• Libri
  • Sabato 27 aprile 2019

“Sono qui per parlarle dello Spirito Santo”

Un estratto del nuovo libro di Michele Serra, che parla di un quarantenne che si ritira a vivere in campagna dopo un passato da politico

Michele Serra, giornalista e scrittore, autore di una popolare e longeva rubrica quotidiana su Repubblica, ha pubblicato un nuovo romanzo per Feltrinelli: si chiama Le cose che bruciano e racconta con qualche autobiografismo di un quarantenne che ha avuto un breve periodo di grande visibilità come politico, se l’è giocata male e si è ritirato a godersi un altro tipo di vita in campagna, facendo riflessioni su questo e altro. La storia – dopo un breve preambolo – comincia con la visita inattesa di un anziano predicatore.

*****

“Sono qui per parlarle dello Spirito Santo,” dice il vecchio.
Lo guardo senza rispondere, in piedi sulla soglia di casa, a braccia conserte, appoggiato allo stipite. Posa una borsa di plastica nera sul tavolo di pietra sotto il portico. È un bel vecchio secco e vigoroso, il mesto abito marrone da grandi magazzini gli cade addosso con una certa grazia. Camicia bianca, niente cravatta, le rughe sulla gola abbronzata hanno la dignità del legno.
Penso che non mi dispiacerebbe diventare come lui – fisicamente, voglio dire – al termine della prossima trentina d’anni. Magari dovrei mangiare e bere meno. Sempre che la guerra atomica, nel frattempo, non mi abbia incenerito insieme al mio colesterolo e a un paio di miliardi, almeno, di altri esemplari di homo sapiens di ogni paese e di ogni età.
La guerra, anche non atomica, è una delle mie fissazioni (non la sola). Mi cammina al fianco come se fosse la mia ombra. Non so dire se la presagisco, con l’impotenza succube del veggente posseduto dalla visione, oppure la penso (la desidero?) per mio vizio attivo, come il regista che immagina il suo nuovo film.
Non ne ho mai vista una se non in televisione, di guerra, come quasi tutti noi nati da questa parte del mondo, quella che ha il culo al riparo, che da almeno un paio di generazioni non ha mai sentito il fracasso di una colonna militare che imbocca proprio la sua strada, sfascia con i cingoli l’asfalto e si ferma, in uno spolverio pauroso, sotto il balcone di casa, a pochi metri dalla biancheria stesa; e il silenzio improvviso della colonna ferma è ancora più minaccioso del fragore sferragliante che l’ha preceduto.
Anche se, in un certo senso, sono uno che si aspetta da un momento all’altro la fine del mondo, non sono un menagramo, e nemmeno un depresso. Anzi, specie da quando abito qui, sono quasi sempre di buon umore: altrimenti non avrei aperto il cancello a un tizio venuto per parlarmi dello Spirito Santo.

“Lo Spirito Santo non è persona distinta da Dio,” riprende il vecchio.
Evidentemente, l’incipit del suo disciplinare prevede che proprio da lì parta la nostra conversazione: deve parlarmi dello Spirito Santo. L’altra ipotesi è che lui sia, del suo reggimento di predicatori, quello fuori controllo, quello così zelante che invece di dire “buongiorno, come sta? come va la vita?”, attacca direttamente con la disputa sulla Trinità. Lo guardo meglio: è davvero un bel vecchio, capelli argentei e occhi celesti, ha qualcosa di anglosassone che si addice molto al fervore religioso che lo sbatacchia su e giù per queste valli. O magari sono io che ho visto troppi film americani e associo ogni sermone biblico al tipo anglosassone. Fate conto un cugino prealpino di John Carradine, cugino molto alla lontana, si capisce. Un ramo minore della famiglia Carradine, così minore che i Carradine di Hollywood nemmeno lo sanno, di questo tizio qui. Un parente talmente poco illustre che si è dovuto accontentare di un doppiatore che parla con uno spiccato accento alto-lombardo. Potrebbe essere delle valli bresciane. Potrebbe essere Giuseppe Carradine, per gli amici Beppe.

Dunque sono qui, sulla porta di casa mia, in un bel giorno di primavera, di fronte a un membro della famiglia Carradine salito apposta fin quassù a spiegarmi che lo Spirito Santo non è persona distinta da Dio.
Per rendere un po’ più gestibile l’assurdità della conversazione, tento la battuta di alleggerimento. “Quando dice che lo Spirito Santo non è persona distinta, intende dire che non è elegante?”
Beppe Carradine mi guarda interdetto. Non credo sia previsto, nel suo addestramento, che il catechizzato faccia lo spiritoso. Per non metterlo troppo in difficoltà (più di quanto già sia uno che si aggira per le valli su incarico dello Spirito Santo) cerco di mostrarmi meno sprezzante rispetto alla materia trattata.
“Mi scusi, sa, ma persona, riferita a Dio, è una parola che non capisco,” dico al vecchio tentando addirittura di sorridergli. “Persone siamo io e lei, davanti alla soglia di casa mia. Come fa Dio, che è tutte quante le cose esistenti, a essere appena appena una persona? Quanto allo Spirito Santo, è un supplemento di fatica che non me la sento di fare. Già una conversazione su Dio, a quest’ora del pomeriggio, è molto faticosa. Non mi ci aggiunga, per cortesia, anche lo Spirito Santo. Non ho mai capito esattamente chi sia, o che cosa sia, e non avevo messo in programma di capirlo proprio oggi.”
Ma il suo discorso procede per conto proprio, lungo il binario invisibile del dogma o sub-dogma che lo ha spinto a bussare alla mia porta.
“Lo Spirito Santo è la forza attiva di Dio, dunque lo Spirito Santo e Dio non possono essere due persone diverse, ma la stessa persona,” riattacca Carradine piuttosto rinfrancato. (Come se non gli avessi appena detto, seppure in una forma estremamente cortese, “mi scusi, ma che cazzo sta dicendo?”. Come se gli avessi appena detto, invece, “ma lo sa, caro amico, che mi interessa molto! Prosegua, la prego, mi illustri nei dettagli gli autentici rapporti tra lo Spirito Santo e Dio, che non sono mica quelli che la gente comunemente pensa!”)
Lo guardo muto. Devo sembrargli ottuso; comunque impreparato. “Purtroppo voi cattolici non leggete più le Scritture,” riprende il vecchio, più malinconico che contrariato.
“Non sono cattolico,” gli dico con decisione, avanzando di qualche passo verso di lui.
“Ah no? E allora in cosa crede?”
“Dipende dai giorni. A volte anche dalle persone che incontro. Se mi parlano dello Spirito Santo, tendo all’ateismo radicale.”
Tace e mi guarda, non so se mi capisce; del resto, non è che io lo capisca benissimo.
Gli indico una sedia, pensando alla sua età. “Si accomodi, vado a preparare un caffè.”
Rimane in piedi. “Non vorrei farle perdere tempo,” dice in un rigurgito imprevisto di normalità.
“Ci metto un secondo. Per intercessione dello Spirito Santo, ho la Nespresso. Se preferisce, anche la moka, ma ci metterei un po’ di più.”

Quanto torno con i due caffè che traballano sul vassoio di latta ammaccata, il vecchio è seduto. Ha inforcato gli occhiali e sta consultando alcuni suoi libretti. Mi aspettavo che si stesse guardando attorno. Appena oltre la strada splendono i boschi rigurgitanti di verdi assortiti e di profumi nascenti; e addosso al portico le mie rose sono in gloria. Non saprei dire se in gloria per conto di Dio, dello Spirito Santo o di entrambi in un colpo solo (nel caso non fossero persone distinte); oppure semplicemente motu proprio, per il puro piacere di essere rose: è maggio, la primavera è al culmine, tutto sprigiona luce e speranza. Luce e speranza, indipendentemente da ogni possibile assetto teologico. E anche a dispetto della guerra, che si sta raggrumando come un temporale, dietro i monti, verso la pianura. Io la sento arrivare. Voi no?

Sono così innamorato di questo posto che, quando mi capita di condividerlo con qualcuno, quasi mi offende la sua distrazione. Mi chiedo se, nel paio di minuti in cui è rimasto da solo, Beppe Carradine abbia trovato il tempo di dare un’occhiata al mondo, che qui a Roccapane sa come farsi ammirare, oppure si sia immediatamente rifugiato nei suoi Sacri Opuscoli per ricavarne il modo di affrontare l’anomalia di questo pomeriggio: uno che invece di invitarlo a levarsi di torno lo ha messo a sedere sotto un bel portico, gli ha offerto un caffè e addirittura gli parla, sia pure con intenzioni non docili. Mentre lo guardo, dignitosissimo nella sua insensata pretesa di comunicarmi, rigo dopo rigo, quanto “sta scritto”, ovvero quanto i Carradine hanno scritto di loro pugno nei secoli, trascrivendolo di Carradine in Carradine (chissà i refusi, le sbavature di inchiostro, le pagine invertite da un rilegatore distratto…), penso che nessuno al mondo abbia ricevuto più porte in faccia di un predicatore porta a porta. Questo lo colloca nel fitto novero degli ultimi, nei confronti dei quali – sta scritto – si deve avere compassione. E anche se non stesse scritto, perché la relativa paginetta è andata perduta in un trasloco precipitoso o distrutta in un incendio, o più banalmente perché un Carradine ipovedente ha saltato la frase, ognuno lo capisce benissimo per suo conto, che bisogna essere gentili con gli ultimi: basta guardare Beppe Carradine, la sua faccia esposta agli eventi, il suo triste vestito marrone.
Non so se si sia accorto che provo simpatia per la sua disastrosa incapacità di impostare una conversazione religiosa partendo con il piede giusto. Cioè dicendomi qualcosa di normale, di solidale, di empatico, e non scaraventandomi addosso una di quelle astrusità teoretiche che rendono le religioni un esercizio per maniaci. Lo Spirito Santo! E poi? Il Serpente Piumato?
Lui comunque sembra avere ricaricato, nell’attimo di pausa, il suo fuciletto verbale, e fa fuoco con una stupefacente assenza di ritmo e di psicologia, come il trombettista pazzo che intona l’assolo un quarto d’ora prima che il sipario sia aperto, mentre sta ancora entrando il pubblico. E gli altri orchestrali, che sono in camerino e si stanno abbottonando la giacca, si domandano costernati: “Ma che cazzo sta facendo, quel cretino di Beppe?”.
“Tutto inizia dal Padre,” mi dice fissando i suoi occhi celesti in un punto del mondo non coincidente con me, “e il Padre è la Causa Prima, onnisciente e onnipotente ma non onnipresente, perché il suo corpo spirituale è in un luogo specifico.”
Attimo di silenzio. Per dimostrare a Carradine che sono stato attento, potrei chiedergli se sa indicarmi almeno per sommi capi dove si trova questo “luogo specifico” nel quale risiede il Padre. Insomma, se esiste un indirizzo dove rintracciarlo in caso di bisogno. Ma sono già pentito di avere usato il mio sarcasmo poco fa. Il vecchio, pure se pronuncia parole terribilmente impegnative, parla come una persona semplice, con la cadenza ruvida di chi non ha avuto tempo e modo di levigare la pronuncia. L’esegesi delle Scritture, detta con forte accento delle valli bresciane, non acquista in credibilità. E poiché temo di avere passato la prima metà della mia vita in piena superbia – questo penso, mentre un venticello tiepido e gentile imbocca il portico e accarezza le rose –, non voglio passare nella stessa maniera anche la seconda metà. Se non altro, mi piacerebbe provare il brivido del cambiamento: anche per questo mi sono trasferito quassù. Magari non si diventa migliori per convinzione, ma per la noia di essere sempre uguali a se stessi. E dunque no, non devo assolutamente prendere per i fondelli Beppe Carradine.

Forse sta aspettando che dica qualcosa. Ed è meglio che la dica, prima che lui mi assesti un’altra strombettata biblica. “Il caffè si raffredda,” gli faccio notare per prendere tempo. Convenevoli dello zucchero. Rumore grato del cucchiaino che gira tintinnante nella tazzina – uno di quei rumori quotidiani che ci accompagnano dalla nascita alla morte, piccoli concerti ignorati, è l’abitudine che ci rende sordi e ciechi. Carradine lo trangugia in un sorso: sembra ansioso di ricominciare al più presto la sua tiritera. Io bevo con più calma, guardando gli alberi che danzano lenti alle folate di vento. Poi appoggio la tazzina sul vassoio, mi alzo, faccio i dieci passi che ci separano, Beppe e me, dall’albero più vicino.
“Lei sa che cosa è questo?” gli domando.
Mi guarda cauto, come se presagisse un contrattacco. “…È una pianta,” dice interdetto.
“Lo vediamo tutti e due che è una pianta. Ma quale?” Non lo sa. Scuote il capo, un’ombra argentea. Ora mi fissa. “È un carpino,” gli dico. “E questo albero qui accanto?” Non lo sa. Continua a fissarmi.
“È un sorbo montano. Vuole che glieli dica tutti?” Adesso sorride. Un paio di denti sono anneriti. “Mah, se ha del tempo da perdere.”
Leggo nel suo sguardo chiaro, fin qui esentato da ogni espressione, un guizzo di divertimento. Sta cominciando a classificarmi come un tipo eccentrico, dunque mi guarda come si guarda un tipo eccentrico. In fin dei conti, avere a che fare con un tipo eccentrico lo solleva almeno in parte dalle sue incombenze. Il coefficiente di difficoltà, nella conversione di un eccentrico, è di sicuro più elevato del normale. Carradine starà pensando: uno che passa bruscamente da una conversazione sulla Trinità al sorbo montano dispone senza dubbio di una mente vacillante. E come faccio a illuminare un mattoide? Poi, forse per stabilire almeno un minimo di complicità, mi dice di conoscere il cipresso. Gli faccio presente che il cipresso non vale, quello lo conoscono anche i bambini. Il cipresso, la palma e l’albero di Natale non valgono. Gli alberi sono una cosa seria, migliaia di nomi, migliaia di forme.

Al momento la situazione è questa: un tizio che va in giro a spiegare che cos’è esattamente lo Spirito Santo si considera surclassato, quanto a stranezza, da un tizio che conosce i nomi degli alberi. Non sono sicuro che abbia torto; anzi, i numeri gli danno ragione, tra gli umani l’invisibile – anche nelle sue trascrizioni più fantasiose – è molto popolare e molto nominato, e non direi altrettanto del visibile. Moltitudini nominano ogni giorno Dio e assai di rado il sorbo montano, del quale nemmeno sospettano l’esistenza; relegandola, nel caso la sospettino, tra le pedanterie scientifiche. Anche perché nominare ogni cosa, essendo le cose moltissime, richiede uno sforzo molto superiore che dare il nome a Dio, che – sta scritto – è uno solo. Dunque Beppe Carradine sta cercando di ricondurmi, alla sua maniera e secondo i suoi codici, alla pratica di interpretazione del mondo più diffusa: nomina Dio e non ti servirà più nominare nient’altro. Ed ecco che all’improvviso vedo in Beppe Carradine non più uno sparuto catechista di qualche Chiesa, magari negletta e perseguitata, ma un inviato della Maggioranza, uno che – come moltissimi, come quasi tutti – è convinto che conoscere il creatore dispensi dalla fatica di conoscere il creato.
Il mio modo di considerare il vecchio cambia in pochi secondi – il tempo di un’intuizione: sono certamente io, non lui, la minoranza che fatica a farsi capire. Anche il mio umore sta virando. Non ho mai avuto buon carattere. Riprendo a parlargli con una certa energia, forse una punta di animosità. “Non sono un botanico, e d’altra parte lei non è un teologo, caro signore. Avrei dovuto dirle da subito che mi occuperò dello Spirito Santo solo dopo che avrò imparato il nome di tutti gli alberi e le piante qui intorno. Non prima. E me ne mancano almeno la metà. Dunque, se le fa piacere, torni tra una decina d’anni. Forse li avrò imparati tutti. Nel frattempo devo ripassare la materia. Arrivederci.”
Il vecchio mi guarda senza ostilità. Con una specie di rassegnazione, come se lo avesse capito da subito, Beppe, che io, quanto a conoscenza della Trinità, sono un caso disperato. Si alza, rimette i suoi libretti nella borsa nera, si abbottona la giacca per darsi un contegno e nascondere il lieve imbarazzo. Gira le spalle e si allontana verso la sua macchina, un paio di curve a valle. Ma fatti pochi metri si gira, mi guarda mentre lo guardo dalla soglia di casa, nella stessa posizione nella quale l’avevo ricevuto, appoggiato allo stipite. Mi dice:
“Lei, signore, non ha nessuna umiltà”. Come se non lo sapessi già da me.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano