Perché non si parla delle primarie del PD?

A due settimane dal voto con cui sarà scelto il prossimo segretario la competizione non si è scaldata, per colpa delle europee che incombono e di vecchie questioni non risolte

(FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
(FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Mancano solo due settimane alle primarie del Partito Democratico (PD), ma in pochi sembrano essersene accorti: la scelta del partito è assente dalle prime pagine dei giornali e dalle aperture dei telegiornali, il dibattito tra i candidati langue e l’unico dirigente politico di centrosinistra che riesce a far parlare di sé è l’ex ministro Carlo Calenda, che al congresso del PD non è nemmeno candidato. Mentre due anni fa quasi due milioni di persone si recarono a votare alle primarie – secondo i dati comunicati dal partito – quest’anno i dirigenti considereranno un successo se il 3 marzo si arriverà a un milione di elettori.

Il calo di interesse è in parte inevitabile. Innanzitutto, per la prima volta dal 2013 il PD non è più al governo e non sembra poterci arrivare a breve. Mentre in passato i risultati delle primarie avevano avuto un effetto immediato sulla guida del paese, oggi i tre candidati si sfidano per conquistare la leadership di una forza politica che alle ultime elezioni ha ottenuto il peggior risultato della sua storia ed è lontana come non mai da ogni possibilità di tornare a influenzare il governo del paese. «Stiamo parlando di un partito che non è mai stato così debole dal punto di vista elettorale», dice Giovanni Diamanti, co-fondatore della società demoscopica e di consulenza Quorum: «In passato ha toccato punte del 40 per cento ed è stato spesso sopra il 30 per cento, mentre oggi i sondaggi lo stimano a meno del 20. E questo ha un peso, poiché molte meno persone all’interno dell’opinione pubblica si sentono coinvolte nella vita del partito».

I tre candidati alla segretaria che hanno passato la prima fase del congresso non hanno contribuito a suscitare interesse, conducendo quasi di comune accordo una campagna elettorale modesta e senza colpi di scena. Nicola Zingaretti, il favorito, viene spesso indicato come quello più a sinistra, ma non tanto per il suo programma politico (al momento piuttosto scarno come quello di tutti gli altri candidati) quanto per alcune delle sue amicizie nella sinistra radicale e tra i fuoriusciti dal PD. Maurizio Martina, scelto da Renzi come suo vice nel 2017, è probabilmente destinato ad arrivare secondo. È stato l’ultimo segretario del PD, in carica per quasi un anno dalle dimissioni di Renzi all’inizio del congresso, un periodo nel quale è riuscito a creare una rete di alleanze nel partito che gli ha permesso, a sorpresa, di diventare il principale sfidante di Zingaretti. Oggi si presenta come un candidato moderato e “unitario”, in grado di comporre le diverse anime del partito, ma fino a qualche anno fa la sua corrente era considerata “la sinistra di Renzi”. Roberto Giachetti, infine, che si candida con la deputata Anna Ascani come vicesegretaria, è quello che promette maggiore continuità con l’esperienza politica delle gestioni e dei governi di Matteo Renzi (ma i sostenitori di Renzi sono sparpagliati soprattutto tra Zingaretti e Martina).

Matteo Renzi è il vero e proprio “convitato di pietra” del congresso, e la sua assenza e il suo ostentato disinteresse per la competizione sono probabilmente due delle numerose ragioni che ne spiegano lo scarso interesse suscitato. L’assenza dello “scontro finale” tra renziani e anti-renziani ha rimosso molta tensione dal congresso in corso. Renzi – la sua persona e le sue scelte – è stato per anni lo spartiacque che ha diviso il partito: ha imposto la sua linea vincendo per due volte le primarie del PD, scontrandosi duramente con gli avversari interni e imponendogli (secondo alcuni) o subendo (secondo altri) una grave e dolorosa scissione.

Dopo la sconfitta del 4 marzo in molti si aspettavano un suo ritiro dalla scena oppure, più in linea con il suo carattere, una resa dei conti finale. Renzi invece ha deciso di adottare un atteggiamento ambiguo. Ha rifiutato di candidarsi per una terza volta o di appoggiare apertamente un suo candidato (anche se ha fatto un poco convinto tentativo con Marco Minniti che non ha portato lontano) ma è comunque rimasto all’interno del partito e del dibattito politico, lasciando spesso filtrare alla stampa indiscrezioni sulla sua possibile intenzione di formare un nuovo partito concorrente del PD.

Tolto Renzi dal dibattito in molti si aspettavano che lo scontro sarebbe stato sui temi e i programmi, ma hanno dovuto ricredersi. Nessuno dei tre candidati si è posto come uno sfidante in netta rottura con le politiche del passato. Neppure Zingaretti, tra i tre quello considerato più lontano dalla precedente gestione del partito, ha affondato il colpo, limitandosi a poche critiche circospette. Condividere o almeno non criticare la linea politica recente è inevitabile, anche perché tutti e tre i candidati sono sostenuti da alcuni dirigenti che quella linea hanno contribuito ad attuarla. Martina, per esempio, ha ricevuto il sostegno della maggioranza dei parlamentari renziani, tra cui quello dell’ex ministro dello sport Luca Lotti, amico di lunga data e braccio destro di Renzi. Zingaretti è sostenuto dall’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dall’ex ministro Dario Franceschini, per anni principale alleato di Renzi all’interno del partito.

«È tutto un tienimi che ti tengo», dice oggi il giornalista Francesco Cundari, collaboratore del Foglio e di Studio, direttore della rivista Left Wing, secondo cui era inevitabile che un congresso svolto a ridosso di un’importante elezione nazionale portasse a questi risultati deludenti. Cundari, da anni un attento osservatore del Partito Democratico e della sinistra italiana, ricorda che meno di tre mesi dopo le primarie del 3 marzo il nuovo segretario dovrà prepararsi alle europee del 26 maggio e avrà meno di tre mesi per organizzare la sua piattaforma, preparare una strategia, decidere le liste e le alleanze. Se, come è possibile, il risultato del voto non sarà particolarmente positivo per il PD, il nuovo segretario rischia di rimanere azzoppato a poche settimane dalla sua elezione.

Con queste prospettive, sostiene Cundari, non stupisce che «ciascun candidato si sia preoccupato innanzitutto di non lasciare fianchi scoperti piuttosto che andare all’attacco». Il congresso ne è uscito moscio, poco combattuto e senza nulla da raccontare al paese: «E questo conferma un altro fatto: ossia che non era questo il momento di fare un congresso».

Il risultato dello scontro annacquato dalle prudenze dei candidati e dalla necessità di mostrarsi in continuità con il passato è che nella prima fase del congresso, aperta ai soli iscritti al partito, hanno partecipato appena metà degli aventi diritto: 190 mila persone in tutto. Significa che hanno votato appena ventimila iscritti più dei 170 mila che all’ultimo congresso votarono per il solo Matteo Renzi.

Secondo Diamanti, però, c’è almeno un lato positivo da cui guardare la vicenda: «Al PD conviene tenere le aspettative basse e poi puntare sull’effetto sorpresa». Se il partito riuscisse a portare ai gazebo più di un milione di elettori, una cifra immensamente superiore alle capacità di mobilitazione di qualsiasi altro partito, non sarebbe impossibile presentare la consultazione come un successo soprattutto se le aspettative sono state mantenute molto basse. È probabile che questo accorgimento possa essere utile per tirare la volata a un buon risultato alle europee, ma per tornare a dare al partito una visione di prospettiva sui prossimi decenni probabilmente ci sarà bisogno di qualcosa in più.