Perché la Sea Watch 3 non è andata da un’altra parte?

Perché non in Francia, Spagna o Grecia? E perché non in Tunisia, come chiedono oggi in molti? Ci sono buone ragioni perché no

La nave Sea Watch 3 ormeggiata al porto di Catania. (ANSA/ MIMMO TROVATO)
La nave Sea Watch 3 ormeggiata al porto di Catania. (ANSA/ MIMMO TROVATO)

Una delle critiche che si sentono più spesso nei confronti delle ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo è: “perché li portano proprio in Italia?”. In fin dei conti, l’Italia non è l’unico paese che si affaccia sul Mediterraneo e – anche a voler solo guardare gli altri paesi europei – ce ne sarebbero almeno altri quattro dove le navi potrebbero andare: Francia, Spagna, Grecia e Malta. A questi, nelle discussioni degli ultimi giorni si è aggiunta anche la Tunisia – citata spesso dal ministro dell’Interno Matteo Salvini – e addirittura, nel caso della Sea Watch 3, anche la Libia: il paese dove l’Italia aveva chiesto di portare i migranti, nonostante sia nel mezzo di una guerra civile e sottoponga regolarmente i migranti a detenzioni arbitrarie, violenze, stupri e torture.

La questione torna ciclicamente e Salvini ha spesso insistito su questo punto, sostenendo – in sintesi – che gli altri paesi non si fanno carico dei migranti perché sono “furbi” mentre le ong li portano in Italia perché il nostro paese si è sempre dimostrato “fesso”. Le cose non stanno così.

In primo luogo, non è vero che gli altri paesi europei non si facciano carico dei migranti – l’Italia, per dirne una, non è il paese che ne accoglie di più – ma anche volendo restringere il campo ai migranti che arrivano in Europa via mare ci sono concrete ragioni perché lo facciano sbarcando in Italia. Le principali sono legate alla geografia del mar Mediterraneo e alla regola del “porto sicuro”.

Porto sicuro
Le ong che operano in mare devono rispettare la cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979 e le altre norme sul soccorso marittimo, che prevedono che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica a dove è avvenuto il salvataggio sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.

Quella del “porto sicuro” – o POS, place of safety – è una cosa di cui si è molto parlato nel caso recente della Sea Watch 3. Dopo aver comunicato alle autorità marittime italiane di aver salvato i migranti in mare, il 12 giugno, alla Sea Watch 3 era infatti stato detto di riportarli in Libia, da dove erano partiti. E le autorità libiche avevano accettato di far sbarcare la Sea Watch 3, che però si era rifiutata di farlo. Le motivazioni sono legate proprio al concetto di “porto sicuro” e alle condizioni della Libia, un paese da anni diviso da una guerra civile, senza stabilità politica e militare, controllato da milizie in lotta tra loro e che rendono in effetti molto complicato parlare di “autorità libiche”. Il governo italiano ha detto che considera comunque il paese un “porto sicuro”, ma la comunità internazionale e l’Unione Europea hanno chiaramente sostenuto che non lo sia.

In alternativa alla Libia, ha detto spesso Salvini in questi giorni, la Sea Watch 3 avrebbe allora potuto fare rotta verso la Tunisia: un paese più stabile e abbastanza vicino al punto dove erano stati salvati i migranti. La Tunisia è un paese relativamente sicuro ma non è attrezzato per garantire i bisogni dei migranti, e a giudizio degli operatori delle ong non ha una legislazione completa sulla protezione internazionale: una cosa essenziale perché possano essere rispettati i diritti umani dei migranti e perché un posto possa essere considerato un “porto sicuro”. Nelle ultime settimane, per esempio, una nave con 75 migranti a bordo era stata costretta a rimanere in mare per giorni – in condizioni molto peggiori di quelle della Sea Watch 3 – perché la Tunisia si rifiutava di farli sbarcare. Quando è infine successo, ha scritto il Guardian, i migranti sono stati trasferiti in centri di detenzione e minacciati affinché accettassero di lasciare subito il paese e non presentare domanda di asilo internazionale.

Geografia
L’altra ragione per l’arrivo in Italia dei migranti è geografica: l’Italia è il paese più vicino alle coste nordafricane, e quindi il più facile da raggiungere via mare. Lampedusa, per esempio, è molto più vicina all’Africa che alle coste siciliane; più in generale la Sicilia e la Calabria sono tra i posti più facili dove arrivare partendo dalla Libia o dalla Tunisia. In Italia, infatti, continuano ancora oggi ad arrivare migliaia di persone che attraversano il Mediterraneo con piccole imbarcazioni gestite da organizzazioni criminali. Lo stesso discorso vale anche per le navi delle ong, che dopo aver salvato i migranti in mare devono decidere dove portarli, per minimizzare i rischi sulla loro salute (molte delle persone che arrivano in Europa hanno alle spalle situazioni molto complicate e spesso hanno passato periodi nei terribili centri di detenzione libici).

I salvataggi nel Mediterraneo avvengono per la maggior parte a largo della Libia, e da lì un viaggio verso la Spagna, la Francia o anche la Grecia risulterebbe più lungo e difficoltoso rispetto a un viaggio verso l’Italia (bisogna tenere presente che i viaggi in mare sono pesantemente condizionati dalle condizioni meteo, e che renderli più brevi vuol dire spesso renderli più sicuri). Nell’estate del 2018, poco dopo la nomina di Salvini a ministro dell’Interno, si parlò molto del caso della nave Aquarius: aveva recuperato più di 600 persone in mare e l’Italia si rifiutò di farle sbarcare, costringendola a navigare fino a Valencia, in Spagna. In quel caso, però, la Aquarius dovette essere accompagnata fino alla sua destinazione da due navi militari italiane, perché da sola non era in grado di gestire un viaggio così lungo e con così tante persone a bordo.

Proprio durante i giorni della crisi dell’Aquarius, in molti si chiesero come mai la nave non fosse andata verso Malta, invece che verso la Sicilia. In qual caso, infatti, Malta era tecnicamente il posto più vicino al luogo in cui erano stati soccorsi i migranti e quindi, secondo qualcuno, quello che avrebbe dovuto farsi carico di loro. Malta – un paese che ha una superficie che è un quarto di quella di Roma – ha però diversi problemi. In primo luogo è scarsamente attrezzata per occuparsi di uno sbarco di centinaia di migranti e soprattutto delle loro richieste di protezione internazionale; in secondo luogo è già oggi un paese che in proporzione alla popolazione ospita molti più migranti di quanti ne accolga l’Italia.

Infine, quando si parla di accoglienza di migranti bisogna sempre tenere presente che uno dei suoi grossi problemi è il cosiddetto “Regolamento di Dublino”. È l’accordo europeo che privilegia il cosiddetto criterio del “primo ingresso”, secondo cui ospitare e valutare ciascuna richiesta di protezione internazionale spetta al paese in cui è avvenuto l’ingresso di quella persona nell’Unione Europea. Ed è il motivo che oggi trattiene decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia, e che è fra i principali responsabili della crisi degli ultimi anni. Nel 2018, quando dopo molte trattative si riuscì a trovare un compromesso per modificare il regolamento, l’Italia – già governata da Lega e M5S – fu tra i paesi ad opporsi alla riforma: Salvini parlò di una “vittoria”, perché riteneva la riforma troppo debole, ma il fallimento di quel tentativo ha di fatto impedito qualunque miglioramento per l’Italia.