«Ho paura di chiudere gli occhi. E ho paura di aprirli»

Vent'anni fa uscì "The Blair Witch Project", che è un pezzettino di storia del cinema, ma anche di internet

di Gabriele Gargantini

Vent’anni fa al Sundance Film Festival fu presentato un film intitolato The Blair Witch Project: era costato qualche decina di migliaia di dollari, era interpretato da attori non professionisti e diretto dai registi esordienti Daniel Myrick e Eduardo Sanchez. Avrebbe incassato 250 milioni di dollari e ancora oggi molti lo ricordano, magari con il titolo italiano: Il mistero della strega di Blair.

The Blair Witch Project ha avuto un così grande successo perché era un horror ma fingeva di essere una storia vera: e nel fingere aveva creato quello che quasi nessuno aveva fatto prima nel cinema, di certo non così bene. Il film fu infatti pensato e girato come un falso documentario, come se i protagonisti non fossero degli attori e come se la storia alla base del film fosse vera. Ebbe poi il merito o la fortuna di uscire quando internet già esisteva ed era diffusamente usato, ma il pubblico era ancora nuovo e impreparato a quelle che oggi chiamiamo bufale o fake news.

Meglio dire subito, comunque, che “il passaparola di internet” fu parte del successo del film, non il suo unico motivo. Qualcuno di certo lo andò a vedere credendolo un documentario, perché così diceva internet. Molti altri no e ci credettero tanto quanto credono che Superman esista davvero. Lo apprezzarono o lo apprezzano per altro.

In effetti, The Blair Witch Project inizia con una bugia. Un breve testo che dice che nell’ottobre del 1994 tre aspiranti registi sparirono a Burkittsville, nel Maryland, mentre stavano girando un documentario, e che le immagini del loro documentario sono state ritrovate un anno dopo. Nel gergo del cinema, immagini di questo tipo si chiamano found footage, riprese ritrovate.

Seguono per tutto il film le immagini traballanti con cui i tre registi – due ragazzi e una ragazza: Heather, Michael e Joshua – documentano quel che succede loro. La trama non è niente di che. I tre protagonisti arrivano a Burkittsville e (sempre come se fosse un vero documentario) parlano con gente del posto che dice loro che nel bosco lì vicino succedono cose strane. Ma decidono di andarci comunque, vagando per un paio di giorni, vedendo e sentendo cose che fanno paura. Il finale è molto ambiguo e aperto a interpretazioni. L’unica cosa certa è che una delle telecamere dei protagonisti cade a terra e rimane lì, in attesa di essere ritrovata un anno dopo.

The Blair Witch Project non ha avuto successo grazie a una gran trama (parla di persone che vanno in un posto in cui viene detto loro di non andare e del poco che gli succede) e nemmeno per i suoi effetti speciali (non ce ne sono) o perché mostra cose che fanno davvero paura (non granché). Ebbe successo perché costruiva piano piano la paura e perché faceva sembrare vero quello che mostrava, grazie a un grande lavoro da parte dei registi.

Eduardo Sanchez e Dan Myrick avevano tra i trenta e i quaranta anni, quando uscì il film. Si erano conosciuti nei primi anni Novanta, quando entrambi studiavano cinema in Florida. Nel 1993 si fecero venire in mente l’idea alla base del film: in un paese nel Diciottesimo secolo si dice ci fosse, lì vicino, una strega. Da allora da quelle parti succedono cose strane. Myrick e Sanchez scrissero quindi una breve sceneggiatura di 35 pagine, praticamente senza dialoghi, e pensarono di creare finti articoli di giornale e finte interviste per far sembrare vera la loro storia. Molti nomi del film sono anagrammi: Elly Kedward, la strega di Blair, è per esempio un anagramma di Edward Kelley.

I registi avevano però bisogno dei tre protagonisti e quindi pubblicarono un annuncio sulla rivista Backstage. Parlava di un film «basato sull’improvvisazione, girato nei boschi, che sarà terribile e a cui molti non vorranno partecipare». Ai provini Myrick e Sanchez fecero questa domanda per testare le capacità di improvvisazione degli aspiranti protagonisti. Senza dare altro contesto o tempo per pensarci chiesero: «Sei stato in prigione per nove anni. Noi siamo i giudici che potrebbero farti uscire. Perché dovremmo?». Chi esitava, chiedeva “perché?” o “per quale reato?”, veniva scartato.

Le riprese del film durarono otto giorni e per i tre protagonisti scelti – Heather Donahue, Joshua Leonard, Michael C. Williams – non furono particolarmente piacevoli. I registi li presero, li portarono nel Maryland e, senza mai dire loro che la leggenda era tutta inventata, fecero loro intervistare persone del posto. Alcune delle quali erano state avvisate affinché rispondessero cose come: “Sì, forse una volta ne ho sentito parlare su Discovery Channel”.

I tre furono poi portati nel bosco, dove fu solo detto loro di andare da un punto a un altro. Avevano delle telecamere con cui riprendersi, un GPS per non perdersi e dei walkie-talkie tramite i quali ogni tanto parlavano con i registi. Capitava anche che i registi facessero avere ad alcuni di loro dei bigliettini per dargli delle linee guida su cosa fare quel giorno, ma per la maggior parte del tempo erano soli a camminare e campeggiare nel bosco. Un po’ per il contesto generale, un po’ perché pare che i registi fecero apposta a dare loro un po’ di cibo in meno ogni giorno che passava, un po’ perché di notte qualcuno della troupe faceva apposta dei rumori o muoveva la tenda per spaventare i ragazzi, la loro paura e il loro crescente fastidio per la situazione sembrava decisamente vero. In genere i tre ragazzi stavano sempre nel personaggio, ma avevano delle parole d’ordine che, se dette, permettevano di smettere di recitare.

Donahue, una delle attrici, ha raccontato a Vice:

Avevamo una parola che dovevamo usare quando volevamo uscire dalla parte, bulldozer. Una specie di safe word. Con la crew era quella, mentre tra noi attori usavamo “taco”. Un giorno, dopo aver scarpinato per ore sotto la pioggia, siamo arrivati alle tende indicate dal GPS, ma dentro ci abbiamo trovato un dito d’acqua. E lì abbiamo perso la pazienza. “Così è troppo. Siamo attori, non si può andare avanti così. Basta!” Così ci siamo attaccati alla radio e abbiamo iniziato a dire “Bulldozer, bulldozer, bulldozer!” Ma erano a cena, non ci hanno sentiti. Così siamo tornati indietro e abbiamo bussato alla prima casa che abbiamo trovato. Volevano che fossi io ad andare avanti, perché erano convinti che a quell’ora nessuno si sarebbe fidato di due uomini. Così ho bussato e ho esordito con: “Buonasera. Dovremmo essere nei boschi a far finta di perderci, ma non ci siamo. Abbiamo bisogno del telefono.” Quella notte abbiamo dormito in hotel.

I registi all’inizio volevano usare solo una ventina di minuti delle riprese dei ragazzi e fare il film con immagini e ricostruzioni di altro tipo. Videro però che era venuto tutto molto bene e dopo aver passato diversi giorni a visionare 19 ore di immagini, fecero il film solo con quelle immagini, spesso sfuocate, storte o traballanti.

Poi, prima e dopo la presentazione del film, arrivò il marketing. I registi diffusero in giro e su internet finti volantini che dicevano che i tre protagonisti erano spariti e in generale alimentarono in ogni modo la leggenda della strega di Blair e il fatto che le immagini del film fossero vere, come la storia che raccontava. Sul sito del film, molto ricco e aggiornato, c’erano, tra le altre cose, finti rapporti di polizia sugli eventi raccontati dal film. Persino IMDb, il più affidabile e grande sito di cinema al mondo, scrisse che i tre protagonisti del film erano «spariti, forse morti». I tre protagonisti hanno tra l’altro raccontato di aver avuto problemi con alcuni conoscenti, che li credettero morti, o comunque spariti.

I registi sono sempre stati molti ambigui sul loro approccio alla questione. Qualche anno fa Sanchez disse: «Non volevamo dire che era tutto vero, ma nemmeno volevamo far pensare che fosse tutto falso. Volevamo restare nel mezzo».

Diversi giornali hanno parlato di The Blair Witch Project come di uno dei primi fenomeni che si possono definire davvero “virali”, anche se uscì quando ancora Facebook non esisteva, o prima che venisse diffusa la bufala dei gattini in bottiglia. Nel 2000, quando il film arrivò in Italia, diversi mesi dopo l’uscita negli Stati Uniti, Repubblica ne parlò così:

È la prima, vera tecnobufala perfettamente riuscita. Il primo, vero esempio trionfante della potenza di Internet: è solo grazie al passaparola sulla Rete che un film girato da due perfetti sconosciuti con mezzi assolutamente artigianali, e costato poche decine di migliaia di dollari, ne ha incassati oltre duecento milioni (400 miliardi di lire, più o meno).

Perché alla radice del successo di The Blair Witch Project, o come vuole la traduzione italiana Il mistero della strega di Blair, da domani nelle nostre sale, c’è una semplice leggenda metropolitana mandata online, con tanto di sito-verità: il racconto della scomparsa, nel ’94, di quattro giovani cineasti in una foresta del Maryland, e di cui, qualche anno più tardi, è stato ritrovato un agghiacciante filmato in presa diretta.

Realtà? No, pura finzione, ma con tutte le apparenze della verosimiglianza.

Quindi: quanti ci credettero davvero? Non si può sapere. Qualcuno di certo ci credette davvero, molti fecero solo finta-di. Come ha scritto Calum Marsh sul National Post, «gli spettatori sono sempre più saggi di come certe storie li fanno sembrare». Marsh cita, a questo proposito, la storia secondo cui i primi spettatori dei primi film scappavano quando vedevano la ripresa di un treno in avvicinamento. Anche questa storia, spiega, è una bufala.

The Blair Witch Project ebbe successo perché riuscì a presentarsi come una storia che andava oltre il film, di cui parlare prima e dopo, su cui cercare informazioni per internet. Ma ebbe successo anche perché era fatto bene. Come scrisse Roger Ebert: «È un modo per ricordarci che ci fa paura quello che non vediamo. Il rumore nel buio è quasi sempre più spaventoso di quello che ha causato quel rumore nel buio. Lo sa ogni bambino. Solo che, sul momento, te lo dimentichi».

The Blair Witch Project ha poi un altro merito: la strega di Blair non si vede mai, nemmeno per un secondo. Si dice che avrebbero dovuto riprenderla (interpretata da una donna con i capelli arruffati e gli abiti stracciati) ma se ne dimenticarono. Non è dato sapere se sia vero.