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  • Lunedì 25 marzo 2019

Il populismo italiano è cominciato nel ’93

Col "popolo dei fax": è una delle tesi del nuovo libro di Christian Rocca, intitolato "Chiudete internet"

Il giornalista Paolo Brosio in collegamento sul Tg4 dal tribunale di Milano negli anni delle inchieste sulla corruzione politica
Il giornalista Paolo Brosio in collegamento sul Tg4 dal tribunale di Milano negli anni delle inchieste sulla corruzione politica

È uscito per l’editore Marsilio un libro di Christian Rocca – giornalista, oggi collaboratore della Stampa, già al Foglio e al Sole 24 Ore, per cui ha diretto il mensile IL – intitolato Chiudete Internet, che riprende ed estende un tema che Rocca aveva ospitato in un numero del magazine IL quando ne era direttore. Il titolo è, per ammissione iniziale dello stesso autore, una forzatura di comunicazione, rispetto alla tesi generale: “Chiudete Internet però rendeva meglio, allora come oggi, di Fate pagare Internet, in ogni caso il cuore di quella copertina e di questo libro è l’urgenza e la necessità di cambiare il modello di business della Rete al fine di salvaguardare la società aperta”. Tesi che arriva dopo diverse analisi su dove ci troviamo e come ci siamo arrivati, come nel capitolo sul “Populismo del ’93”.

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Il neopopulismo digitale ha solide radici offline che non vanno trascurate, anzi sono da studiare per approntare un rimedio alle insidie attuali. Un tempo c’era Aldo Biscardi. Il bar dello sport televisivo era un ritrovo sublime e necessario, dove era consentito urlare liberamente contro l’arbitro cornuto. Poi, una volta usciti dal bar, più o meno si tornava alla vita normale. Quel confine è saltato negli anni della cosiddetta «Calciopoli», della rivoluzione francese del grillismo, ed è stato sostituito da una Schengen del rutto libero che ha permesso alle polemiche sul calcio di rigore di entrare nei telegiornali e al raffinato pensiero del piove-governo-ladro di prendere il posto delle grandi ideologie del Novecento.

Un ruolo primario l’ha avuto Enrico Mentana, il primo giornalista mainstream a elevare a dignità di cosa seria le frustrazioni da curva sud, portandole in prima serata televisiva. Un altro è stato Michele Santoro, il quale perlomeno si occupava di classe operaia ed era alimentato dal fuoco dell’ideologia novecentesca e, per questo, con il tempo – ma solo dopo averci propinato anche Beppe Grillo – si è addolorato dell’esito politico della sua battaglia.

Da allora i talk show politici italiani si sono chiamati Piazzapulita, La gabbia, L’aria che tira, Annozero, Bersaglio mobile, Virus, Ballarò, L’A­rena, Agorà, Quarto grado. Basta metterli in fila uno dietro l’altro e non serve nemmeno sintonizzarsi per individuare le origini del populismo giustizialista e della gigantesca truffa della democrazia diretta e anche di quella eterodiretta dall’algoritmo della Casaleggio Associati. Abbiamo adottato la gogna dopo Il processo del lunedì, il dibattito con proteste da cartellino rosso, la tabula rasa dopo l’invasione di campo. Sarebbe davvero un modello da esportare come eccellenza grottesca del Made in Italy, se non fosse che in America hanno eletto Trump e nel resto del mondo occidentale non si fanno mancare nulla. Siamo a Biscardi a Palazzo Chigi e alla Casa Bianca, insomma, e al biscardismo come cultura globale dominante.

I media tradizionali, poi, interpretano lo spirito del tempo abdicando al ruolo di ingrediente necessario per la formazione di un’opinione pubblica adulta e costruiscono campagne populiste contro la casta, fino a delocalizzare la confezione del prodotto editoriale nelle stanze delle procure della Repubblica. Una volta raggiunto il potere, le creature politiche di questa resa incondizionata pretendono l’asservimento e il mondo dell’informazione un po’ glielo concede, porgendo microfoni e taccuini alla bisogna, un po’ si indigna del trattamento subito da parte di chi, come ha scritto Francesco Cundari, non conosce i principi elementari della gratitudine. E così siamo arrivati a Marcello Foa presidente della Rai, al signoraggio in prima serata, alle animazioni antifrancesi e antitedesche nei talk show, alla propaganda di Putin postprandiale, a canali pubblici e privati popolati da personaggi da Hellzapoppin’, a nuove trasmissioni che si chiamano Povera Patria, Popolo Sovrano, eccetera. I politici tradizionali non sono esenti da colpe, ovviamente, ma la pochezza intellettuale della compagnia di stanza nei talk show rivaluta i professionisti del circo biscardiano, i quali almeno si infervoravano solo sul calcio.

C’è chi sostiene con buoni argomenti che l’ondata populista che ha travolto il mondo occidentale nasca dalla grande crisi finanziaria del 2008, oltre che dall’impatto della rivoluzione digitale sulla società contemporanea. E, del resto, i movimenti politici primogeniti di quel terremoto sociale sono proprio americani: i Tea Party a destra e Occupy Wall Street a sinistra. Nato come un movimento antistatalista contro il conservatorismo solidale di George W. Bush, i Tea Party hanno trovato terreno fertile nelle frange estremiste, nel sottobosco dei cospirazionisti e, infine, nel Partito repubblicano stesso. Occupy, invece, inizia come una protesta spontanea online contro le crescenti ingiustizie sociali causate dall’alta finanza, ma è stato presto fagocitato dai movimenti anticapitalisti e no global che dopo il crollo del comunismo sembravano destinati a scomparire.

Chi ha vinto la lotteria sono stati i leader capaci di intercettare sia la paranoia antistatalista dei primi sia il veteroanticapitalismo dei secondi, grazie all’abilità nell’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, alle qualità artistiche da intrattenitori provetti e alla completa disabilitazione nel dibattito pubblico di ogni forma di attinenza ai fatti. Beppe Grillo e Donald Trump, insomma. I due showmen sono analogici, hanno creato consenso online, ma non sono la causa né tantomeno la terapia della malattia populista. Sono il sintomo.

Se è vero ciò che ha scritto Giuliano da Empoli in La rabbia e l’algoritmo, ovvero che l’Italia è una specie di Silicon Valley del populismo, capace di anticipare l’infrastruttura ideologica della nostra epoca, da Di Pietro a Berlusconi, allora conviene fare un ulteriore passo indietro rispetto alla crisi finanziaria del 2008 che ha saldato l’alleanza tra cospirazionisti, anticapitalisti e vecchia destra antidemocratica e antioccidentale.

C’è chi fa risalire l’origine del populismo contemporaneo italiano alle campagne contro la casta iniziate nel 2006 sulle pagine dei grandi giornali e sulla televisione e culminate nella pubblicazione di numerosi saggi che hanno dato vita negli anni a seguire a un nuovo genere letterario di gran successo. Ma in realtà anche quella campagna editoriale contro gli sprechi della politica non è l’origine, semmai lo sfogo finale di un indottrinamento generazionale cominciato invece nel 1993, L’anno del Terrore di Mani pulite, come recita il sottotitolo di Novantatré di Mattia Feltri.

Il prologo però è del 1992. Francis Fukuyama aveva scritto La fine della storia, un libro che ha ispirato la stagione dell’interventismo democratico dell’Occidente, dalla Bosnia al Kosovo, fino all’Afghanistan e all’Iraq. La tesi nasceva dalla caduta del Muro di Berlino e dall’archiviazione dell’impero comunista nella spazzatura della storia: finalmente la vittoria della democrazia liberale poteva essere dichiarata, sosteneva Fukuyama. Nessuno avrebbe potuto fermare il progresso. Era fatta. La storia era finita.

Questa idea ottimista e grandiosa è stata un formidabile manifesto politico e il collante ideologico che negli anni a venire, dal 1993 in poi, ha convinto i giovani leader occidentali, soprattutto di sinistra, dell’ineluttabilità di un futuro democratico per tutti. Qualche mese dopo l’uscita del libro, in pieno 1993, un altro professore americano decisamente più scettico, Samuel P. Huntington, ha scritto un saggio in risposta allo studio di Fukuyama. Si intitolava Lo scontro delle civiltà. Dopo l’11 settembre 2001, è diventato uno dei libri più citati, spesso a sproposito. Huntington non era favorevole allo scontro di civiltà, né aveva posto le basi per l’interventismo di George W. Bush (semmai era contrario), piuttosto metteva in guardia la società spensierata del 1993 dai pericoli di cotanto ottimismo e prevedeva che lo scontro tra le civiltà sarebbe stato inevitabile. Quell’anno c’è stato il primo attentato islamista alle Torri gemelle e tre anni dopo, nel 1996, Osama Bin Laden ha dichiarato guerra santa all’America, colpita poi tragicamente nel suo cuore vitale cinque anni dopo. Huntington aveva ragione, ma Fukuyama non aveva torto. Lo scontro delle civiltà era inevitabile, tanto più che era saltato il tappo sovietico che aveva tenuto a bada molte istanze estremiste, ma la generazione di intellettuali e di politici che aveva partecipato e assistito all’entusiasmante crollo di una visione criminale della società non poteva più accettare l’ineluttabilità del male, anche perché quando si è girata dall’altra parte, a Srebrenica e in Ruanda, le conseguenze e il peso morale sono stati insopportabili.

Nel 1993 si è iniziato ad accarezzare l’idea – probabilmente ingenua, ma eticamente doverosa – che si potesse davvero raddrizzare il legno storto dell’umanità.

Era questo il dibattito occidentale, mentre si ponevano le basi della rivoluzione digitale. In Italia, invece, nel 1993 c’è stato uno scontro di inciviltà: da una parte la corruzione politica e dall’altra la via giudiziaria al potere, tutto il resto è stato schiacciato. Il 1993 è stato l’anno delle tangenti, dei suicidi, della carcerazione usata come strumento di confessione, dei partiti diventati bande da sgominare, dei processi sommari in piazza e sui giornali anziché nelle aule dei tribunali. E mentre il mondo progettava le autostrade dell’informatica, l’Italia dibatteva di frequenze televisive e si divideva sugli spot televisivi che interrompevano l’emozione di un film.

Il 1993 è soprattutto l’anno in cui si impone l’archetipo dell’«uno vale uno», il primo richiamo, ancora semianalogico, alla democrazia diretta, il modello originale della disintermediazione politica creata dai social che va di moda adesso. È l’anno in cui i partiti politici, le televisioni generaliste e i grandi giornali iniziano a invocare il fantomatico «popolo dei fax» che protesta via facsimile contro la classe politica, contro l’establishment e contro l’élite del paese. Il «popolo dei fax» era il commentatore rancoroso di allora, l’antecedente della diretta indignata su Facebook, era qualcosa di simile al primo gruppo parlamentare grillino. Bastava mandare direttamente un fax, per poter dire la propria, per cantarla giusta al potere.

Come è capitato spesso, anche in questa occasione è stato Marco Pannella il più lungimirante, l’unico ad aver intuito la rotta verso cui ci stavamo dirigendo, tanto da aver aperto i microfoni di Radio Radicale, definita per l’occasione «Radio Parolaccia», per dare voce, senza filtri, alla rabbia del paese reale oltre vent’anni prima di Facebook e di Twitter. Ed è stato comunque Pannella, soltanto Pannella, certo non gran parte degli attuali paladini della libertà democratica, ad aver difeso il Parlamento e i suoi membri dall’assedio del popolo aizzato da una politica e da una stampa ridotti a portavoce e zerbino del potere inquisitorio dei pubblici ministeri.

Allora non servivano troll, algoritmi e bot russi, c’era un «popolo dei fax» tutto italiano che trovava sfogo in Antonio Di Pietro, il cui marketing politico una volta sceso in campo è stato gestito dalla Casaleggio Associati, nella Lega di Umberto Bossi e del neoconsigliere comunale Matteo Salvini, direttore di Radio Padania, e nella sinistra ex comunista che si macerava tra nostalgia del passato e necessità di cambiare pelle. Il «popolo dei fax» aveva insomma la stessa composizione politica, sociale e popolare della maggioranza di governo populista uscita dalle urne italiane del 2018. Le stesse istanze, lo stesso lessico, lo stesso risentimento. La stessa scorciatoia digitale e lo stesso vento in poppa.

L’imprenditore fattosi politico Silvio Berlusconi, campione populista ma tutto sommato liberale, ha prosperato intorno a questa retorica salvifica del popolo contro le élite, sollecitandola ma in fondo anche contenendola. Il merito di averla tenuta fuori dal governo è anche della travagliata lungimiranza dei leader della sinistra come Matteo Renzi, anche lui come Berlusconi impegnato a sfruttare elettoralmente il fuoco populista e allo stesso tempo a cercare di domarlo. Leggete gli articoli sul «popolo dei fax» negli archivi dei giornali e guardate su Rai Teche i talk show di quella stagione, da Funari a Santoro, oltre a Striscia la Notizia e alle Iene, e converrete che il populismo oggi al governo, il nostro populismo, è molto più radicato di quanto si creda. E questo è un guaio tutto italiano.