Le migliori nove canzoni dei Simple Minds

Da riascoltare oggi, che Jim Kerr compie 60 anni

Jim Kerr durante un concerto dei Simple Minds a Miami Beach, in Florida, nel 2018
(mpi04/MediaPunch /IPX)
Jim Kerr durante un concerto dei Simple Minds a Miami Beach, in Florida, nel 2018 (mpi04/MediaPunch /IPX)

Jim Kerr, cantante scozzese, fondatore e frontman dei Simple Minds, compie oggi 60 anni: una buona scusa per riascoltare le migliori nove canzoni della band, secondo il sindacabile (dice lui) giudizio del peraltro direttore del Post Luca Sofri, che le aveva selezionate per il suo libro Playlist, La musica è cambiata.

Simple Minds (1978, Glasgow, Scozia)
Prima che Jim Kerr divenisse noto solo per il suo matrimonio con Chrissie Hynde dei Pretenders, e poi nemmeno per quello, i Simple Minds – scozzesi – erano stati i più bravi a tenere un piede nella staffa del rock nordbritannico e uno in quello della new wave anni Ottanta. Più elettronici degli U2, più eclettici dei Waterboys, più solidi dei Big Country. Poi gli finirono le idee, ma fecero finta di non accorgersene. Fanno ancora dei dischi inutili, ma almeno non vanno all’Isola dei famosi.

Someone somewhere in summertime

(New gold dream, 1982)
Il disco del botto fu New gold dream, dopo qualche anno di cosette apprezzate dalla critica ma un po’ ostiche per le classifiche. Cominciava così, elettronica e grande riff di chitarra. E non era una canzone qualsiasi: non un vero ritornello, piuttosto uno slogan (con un sacco di esse), e quella parte ipnotica dove dice “somewhere there is something…”.

New gold dream (81/82/83/84)
(New gold dream, 1982)
Le canzoni che danno il titolo al disco hanno sempre un vantaggio pregiudiziale di nobiltà, e questa è principesca. Il tormentone delle tastiere elettroniche, la voce tenebrosa – a momenti roba da Bauhaus – e lo scioglilingua “eightyone-eightytwo-eightythree-eightyfour!”.

Glittering prize

(New gold dream, 1982)
Momento autobiografico: si faceva ginnastica a classi accoppiate, al liceo. Negli spogliatoi, uno della quinta B che conoscevo appena stava restituendo un 45 giri a un suo compagno che glielo aveva prestato. Io allora ascoltavo ancora i Pink Floyd e Neil Young. Gli chiesi se potevo sentirlo e me lo portai a casa. Era “Glittering prize” dei Simple Minds. A questo penso sempre quando la letteratura racconta di educazioni sentimentali cominciate con incontri erotici negli spogliatoi.

Speed your love to me
(Sparkle in the rain, 1984)
Non contenti del successo, i Simple Minds volevano sganciarsi dal gruppone della new wave e del pop britannico che stava raggiungendo i fuggitivi e invadendo il mondo: noi siamo roba rock, come gli U2! Si presero Steve Lillywhite, produttore degli U2, e fecero in effetti un disco assai rock, meno elettronico. Questo è un pezzone grandioso, da suonarlo in mezzo alle montagne: non una cosa che si canticchia, così, sotto la doccia.

Waterfront

(Sparkle in the rain, 1984)
Ba-bàm ba-bàm ba-bàm ba-bàm… Jim Kerr che vaga per il porto di Glasgow e le sue strutture industriali, e Mel Gaynor che – slàm! – anticipa i suoni meccanici con cui si divertiranno di lì a poco i Depeche Mode.

Don’t you

(The Breakfast club, 1985)
Il più grande successo della storia dei Simple Minds, e il pezzo che li rese finalmente popolari in America, non era un loro pezzo. Quel che è peggio, il tipo che l’aveva scritto era l’autore della canzone di Flashdance, Keith Forsey (assieme a Steve Schiff). Forsey, prima di passarla gentilmente agli scozzesi, l’aveva proposta invano a Bryan Ferry e a Billy Idol. Anche i Simple Minds non erano convintissimi, ma alla fine l’avevano registrata e consegnata alla colonna sonora di un film che si sarebbe chiamato The Breakfast club, dimenticandosene o quasi. Si diede poi il caso che il film (piuttosto leggerino, ma divertente) divenisse un manifesto dei teenagers americani e non solo, e la canzone arrivasse in cima a tutte le classifiche del mondo prima che la band si accorgesse di cosa fosse successo. Tanto che non la misero nemmeno nel loro disco in uscita.

Alive and kicking

(Once upon a time, 1985)
Buon tentativo di rifare “Don’t you”, con tanto di nana-nanana. Era il 1985 e loro avevano le camicie col colletto sollevato, le giacche con le frange, gli spolverini, gli stivali, e Jim Kerr una chioma da bimbo scemo.

This is your land

(Street fighting years, 1989)
Frequentarono Peter Gabriel e altri artisti “impegnati”, che gli fecero ‘na capa tanta con il Sudafrica, Mandela, e le aspirazioni di libertà
dei popoli. E così vollero fare un 
disco con una debole cover di “Biko”, una loro “Mandela day”,
una ripresa di una canzone folk irlandese (“Belfast child”) e “This is 
your land”, con Lou Reed ospite.

Let there be love

(Real life, 1991)
Questa volta precedettero le successive svolte pop degli U2, che stavano invece pubblicando Achtung baby. Ma ebbero ragione gli U2: erano tempi rock e grunge, e i Simple Minds cominciarono a perdere contatto. Nei concerti italiani “Let there be love” si mixava benissimo con l’“alè-oò” del pubblico.