Quindi cosa è successo a Ferrara

Siamo andati a capire perché ha vinto la Lega dopo 70 anni di governo di centrosinistra: c'entrano la sicurezza e la storia di Carife, ma soprattutto la scelta dei candidati

il grattacielo del GAD, Ferrara (Il Post)
il grattacielo del GAD, Ferrara (Il Post)

Ci sono almeno tre cose che devono essere raccontate un po’ diversamente, nel cercare di spiegare il risultato delle recenti elezioni amministrative a Ferrara, la città che negli ultimi settant’anni non era mai stata governata da un sindaco che non fosse del Partito Comunista, dei Democratici di Sinistra o del Partito Democratico, e dove nel 2019 ha vinto la Lega, a cui appartiene il nuovo sindaco Alan Fabbri: la prima è che Ferrara-la-rossa è, in realtà, Ferrara-la-bianco-rossa. La seconda è che la vittoria di Fabbri al ballottaggio con quasi il 57 per cento dei voti non è stata affatto una sorpresa, in città. La terza è che, in contraddizione solo apparente con la seconda, secondo molti a sinistra quel che è accaduto poteva essere evitato. Pensandoci prima.

Almeno tre persone con cui parliamo ci raccontano questo episodio. Nell’agosto del 2017 Dario Franceschini, ferrarese, cattolico, esponente molto influente della corrente centrista del PD di cui fu brevemente anche segretario, e allora ministro nel governo Renzi, va allo stadio Paolo Mazza per festeggiare il ritorno in Serie A della Spal, l’amata squadra di calcio della città. E viene fischiato dai tifosi.
Poco meno di un anno dopo, fra il 4 e il 5 marzo 2018, Franceschini «non riesce a vincere il seggio parlamentare a cui pareva predestinato e lo lascia alla candidata leghista di cui nessuno in città ricorda il nome» (e che a suo tempo non era riuscita nemmeno a entrare nel consiglio comunale di Comacchio). Sergio Gessi, docente di Etica della comunicazione e dell’informazione all’Università di Ferrara, giornalista e direttore del quotidiano online Ferraraitalia, parte da qui per dire che i segnali di quel che sarebbe accaduto da lì a poco erano già molto evidenti. A questi, nei quindici mesi successivi e fino al giorno delle amministrative, si sarebbero poi aggiunti errori da una parte, e qualche merito dall’altra.

Il primo errore
Quando si esce dalla stazione di Ferrara, ci si trova già al centro di quello che nelle cronache dei giornali e nei discorsi delle persone, da differenti punti di vista, è il problema della città: il GAD, dove la G sta per Giardino. Il GAD era nato da un accorpamento di tre diversi quartieri, e quando esistevano le circoscrizioni era la più estesa della città, arrivando quasi fino al centro. Ma ora, quando si parla di GAD, si fa riferimento esclusivamente alla zona che va poco oltre la stazione e al grattacielo che si vede alla sua sinistra, in mezzo a un parco. Negli anni Sessanta era il simbolo della modernità e attirò buona parte della borghesia ferrarese. Poi, a causa della vicinanza con la stazione, della mancata manutenzione e della scarsa cura e sviluppo del quartiere, gli affitti cominciarono ad abbassarsi, i vecchi proprietari a trasferirsi, ad affittare, spesso non in regola, e poi a subaffittare.

Che sia una zona problematica non lo nega nessuno, né a destra né a sinistra, ma c’è chi fa una sostanziale distinzione tra ciò che quella zona realmente è, e come invece viene raccontata e strumentalizzata. «È un po’ come la questione del caldo percepito e del caldo reale», dice Sergio Fortini, architetto, docente e scrittore. «È vero che molte saracinesche si sono abbassate, che ci sono molti migranti, che c’è un problema di spaccio, di bande e che molti dei residenti rimasti a vivere lì sono anziani. Ma gli episodi che sono successi al GAD sono stati sui giornali nazionali per tre giorni di seguito come se a Ferrara ci fosse stata la guerra civile». Non c’è stata alcuna guerra civile, naturalmente, e a Ferrara gli indici di criminalità sono comunque tra i più bassi dell’Emilia-Romagna, «ma è vero che quella situazione reale di disagio ed emarginazione è stata percepita molto male e in modo quasi tragico».

Al precedente sindaco, Tiziano Tagliani del PD, eletto per la prima volta nel 2009 e riconfermato al primo turno nel 2014, non vengono attribuite grandi colpe se non quella, per quanto riguarda il GAD, di non aver seguito la trasformazione del quartiere e, in un secondo momento, «di aver snobbato i cittadini cercando di sminuire i loro timori». Alberto Ronchi, esponente dei Verdi, ex assessore a Ferrara, a Bologna e in regione, dice che lui, che è «uno di sinistra», sa bene «che se uno ha paura, ha paura. L’amministrazione ha invece avuto atteggiamenti schizofrenici: mentre ridimensionava la questione GAD, il governo a cui faceva riferimento ci ha mandato l’esercito. Invece, si dovevano provare a mettere in campo azioni alternative in un quartiere che si era molto impoverito, in cui erano rimasti pochi locali, pochi bar. E le varie riforme che sono state fatte in questi anni, come l’abolizione delle circoscrizioni, cioè dei quartieri e dunque della mediazione tra le persone e la pubblica amministrazione, hanno creato grossi problemi. Questo ha significato abbandonare intere zone alla Lega, soprattutto in provincia. Inseguire il Movimento 5 Stelle sulla semplificazione è stato un autogol».

Dall’altra parte c’è chi invece ha utilizzato la questione GAD a proprio favore. In un’inchiesta del 2018 per l’Espresso, l’inviato Fabrizio Gatti aveva scritto: «Lo spacciatore di quartiere è un’istituzione. Li vedi ovunque. Controllano con decine di vedette fisse il parco tra la stazione e il Grattacielo (…) Dalle finestre che si affacciano su viale della Costituzione e viale Cavour il ragionamento degli inquilini è diretto. E quello che vedono da quassù diventa pubblicità gratis, sette giorni su sette, alla campagna elettorale delle destre». Campagna elettorale che è iniziata con larghissimo anticipo e che attraverso le elezioni politiche del 2018 e le europee (Lega ha preso il 36,6 per cento, il PD il 29,03) ha portato infine Fabbri, ex sindaco leghista di Bondeno, a vincere anche a Ferrara.

Maria è un’attivista dell’associazione Rete CambiaVento ed è l’ex presidente del centro sociale La Resistenza. Mentre racconta la situazione, proprio nei giardinetti del GAD, fa spesso riferimento a Nicola Lodi, detto Naomo, un tipo tutto megafoni e ruspe. Lodi è segretario provinciale della Lega, dal 2015 è responsabile immigrazione e sicurezza del partito, a suo carico risultano cinque condanne in patteggiamento in sede penale, ha organizzato le famose barricate contro l’arrivo di 12 rifugiati (donne e bambini) a Goro e Gorino e ha festeggiato il risultato delle politiche con una maglietta con scritto «Più rum, meno rom». Alle ultime amministrative è stato il candidato consigliere più votato in città. «Lui da tempo si muove sul territorio, per le strade», dice Maria, «sempre con il telefonino in mano, facendo dirette su FB, chiedendo documenti ai migranti, anche minorenni, e filmandoli. Non perdendo alcuna occasione di portare avanti la retorica leghista più becera. A un certo punto c’era la percezione che fosse l’unico a occuparsi di sicurezza, in città».

Naomo lo conosce bene anche Don Domenico Bedin, presidente di alcune associazioni e di una cooperativa che si occupa di accoglienza a Ferrara: «Naomo Lodi ha avuto un’esperienza prolungata nelle nostre strutture, su indicazione della famiglia, quando era ragazzo. È un italiano che ha intrecciato la sua vita con i migranti, è stato anche residente in Albania». E proprio lui ha contribuito a esasperare e a rendere esplosiva la situazione del GAD, creando la storia di una città in mano alla mafia nigeriana. «Riuscendo, in qualche modo, a far sembrare che tutto fosse problematico». La chiama una sineddoche, Bedin, perché «il GAD è una cosa, la questione accoglienza un’altra».

Al GAD vivono prevalentemente persone che sono uscite dal percorso dell’accoglienza o quelle che non ci sono entrate affatto: «Le varie ondate migratorie ci sono state anche qui, solo che si trattava sempre di numeri abbastanza contenuti che il tessuto sociale è riuscito ad assorbire senza problemi. Abbiamo proceduto in maniera quasi esemplare, con piccoli centri sparsi nel territorio che favorissero l’inserimento lavorativo, e non con strutture enormi che andassero a creare grandi concentrazioni. Nonostante tutto questo avvenisse in maniera ordinata e diffusa, le Lega ha cominciato a usare ogni pretesto per rendere faticoso anche questo tipo di accoglienza. Ora, poi, con il cambiamento intervenuto nella concessione dei permessi di soggiorno (il “decreto Salvini”, ndr), molte persone vanno a finire molto più facilmente per la strada». Rendere difficile l’inclusione, favorire di fatto l’uscita dai percorsi di accoglienza e usare le conseguenti situazioni di disagio per fondare le proprie retoriche: è accaduto questo, anche a Ferrara. «La politica di Salvini non è fatta perché l’immigrazione non sia percepita, ma per l’esatto contrario», dice Ronchi.

Di fondo, prosegue Bedin cercando di trovare una spiegazione sul perché si sia arrivati fino a qui, «c’è una comunità locale contadina, molto conservatrice e poco dinamica, non tanto dal punto di vista politico ma culturale, una comunità del “si è sempre fatto così”». Ferrara è un salotto, «ci si cammina con le pattine», mi dicono: è piccola, isolata, assimilabile in qualche modo alla provincia veneta, con un centro popolato da anziani: e mentre le grandi città hanno assorbito e metabolizzato meglio la trasformazione, i piccoli centri, di fronte al cambiamento, sono rimasti scioccati. Il processo sociale e culturale è stato lasciato al tempo più che alla politica.

Carife, e la cenerentola d’Emilia
Oltre a GAD, l’altra parola d’ordine per comprendere l’esito delle amministrative è Carife: che tradotto, significa più di trentamila persone che con il decreto “salva banche” hanno perso, in una notte, ciò che avevano investito. Il decreto venne approvato nel novembre del 2015 per salvare dal fallimento quattro piccole banche locali che erano da anni in grave difficoltà a causa di cattive pratiche di amministrazione: oltre alla Cassa di Risparmio di Ferrara, molto radicata sul territorio, quella di Chieti, Banca dell’Etruria e Banca Marche. Il salvataggio era avvenuto in base alle nuove regole europee, che avevano aiutato dipendenti e gran parte dei risparmiatori, ma che avevano causato perdite agli azionisti e ad alcune persone che avevano investito denaro nelle obbligazioni. Il salvataggio era cioè avvenuto tramite un sistema che prevedeva di utilizzare i soldi degli investitori invece che quelli dello Stato: un modello chiesto a lungo proprio dalle forze politiche più ostili ad “aiutare le banche con i soldi pubblici”. Gli investitori di cui parliamo però erano in molti casi piccoli o piccolissimi: persone che fidandosi della filiale di quartiere avevano investito i propri risparmi in azioni oppure in obbligazioni subordinate senza la consapevolezza, in moltissimi casi, che fossero prodotti rischiosi.

Il decreto è stato insomma molto duro per gli investitori, poco costoso per le casse pubbliche e politicamente pesante per il PD. All’amministrazione locale del PD è stata infatti, a torto o a ragione, attribuita parte della responsabilità, complice la crisi generale che a Ferrara – che ha un livello di sviluppo industriale molto basso – è arrivata forte, e complice il terremoto del 2012 che colpì più le fabbriche che le case.

I dati dell’ISTAT e del Comune (riferiti al 2018) dicono che in città il 10 per cento della popolazione vive con meno di 750 euro al mese, che l’indice della povertà è raddoppiato nel corso degli ultimi vent’anni, che la disoccupazione è alta soprattutto tra i giovani e che il reddito medio la pone all’ultimo posto fra i sei capoluoghi emiliani. La popolazione è infine sempre più anziana, con un’età media di 48,5 anni rispetto alla media nazionale che è di 44,9.

Ferrara, la bianco-rossa
«Ferrara è stata fascistissima sotto il fascismo (“ferrarizzare l’Italia” è stato uno dei motti del fascismo; Italo Balbo era ferrarese, tra l’altro, e qui si crearono le primissime grosse concentrazioni e violenze fasciste). È stata comunistissima il giorno dopo la Liberazione e, soprattutto, democristianissima con i democristiani». Sergio Gessi si lascia andare a un’autoanalisi sociologica parlando di «perbenismo e adattamento ai tempi che corrono». Fondandola storicamente: «A Ferrara i vertici della DC, dopo la nascita dell’Ulivo e poi del PD, sono diventati i vertici della “sinistra”. La stessa sede della DC, e poi del Partito Popolare e della Margherita, in via Frizzi dietro al castello, si è trasformata nella sede del PD». Una logica consociativa e un patto di non belligeranza hanno insomma governato la città per decenni. Roberto Soffritti, soprannominato “il duca rosso”, è stato sindaco dal 1983 al 1999 e, spiega Gessi, «ha di fatto governato coinvolgendo i vertici della DC». Poi per dieci anni, dal 1999 al 2009, è stato sindaco Gaetano Sateriale, un moderato di sinistra. «Infine, e per altri dieci anni, è stato sindaco Tiziano Tagliani, i cui assessori provenivano o dagli ambienti cattolici o erano ex democristiani». Qui, conferma Fortini, «c’è stata assenza totale di conflittualità tra componenti politiche differenti e questo ha in un certo senso ibernato la città».

«È assurdo che per 70 anni governi la stessa parte politica, perché questo poi sul tema delle nomine, delle municipalizzate, della compenetrazione tra pubblico e privato diventa troppo monotono. Questa cosa non fa bene», spiega un residente. «Si può parlare di malcontento quasi atavico verso le amministrazioni precedenti», aggiunge Fortini, «e le cooperative hanno fatto la loro parte. Il panorama ferrarese, come tanti altri della provincia emiliana, è stato segnato dal ruolo delle cooperative diciamo “rosse”. Ma ha subìto, soprattutto negli ultimi anni, un’involuzione nei rapporti lavoratori-impresa: spesso le cooperative si sono comportate con i propri dipendenti come se fossero sul libero mercato, con forme di precariato tra le più diffuse». Un commerciante del centro aggiunge che col favore delle amministrazioni precedenti le cooperative hanno aperto grandi ipermercati fuori città: allontanando la gente dal centro e mettendo in difficoltà le cosiddette attività storiche. E rafforzando più in generale una sensazione di potere complice e inamovibile che ha catalizzato risentimenti soprattutto da parte di chi non ne beneficiava.

Il candidato sbagliato
GAD, Carife, grandi cooperative, ok, ma alla fine di ciascun discorso, l’elemento determinante della sconfitta del centrosinistra sembra essere stato la scelta del candidato: Aldo Modonesi era un ex dirigente regionale delle ACLI, era stato assessore comunale alle Attività economiche, e poi ai Lavori pubblici, Mobilità, Protezione civile, Sicurezza e Palio. Era una figura conosciuta, in città, anche apprezzata, ma legata alle vecchie amministrazioni. «Hanno scelto un candidato della continuità», dice Ronchi, anche quando era chiaro che qualsiasi cosa che “puzzasse di PD” sarebbe stata rifiutata: «La soluzione interna non ha funzionato, si è guardato troppo dentro al partito e non fuori, in modo autoreferenziale e senza cercare di capire gli errori che erano stati fatti. E anche la lista più di sinistra e che avrebbe dovuto essere più innovativa era guidata comunque da un’ex assessora, Roberta Fusari. Ci stavano dicendo che il nuovo di cui c’era chiaramente bisogno sarebbe stato la vecchia giunta».

La campagna elettorale del centrosinistra è stata poi molto generica, condotta sulla polemica e gli slogan contro l’avversario, ma priva di proposte realmente concrete: e quando si facevano «erano fumose, tipo: “Faremo di Ferrara la città più verde d’Europa”», prosegue Ronchi. Alan Fabbri era, al contrario, un candidato molto azzeccato per l’elettorato ferrarese e la situazione in cui ci si trovava: 40 anni, ingegnere, ex sindaco leghista di un paese a 20 chilometri da Ferrara e che non aveva le caratteristiche più tipicamente capaci di intimorire di altri leader leghisti.

Fabbri ha fatto campagna elettorale su un territorio in cui le persone lo chiamavano per nome, ha evitato di polemizzare e ha preso le distanze dalle affermazioni più estremiste fatte da chi lo sosteneva. Si è presentato come un moderato e ha impostato tutto sulla massima prudenza e la rassicurazione dei cittadini, come ha dimostrato poi anche la sua risposta al direttore di Internazionale Giovanni De Mauro a proposito del seguitissimo festival che il giornale tiene a Ferrara da anni con approcci molto distanti da quelli dei nuovi vincitori. In questo è stato aiutato molto da una lista creata in suo sostegno e legata all’Università, Ferrara Cambia, che ha ottenuto l’8,32 per cento dei voti: «Quella è stata un’operazione geniale. L’elettorato borghese e moderato si è sentito rassicurato dalla presenza di questa lista e ha votato Lega: dentro c’erano persone rispettabili, note e stimate». Il capolista di Ferrara Cambia era Andrea Maggi, per molti anni responsabile delle Comunicazioni dell’Università di Ferrara e legato al nuovo rettore, Giorgio Zauli. Del quale si dice che sia vicino al centrodestra e di cui si è parlato a livello nazionale perché ha aperto i corsi togliendo il numero chiuso e facendo invadere la città da studenti.

Sui giornali locali si dice che Maggi potrebbe diventare vicesindaco. Ma anche che nella prossima giunta entreranno Naomo Lodi, con deleghe a sicurezza e decentramento, Alessandro Balboni di Fratelli d’Italia che durante la precedente amministrazione propose una mozione simile a quella poi approvata a Verona in materia di aborto e il sindacalista del Sap Luca Caprini che «ha applaudito gli assassini di Aldrovandi», il ragazzo ucciso a Ferrara nel 2005 da quattro poliziotti. Durante un’assemblea pubblica organizzata ieri dalla Rete CambiaVento e dal Gruppo Anti Discriminazione, si è detto che il problema potrebbe non essere tanto il nuovo sindaco ma «tutto quello che si porta dietro». Ferrara potrebbe diventare un laboratorio, dice Maria, attivista della Rete: «Temo che funzionerà come una testa di ponte sull’Emilia». Ma secondo alcuni l’operazione vincente scelta per il voto potrebbe poi rivelarsi complicata da portare avanti: Fabbri dovrà fare i conti con chi lo circonda, e che gli ha portato molti voti, ma soprattutto con il suo partito a livello nazionale: che non è moderato e le cui politiche in materia di immigrazione, per esempio, di fatto non possono aiutare un sindaco che ha detto di voler “risolvere il problema”.