Come sta andando con l’olio di palma

Gli interventi per limitare la deforestazione stanno dando qualche risultato, ma la questione è complicata, spiega l’Economist

Un'area del Borneo in fase di disboscamento per la preparazione di una nuova coltivazione di palma da olio nel 2016, Indonesia (Ulet Ifansasti/Getty Images)
Un'area del Borneo in fase di disboscamento per la preparazione di una nuova coltivazione di palma da olio nel 2016, Indonesia (Ulet Ifansasti/Getty Images)

L’olio di palma è uno dei grassi vegetali più utilizzati al mondo, sia dalle industrie alimentari sia da quelle dei cosmetici, per la notevole resa delle sue piantagioni e i prezzi relativamente bassi cui viene venduto all’ingrosso. L’alta domanda da parte del mercato ha portato in pochi decenni alla creazione di gigantesche piantagioni, ottenute disboscando ampie porzioni di territorio in paesi come l’Indonesia e la Malesia, con consistenti danni ambientali. Grazie a numerose campagne per un uso più responsabile, negli ultimi anni le cose sono migliorate, ma come racconta un articolo sull’ultimo numero dell’Economist non si possono escludere i rischi di nuove deforestazioni, in seguito al cambiamento del clima e a un previsto aumento della domanda di olio di palma nei prossimi anni.

Sull’isola indonesiana di Sumatra la porzione di terreno dedicata alla coltivazione delle palme da olio è pari a 123mila chilometri quadrati, un’area comparabile a quella della Grecia. L’Indonesia è del resto il più grande produttore al mondo di olio di palma: ne produce da sola la metà di tutto quello del mondo (al secondo posto c’è la Malesia). Per l’economia indonesiana l’olio di palma è molto importante e costituisce circa il 3 per cento del prodotto interno lordo (PIL).

Per fare spazio alle piantagioni, negli ultimi decenni in Indonesia e in Malesia sono stati rasi al suolo migliaia di chilometri quadrati di foresta tropicale. Tra il 1972 e il 2015, per esempio, si stima che la metà dei terreni privati di foreste in Malesia sia stata utilizzata per piantarvi palme da olio. In Indonesia si parla del 16 per cento, ma in alcune aree come quella del Borneo si è ormai arrivati al 60 per cento di foresta abbattuta utilizzata per far spazio alle piantagioni di palme da olio.

Nella maggior parte dei casi la deforestazione è stata effettuata da coltivatori e proprietari terrieri appiccando grandi incendi, che bruciano facilmente complice la natura torbosa del suolo. Negli anni passati gli incendi erano talmente estesi da rendere il loro fumo visibile a centinaia di chilometri di distanza, e naturalmente tramite le immagini satellitari. Bruciando per intere settimane, producevano enormi quantità di gas serra (i primi responsabili del riscaldamento globale) e avvolgevano buona parte del sud-est asiatico in una bolla opaca di polveri e fumo.

La deforestazione ha causato seri problemi alla biodiversità, considerato che una piantagione di palma da olio è un ambiente adatto al 65-90 per cento di animali in meno rispetto alla foresta. Specie in pericolo di estinzione, come le tigri e gli oranghi, ne hanno ampiamente risentito. Più in generale, centinaia di specie in Indonesia hanno raddoppiato il loro rischio di estinzione rispetto ai loro simili in altri paesi.

Negli ultimi anni le campagne ambientaliste e una maggiore presa di responsabilità delle aziende, soprattutto tra quelle occidentali del comparto alimentare, hanno portato a un miglioramento della situazione per quanto precario, spiega l’Economist. Le immagini satellitari mostrano che nel 2017 il tasso di deforestazione in Indonesia è stato il più basso degli ultimi 20 anni. Sul risultato hanno influito due fattori: un clima più umido che rende più difficile la deforestazione tramite incendi e l’andamento del prezzo dell’olio di palma, che è strettamente legato all’estensione delle piantagioni. Il prezzo dal 2016 si è ridotto di circa un terzo a causa della grande disponibilità di coltivazioni, riducendo l’interesse per crearne di nuove.

Seppure con qualche limite, un contributo importante per migliorare la situazione è stato fornito dalla Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (RSPO), organizzazione che esiste dal 2004 per promuovere una coltivazione della palma da olio che sia sostenibile dal punto di vista ambientale. RSPO è un’associazione non profit e mette insieme produttori, commercianti, banche, investitori e organizzazioni non governative ambientali. Ha il compito di tenere sotto controllo i produttori di olio di palma, emettendo certificati che attestano il loro utilizzo di buone pratiche dal punto di vista ambientale e sociale.

Le società che impiegano olio certificato RSPO possono quindi garantire, entro certi limiti, ai loro clienti di fare il possibile per l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Per esempio, la multinazionale italiana Ferrero, una delle più grandi aziende alimentari al mondo, utilizza per la Nutella e gli altri suoi prodotti olio di palma certificato RSPO, aggiungendo ulteriori programmi di controllo e monitoraggio delle piantagioni da cui si rifornisce.

Il problema è che l’olio di palma certificato da RSPO corrisponde a un quinto dell’intera produzione mondiale, quindi la maggior parte viene ancora realizzata senza seguire buone pratiche ambientali e sociali. Produrre olio certificato costa inoltre di più ai produttori, che non sempre ricevono garanzie sufficienti circa la possibilità di venderlo a prezzi per loro vantaggiosi e tali da rientrare delle maggiori spese. Inoltre, circa due quinti dell’olio di palma vengono acquistati da Cina, India e Pakistan, dove non c’è ancora molta sensibilità sul tema dell’impatto ambientale delle coltivazioni: potendo scegliere tra un olio più caro certificato e uno senza certificazioni, ma più economico, viene quasi sempre scelto il secondo.

Negli anni diverse organizzazioni ambientaliste hanno inoltre espresso critiche e dubbi nei confronti di RSPO, soprattutto per lo scarso potere che ha per imporre le proprie politiche ai produttori. In realtà, seppure lentamente e con qualche difficoltà, RSPO ha adottato politiche più severe e maggiori restrizioni sulle aree da dedicare alle piantagioni. Nel 2016 ha inoltre sospeso 101, una grande azienda malese che non aveva rispettato le linee guida per la protezione delle foreste.

Secondo studi indipendenti, il tasso di disboscamento nelle piantagioni certificate è di un terzo più basso rispetto alle altre coltivazioni. Il problema è che RSPO ignora le deforestazioni effettuate prima del 2005, quindi sottovalutando gli effetti causati dai produttori che per l’epoca avevano già sottratto ampie porzioni di terreno alle foreste tropicali, e che negli ultimi anni non hanno avuto più bisogno di farlo.

Un’ulteriore complicazione è data dalla frammentazione del mercato: non ci sono infatti solamente le grandi aziende con le loro enormi piantagioni, ma anche i piccoli proprietari terrieri che si dedicano alla coltivazione delle palme da olio. Mentre i primi possono essere seguiti più facilmente da RSPO, dalle autorità locali e dalle organizzazioni ambientaliste, i secondo sono più sfuggenti e lavorano talvolta sotto traccia. Si stima che il 40 per cento di tutto l’olio di palma prodotto al mondo derivi dalle piantagioni dei piccoli proprietari terrieri. Per motivi economici, sono più propensi a disboscare il territorio e ad aumentare la loro produzione, spesso a scapito dell’ambiente.

Il presidente dell’Indonesia, Joko Widodo, promette da anni di fare qualcosa dal punto di vista legislativo per tenere meglio sotto controllo le attività dei piccoli proprietari terrieri. Tra il 2015 e il 2017 ha esteso una discussa moratoria per impedire la conversione delle foreste in nuove piantagioni, mentre nel 2018 ha messo al bando la diffusione di nuovi permessi per realizzare piantagioni fino al 2021. Joko Widodo ha inoltre promosso l’attivazione di programmi per monitorare il territorio, e censire le piantagioni di piccole e medie dimensioni.

In passato l’Indonesia aveva assunto provvedimenti simili, ma con scarsi risultati. Le moratorie, per esempio, si applicano solamente alle nuove richieste, mentre non sono valide per i proprietari terrieri che già avevano avviato le pratiche per ottenere i permessi per realizzare nuove coltivazioni. Il controllo a livello locale è inoltre complicato dalla scarsa attenzione degli amministratori locali, che per motivi di opportunità elettorale o economici sono spesso indulgenti nei confronti di chi non è in regola.

Dopo un paio di anni con estati più umide del solito, si prevedono per il 2019 maggiori periodi di siccità in Indonesia e in parte della Malesia. Condizioni più favorevoli agli incendi potrebbero portare a nuove deforestazioni su larga scala, mettendo alla prova i progressi raggiunti negli ultimi anni.

Benché sia spesso demonizzato, l’olio di palma costituisce una risorsa molto importante per l’alimentazione di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Le coltivazioni per produrlo occupano il 5,5 per cento dei terreni utilizzati per la produzione di tutti gli oli del mondo, ma grazie alla sua alta resa l’olio di palma rappresenta un terzo della produzione mondiale di oli e di altri tipi di grassi. Il consumo di terreno è quindi, in proporzione, più ridotto rispetto ad altre coltivazioni o allevamenti per la produzione di grassi di diverso tipo, vegetali o animali.

L’olio di palma fa male?