A cosa è servito andare sulla Luna

Probabilmente dovremmo porci la questione opposta: cosa avremmo perso, se non ci fossimo mai andati?

di Luca Capponi

Neil Armstrong sul suolo lunare durante la missione Apollo 11 (NASA)
Neil Armstrong sul suolo lunare durante la missione Apollo 11 (NASA)

I due grandi insiemi di ragioni che spiegano la scelta di portare degli uomini sulla Luna, a partire dalla prima spedizione di questo genere nel 1969, sono quello geopolitico, relativo alla competizione degli Stati Uniti con l’Unione Sovietica, e quello scientifico, relativo alle informazioni e alle ricerche sulla conformazione e le condizioni dello spazio lunare. Per entrambi si può dire che uno sia stato funzionale al raggiungimento dell’altro.

Non ci sono dubbi che la rivalità con l’URSS abbia, se non motivato, di certo accelerato il processo di esplorazione dello Spazio deciso dal governo statunitense. Si è soliti far coincidere l’inizio di questo processo con il discorso che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Congresso il 25 maggio 1961, pochi mesi dopo essere stato eletto presidente, in cui annunciò l’obiettivo di far arrivare un uomo sulla Luna «prima che finisca questo decennio». Le sue motivazioni erano soprattutto politiche. Solo poche settimane prima, infatti, due eventi avevano intaccato il prestigio statunitense: la fallimentare invasione della Baia dei Porci, con cui gli Stati Uniti avevano tentato di rovesciare il regime cubano di Fidel Castro, e la missione del cosmonauta sovietico Yuri Gagarin, che il 12 aprile 1961 era diventato il primo uomo a volare nello Spazio. La proposta di Kennedy ricevette un forte sostegno dell’opinione pubblica, spaventata dall’idea che le innovazioni sovietiche potessero essere impiegate per un conflitto sulla Terra.

I fondi disponibili per la NASA passarono da 500 milioni di dollari nel 1960 a 5,2 miliardi nel 1965. In totale, alla fine del 1969, a obiettivo raggiunto, le risorse spese raggiunsero i 25 miliardi di dollari. L’impiego di somme così straordinarie fu ovviamente motivo di polemiche. In molti iniziarono a chiedersi: perché spendere così tanto per andare sulla Luna, con tutti i problemi che ci sono sulla Terra? A una domanda simile fu chiamato a rispondere, nel 1970, Ernst Stuhlinger, che all’epoca era il direttore generale della NASA, da una lettera inviatagli da Mary Jacunda, una suora attiva in Zambia, che gli chiedeva perché, mentre milioni di persone soffrivano la fame, Stuhlinger avesse proposto nuovi investimenti per una missione che potesse portare l’uomo anche su Marte.

Stuhlinger rispose raccontando la storia di un vecchio conte tedesco, vissuto circa 400 anni prima, che era solito dare parte dei suoi guadagni ai suoi concittadini più poveri, spesso fiaccati dalla fame o dalle frequenti epidemie. Un giorno, però, fu affascinato dal lavoro di un artigiano che produceva lenti in vetro con cui riusciva a ingrandire oggetti piccolissimi e decise di aiutarlo economicamente, scatenando l’ira della popolazione che soffriva per la peste e rivendicava quindi maggior necessità a ricevere del denaro. Eppure, anche grazie al lavoro di quello sconosciuto, spiegò Stuhlinger, si poté arrivare all’invenzione del microscopio, uno strumento grazie al cui uso fu poi possibile sconfiggere molte malattie, compresa la peste stessa.

«Dedicando parte del proprio denaro alla ricerca e alla scoperta di nuove cose, il conte contribuì molto di più a dare sollievo dalla sofferenza umana rispetto a ciò che avrebbe potuto fare dando tutti i propri soldi ai malati di peste», scrisse Stuhlinger nella sua lettera.

Come l’invenzione del microscopio ha potuto aiutare a debellare molte malattie, così le missioni spaziali potranno contribuire a ridurre i problemi della povertà e della fame nel mondo, proseguiva Stuhlinger. Per esempio, grazie allo studio della Terra compiuto dai satelliti artificiali che, orbitando intorno al pianeta, ci permettono di monitorare le condizioni dei campi o delle precipitazioni e di conseguenza di costruire sistemi di coltivazione più efficienti. Uno degli effetti dello studio della Luna, di fatto, è stato proprio quello di farci conoscere meglio la Terra. Se oggi abbiamo un’idea apprezzabile di come fosse fatta la Terra prima che nascesse la vita, è anche grazie al fatto che degli uomini hanno potuto osservare da vicino la composizione della Luna, che del nostro pianeta è una sorta di parente stretto (le rocce riportate a casa dalle missioni Apollo hanno mostrato che la Luna è costituita perlopiù dagli stessi materiali della Terra).

Ma della portata scientifica dell’allunaggio di cinquant’anni fa potremmo aver conosciuto ancora solo una piccola parte. Harrison Schmitt, l’ultimo uomo ad andare sulla Luna, ha raccontato in un’intervista a Forbes un episodio su Neil Armstrong. Oltre alle rocce, Armstrong volle riportare indietro un po’ della particolare terra che avvolge la crosta lunare. Secondo quanto sostiene Schmitt, quella terra potrebbe essere utilizzata non solo per fornire combustibili fossili in vista di future missioni nello Spazio, ma anche per alimentare la fusione nucleare, il fenomeno di produzione dell’energia che ad oggi avviene solo nelle stelle e che – al contrario dell’energia che produciamo sulla Terra nelle nostre centrali nucleari – non rilascia scorie radioattive. Dalla lavorazione della terra lunare potrebbe infatti ricavarsi un isotopo leggero dell’elio, che costituisce un ideale (e rarissimo) reagente per le reazioni di fusione nucleare. «Un giorno questo reagente potrebbe essere riportato sulla Terra per fornire energia pulita senza prodotti di scarto», conclude Schmitt.

Per capire meglio la portata dell’allunaggio di cinquant’anni fa, potremmo forse porci la domanda al contrario: cosa avremmo perso se non fossimo mai andati sulla Luna? Dal punto di vista politico, forse il corso della Guerra fredda non sarebbe stato lo stesso. Anche se la Storia non si fa con i se, il potere della dittatura comunista sovietica sarebbe potuto durare più a lungo senza quella sconfitta nell’esplorazione spaziale. Dal punto di vista tecnologico non avremmo assistito agli importanti sviluppi nel campo della meteorologia, delle telecomunicazioni, dell’ingegneria civile. E soprattutto della medicina: basti pensare alle tecniche di elaborazione di immagine impiegate nelle diagnosi o alle coperte termiche usate per i bambini appena nati, create con la stessa tecnologia delle tute spaziali degli astronauti. Un’altra cosa di cui non conosciamo l’origine sono le decine di invenzioni pensate per lo Spazio e create dai ricercatori della NASA che hanno finito per essere utilizzate da tutti noi nel nostro quotidiano. Senza i satelliti messi in orbita dalla NASA non potremmo compiere le telefonate da un continente all’altro, navigare su internet o segnalare dove ci troviamo utilizzando la tecnologia GPS.

Più di ogni altra cosa, però, la portata principale dei viaggi sulla Luna resterà per sempre quella simbolica. Cinquant’anni fa, quella Luna che – dall’inizio della storia umana – era stata ammirata, temuta, cantata veniva infine raggiunta e calpestata da un essere umano. Alla fine del secolo scorso, nel 1999, lo storico Arthur Schlesinger Jr. fu scelto tra le persone che dovevano stabilire quale fosse il risultato più significativo raggiunto dall’uomo nel corso del 20esimo secolo. Schlesinger non aveva dubbi che, per importanza, scoperte come il DNA, la penicillina e i microchip dovessero finire tra i primi 10 «perché hanno trasformato la nostra civiltà». «Ma fra 500 anni», proseguiva Schlesinger, «se gli Stati Uniti esisteranno ancora, la maggior parte della loro storia sarà ormai invisibile. Pearl Harbor sembrerà lontana come la Guerra delle due rose. L’unica cosa per cui questo secolo verrà ricordato fra 500 anni sarà: “Quello fu il secolo in cui iniziammo ad esplorare lo Spazio”». E così scelse l’allunaggio dell’Apollo 11 come il più importante evento del 20esimo secolo.

Questo e gli altri articoli della sezione Come andammo sulla Luna sono un progetto del workshop di giornalismo 2019 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.

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