi dare alcune dritte su come recitare. Anche Fleming, comunque, ebbe grandi problemi nel dover avere a che fare con Selznick.

Ashley e Rhett (AP photo)

Nonostante tutto, comunque, il film fu finito. Con tante scene di dialoghi e di interni – tra l’altro c’è solo una scena in cui i quattro personaggi principali recitano tutti insieme – ma anche con grandi scene di guerra e con dei notevoli momenti che mostrano l’incendio della città di Atlanta.

La lunga attesa, i pettegolezzi su chi ci lavorò, i provini per il ruolo di Rossella e i dati sul suo imponente budget furono tutte cose che concorsero a renderlo ancora più un evento. Un film di cui, poco prima dell’anteprima, Selznick disse: «A mezzogiorno penso che sia sublime, a mezzanotte penso che sia uno schifo. A volte penso che sia il più grande film di sempre. In realtà, se anche solo si rivelasse essere un grande film, ne sarei soddisfatto».

All’anteprima mancava Fleming, secondo certe versioni irritato perché Selznick si era preso gran parte dei meriti sul film, e mancavano tutti i personaggi neri, per via delle leggi allora ancora in vigore in Georgia. Pare, tra l’altro, che per solidarietà nei loro confronti Gable minacciò di non partecipare alla prima, ma alla fine partecipò. Dopo il grande evento, arrivarono le prime recensioni. Qualcuna criticava il film per la sua lunghezza, quasi tutte lo elogiarono per la sua grandezza. Quasi nessuno ne parlò come del migliore film di sempre, ma quasi tutti notarono che era il più avanzato esempio di quel che un film poteva essere. Il critico di The Nation scrisse: «Via col vento è un notevole evento per la storia dell’industria cinematografica, ma solo un piccolo risultato per l’arte cinematografica». Il New York Times ne parlò come del film «più ambizioso di sempre».

Ma, ora come allora, non sono le recensioni a fare il successo di un film. Vinse dieci Oscar, compresi un premio speciale e uno alla memoria, e soprattutto quelli per la miglior regia, attrice protagonista, attrice non protagonista (andò a Hattie McDaniel, la prima donna nera della storia a vincere un Oscar), sceneggiatura, fotografia, scenografia e montaggio. Per mesi riempì i cinema, prima degli Stati Uniti e poi del resto del mondo, in cui intanto iniziava la Seconda guerra mondiale: lo vide anche Adolf Hitler. Solo negli Stati Uniti negli anni Quaranta furono organizzate due volte delle nuove uscite del film, perché se ne continuava a parlare e perché fruttava ancora molti soldi. È stato calcolato che passati quattro anni dalla sua uscita Via col vento aveva venduto 60 milioni di biglietti, pari a circa la metà degli abitanti che gli Stati Uniti avevano allora. Ha incassato, in tutto e nel mondo, circa 400 milioni di dollari. Secondo la maggior parte dei calcoli, se si fanno i necessari aggiustamenti relativi all’inflazione, è ancora oggi il film ad aver incassato di più nella storia.

È relativamente facile spiegare perché Via col vento ebbe così successo al suo tempo. Partiva da un libro di successo, aveva un budget altissimo, fu preceduto da una grande attesa e da una serie di storie tra il gossip e la mitologia del cinema e, una volta uscito, si rivelò sotto molti punti di vista al livello delle aspettative. Era anche girato in Technicolor, cioé a colori. Come spiega John Wiley Jr., autore di un libro sulla produzione e le riprese di Via col vento, tutte queste cose fecero sì che divenne «il film in cui Hollywood fece Hollywood più che mai».

È più complicato dire perché Via col vento abbia resistito – nell’immaginario, ma non solo – per tutti questi anni. Nel 1973 Atlantic dedicò una serie di articoli al film – compreso uno, diviso in tre parti, su tutte le storie sul suo making of – e l’importante critico e insegnante di cinema Andrew Sarris ne parlò come del «film più film di sempre», e aggiunse: «È molto, molto più facile analizzare le sterili profondità di Persona o della Corazzata Potemkin, che non le contagiose banalità di Via col vento». Sempre per Atlantic, ma in un altro articolo, la critica Judith Crist lo definì «senza dubbio, e ancora oggi, il migliore e più durevole pezzo di intrattenimento popolare uscito dalla catena di montaggio di Hollywood». Lo storico e saggista Arthur Schlesinger, Jr. scrisse invece che Via col vento era invecchiato male e, pur tralasciando i tanti problemi ideologici, era un film che «voleva essere opera ma era in verità soap opera».

Più passano gli anni e più Via col vento diventa inattuale per i modi in cui è girato e recitato e problematico per quello che mostra e per come lo fa. Ogni tanto esce la notizia di qualche cinema che sceglie di non mostrarlo più e un paio di anni fa Slate raccontò in un articolo come catene di distribuzione, cinema e canali televisivi si regolavano nel trasmetterlo. Qualcuno suggerisce di trattare il film come «una reliquia in un museo», ma in genere si sceglie di continuare a trasmetterlo. Da diversi mesi, per esempio, è su Netflix, in tutti i suoi 233 minuti di lunghezza. Nei primi cinque circa ci sono i titoli di testa, con la ancora oggi famosissima canzone di Max Steiner. Poi arriva un testo a scorrimento dal basso verso l’alto, che dice:

C’era una terra di cavalieri e campi di cotone chiamata il Vecchio Sud…
Qui, in questo bel mondo, la galanteria fece il suo ultimo inchino…
Qui per l’ultima volta furono visti i cavalieri e le loro dame, il padrone e lo schiavo. Cercatelo soltanto nei libri, perché non è altro che il ricordo di un sogno, una civiltà andata via col vento…

Dopo una oggettivamente lunghissima serie di eventi si arriva al dialogo finale tra Rhett Butler e Rossella O’Hara. Lei gli dice: «Se te ne vai che sarà di me? Che farò?». Lui risponde: «Francamente, me ne infischio».

È una delle frasi più celebri del cinema, forse la più famosa in assoluto, che nella versione originale è «Frankly, my dear, I don’t give a damn» e che nel libro era solo «My dear, I don’t give a damn».