Come sopravvivere a milioni di gatti

È quello che un gruppo di ricercatori vuole insegnare alle specie native australiane, con un apposito addestramento

Un esemplare di bilby (AP Photo/Rob Griffith)
Un esemplare di bilby (AP Photo/Rob Griffith)

Da bambina Katherine Moseby era molto fiera dei suoi gatti, soprattutto quando andavano a caccia di piccoli animali selvatici nei dintorni della sua casa e tornavano con qualche preda. Dopo il dottorato in Scienze della reintroduzione in natura e 25 anni di esperienza nello studio della fauna dall’Australia, Moseby ha decisamente cambiato idea: oggi lavora a progetti di ricerca per aiutare gli animali a sfuggire ai milioni di gatti randagi che popolano il territorio australiano. Negli ultimi anni, il numero crescente di felini è diventato un problema per la conservazione di molte specie, che esistono solamente nel continente australiano.

Il governo dell’Australia stima che ci siano nel paese tra i 2 e i 6 milioni di gatti randagi, che continuano a riprodursi velocemente e per i quali si è reso necessario l’avvio di un piano di sterminio su larga scala che finora non ha dato i risultati sperati. Il gatto non è una specie nativa dell’Australia: fu introdotto nel continente alla fine del diciottesimo secolo, con l’approdo della Prima Flotta, le 11 navi partite dall’Inghilterra per fondare una colonia penale nel continente. Nei decenni successivi si moltiplicarono in buona parte della costa sudorientale dell’Australia. La maggior parte delle specie australiane non era preparata a contrastarli, cosa che ne favorì ulteriormente la diffusione.

Insieme ad altri fattori, i gatti hanno contribuito all’estinzione di almeno 34 specie di mammiferi endemiche dell’Australia: animali che esistevano solo su quel continente e in nessuna altra parte del mondo. Si stima che oggi ci siano almeno un centinaio di mammiferi australiani che rischiano di fare la stessa fine, e l’Australia ha il primato del tasso di estinzione più rapido di tutto il mondo.

Moseby iniziò a occuparsi delle fauna australiana e dei rischi che corre una ventina di anni fa, insieme al marito John Read, in una grande riserva di 123 chilometri quadrati che si chiama Arid Recovery, nel deserto dell’Australia meridionale. Una lunga rete isola la riserva dal resto dell’ambiente circostante, in modo da impedire alle specie introdotte negli ultimi secoli – come volpi, gatti e conigli – di entrarvi e di colonizzare anche quello spazio. Moseby e i suoi colleghi hanno poi costruito recinti più piccoli, nei quali vengono condotti gli esperimenti, che di solito riguardano l’esposizione controllata di specie native ai predatori non endemici, come appunto i gatti.

Negli ultimi cinque anni, Moseby ha collaborato con un gruppo di ricerca che ha coinvolto l’Università del New South Wales e quella della California, per studiare le capacità di adattamento dei mammiferi solitamente predati dai gatti, e quella di evolversi nel giro di poche generazioni per evitare di fare sistematicamente una brutta fine. I primi risultati, da poco pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Applice Ecology, sembrano essere piuttosto incoraggianti.

Uno degli esperimenti ha previsto l’aggiunta in un’area recintata di 26 chilometri quadrati di alcuni gatti, catturati in precedenza, per vedere se le specie endemiche che vivevano al suo interno fossero in grado di sviluppare nuovi comportamenti, o modifiche nella loro anatomia nel corso di alcune generazioni.


Le cavie usate da Moseby per l’esperimento erano piccoli marsupiali come i bilby, appartenenti al genere Macrotis e di cui esistevano due specie, prima che una si estinguesse negli anni Cinquanta del Novecento. I bilby ricordano esteticamente i ratti, ma hanno orecchie più grandi e allungate: sono per lo più notturni e vivono in tane con cunicoli molto articolati. Nel recinto erano presenti anche alcuni esemplari di bettongia scavatrice, boodie, o ratto canguro dal naso corto (Bettongia lesueur), un piccolo marsupiale parente dei canguri.

In circa un anno e mezzo di convivenza con i gatti, spiegano i ricercatori, gli altri animali hanno dimostrato di avere una maggiore consapevolezza circa i pericoli che avevano intorno. I bilby, per esempio, hanno iniziato ad aggirarsi in modo più circospetto e a trascorrere più tempo nelle loro tane per evitare brutti incontri. Nel giro di quattro generazioni, gli esemplari di ratto canguro hanno sviluppato zampe posteriori più grandi, forse per avere più forza nel respingere eventuali attacchi da parte dei gatti. Secondo Moseby, cambiamenti di questo tipo potrebbero essere trasmessi di generazione in generazione, ma saranno necessari diversi altri anni di studio per averne conferma.

Un altro esperimento ha previsto l’introduzione di 42 bilby in uno spazio recintato di 37 chilometri quadrati, nel quale erano stati introdotti dieci gatti selvatici. I bilby erano divisi in due gruppi: uno comprendeva gli esemplari che già avevano convissuto con i gatti, l’altro animali del tutto impreparati alla convivenza. I ricercatori hanno tenuto sotto controllo la situazione per 40 giorni, al termine dei quali i gatti sono riusciti a cacciare e uccidere il 71 per cento dei bilby impreparati, ma solo un terzo degli altri.

Il test è durato poco tempo e ha coinvolto un numero limitato di animali, ma secondo i ricercatori ha comunque offerto risultati incoraggianti. Insieme a un’organizzazione per la tutela delle specie australiane, la Bush Heritage Australia di Melbourne, i ricercatori stanno ora progettando un esperimento su scala più grande. Nel 2020, doteranno alcune centinaia di ratti canguro di collari radio e li lasceranno liberi di scorrazzare per la Bon Bon Station Reserve, un’area protetta di 2.100 chilometri quadrati, che si trova 650 chilometri a sud di Adelaide. Come nell’esperimento con i bilby, anche i ratti canguro saranno divisi in due gruppi, tra quelli abituati ai gatti e quelli impreparati.

Il progetto di Moseby e dei suoi colleghi è molto ambizioso e sta comunque sollevando qualche perplessità. A oggi non si può dire con certezza che possa funzionare su larga scala, anche perché i miglioramenti illustrati dai ricercatori sono registrati solo dopo alcune generazioni. Gli esperimenti portano comunque nuove conferme circa la capacità degli animali di evolversi in poche generazioni, molto più rapidamente di quanto fosse ipotizzato fino a qualche decennio fa. Moseby dice di non avere fretta e di essere disposta a lavorare altri 20 anni, se il risultato finale potrà essere una convivenza quasi alla pari tra gatti e alcune specie che esistono solo in Australia.