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  • Giovedì 17 gennaio 2019

Cosa fecero a Liliana Segre

I fascisti la tolsero da scuola, i nazisti la portarono ad Auschwitz, gli altri si girarono dall'altra parte: lei lo racconta da decenni e in un nuovo libro

Un dettaglio della copertina di "Liliana Segre. Il mare nero dell'indifferenza", a cura di Giuseppe Civati e pubblicato dalla casa editrice People
Un dettaglio della copertina di "Liliana Segre. Il mare nero dell'indifferenza", a cura di Giuseppe Civati e pubblicato dalla casa editrice People

È passato quasi un anno da quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, che da bambina fu espulsa da scuola per le leggi razziali e poi deportata al campo di concentramento di Auschwitz e da decenni si impegna per conservare la memoria dell’Olocausto nelle nuove generazioni. Oggi esce un nuovo libro che parla della sua vita e del suo impegno per evitare che ciò che accadde negli anni Trenta e Quaranta si ripeta: si intitola Liliana Segre. Il mare nero dell’indifferenza e lo ha pubblicato People, la casa editrice fondata qualche mese fa da Pippo Civati (che è anche il curatore del volume) con Stefano Catone e Francesco Foti. Parte del ricavato delle vendite sarà destinata a finanziare la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano.

Il secondo capitolo spiega come il libro è stato costruito a partire da interviste e interventi di Segre e perché siano importanti. In particolare spiega cos’è il “mare nero dell’indifferenza” del titolo, quello che sperimentarono le persone di origine ebraica prima e durante la Seconda guerra mondiale e, secondo Segre, molte altre persone sperimentano o rischiano di sperimentare oggi.

***

Sono stata una bambina espulsa dalla scuola, sono stata una clandestina con i documenti falsi, sono stata una richiedente asilo poi respinta dalla Svizzera. Poi sono stata carcerata, ho conosciuto la deportazione e nella deportazione sono stata operaia-schiava, poi ho conosciuto di nuovo la libertà. Sono una testimone che incontra la gioventù, che è la speranza del nostro futuro.

Le parole che troverete in questo libro sono le parole di Liliana Segre e sono tratte dalle sue dichiarazioni, dai suoi interventi e dalle sue interviste: dal suo lungo, ininterrotto racconto pubblico. Parole citate direttamente o parafrasate, perché ciò che leggerete si mantenga il più fedele possibile al significato della sua testimonianza, un messaggio morale e politico di forte impatto e di indiscutibile valore1.

Riportare fedelmente il suo pensiero non è un puntiglio: corrisponde all’urgenza di non perdere la sua attenzione per le parole, alla premura di conservare i toni che lei ha scelto per descrivere ciò che non è possibile descrivere e per definire i pericoli che, ancora oggi, corre chi non si cura della democrazia, del rispetto delle leggi e delle persone. Come accade anche a chi si abbandona all’indifferenza, che apre le porte al disumano, e a chi corrompe le parole, le piega all’odio e alla violenza.

Parole che ritornano anche perché non se ne sono davvero mai andate via, ed è Segre stessa a rimarcarlo, per avvertirci del rischio che si corre, ogni giorno, in ogni conversazione. Il pericolo che l’odio trovi la strada per arrivare a tutti, per dilagare, per diventare un’abitudine. Un odio che si trasforma, attraverso il megafono della propaganda, in un filtro con cui selezionare le persone, per dividerle e per espellerne alcune dalla comunità.

Sono «parole d’odio che diventano dittatura e poi sterminio», come Segre ha dichiarato a Marco Damilano. L’importanza delle parole sta tutta in questa affermazione, perché – ammonisce – la democrazia finisce piano piano: «Ho la paura della perdita della democrazia, perché io so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian piano, nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui»2.

Segre ha spesso parlato di un filo nero che collega i momenti drammatici della sua storia, un filo lungo come i binari che da Milano l’hanno condotta ad Auschwitz. Ecco, il filo nero parte dalle parole contenute nelle leggi razziali, dall’inchiostro con cui sono scritte e stampate, dal loro abuso, dalla noncuranza con la quale vengono ascoltate e inevitabilmente recepite. Come se gli articoli e i commi delle leggi razziali, dei decreti promulgati a ripetizione nel breve volgere di pochi mesi nel 1938, fossero diventati le linee dei binari verso il lager, come se il piombo di quei caratteri fosse diventato quello dei convogli sui quali gli «stranieri in patria» furono costretti a partire.

E quelle parole che diventano legge portano a una storia che inizia nel 1938, nei giorni in cui Liliana Segre compiva otto anni. Otto anni «così semplici, così qualsiasi», dirà molto tempo dopo, quando incontrerà i ragazzi nelle scuole di tutta Italia. Una storia che Segre inizierà a raccontare nel 1990 e che ha portato la Shoah all’attenzione di migliaia di studenti («più di 200mila»), in una testimonianza dedicata a chi non è più tornato e non può raccontarlo. Dopo quarantacinque anni di silenzio, diventata nonna, decide che è venuto il momento di raccontare, per molte ragioni, legate alla propria storia personale, al lungo travaglio della sua elaborazione e all’urgenza di offrire la propria testimonianza davanti al mondo. Ad aiutarla a partire per il suo lungo viaggio nella memoria, ricorda, furono decisivi uno scambio di opinioni con Goti Bauer, deportata come lei ad Auschwitz, e una prima breve esperienza in casa di comuni amici3. Segre sceglie immediatamente come destinatari quelli che definisce suoi «nipoti ideali», bambine e bambini che hanno la stessa età che lei aveva quando fu costretta a scappare per essere poi arrestata e deportata: «Il desiderio di rivolgermi ai ragazzi è stato pressoché istantaneo»4.

«Sono 320 provvedimenti fino al 25 luglio 1943, e un altro centinaio dopo, di crescente crudeltà» ricorda Fabio Isman: «Un’incredibile e progressiva intensificazione di leggi, decreti, circolari e disposizioni sempre più limitative e vessatorie, che dura sette orribili anni: dal 20 aprile 1938 al 20 aprile 1945, quando mancavano una manciata di giorni alla fine della guerra»5.

In una conversazione con Gianni Barbacetto, Segre invita a ricordare: «Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli delle leggi razziali del 1938. Non solo quelli più noti, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano di andare a scuola, di far parte dell’esercito, di lavorare nell’amministrazione pubblica… Ci sono imposizioni minori, ma non per questo meno gravi. Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l’effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso»6.

«I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti. Le Leggi diventarono operative ancor prima che fossero pubblicate» scrive Lia Levi nel suo romanzo Questa sera è già domani7. Una sequela di norme discriminatorie, umilianti, precise e spietate, andò a colpire ogni aspetto della vita quotidiana. Norme subito accompagnate dalla solerzia di funzionari che le applicarono. Piccoli, orribili divieti, ignobili precetti che prepararono all’indicibile. Di quelle parole, di quelle leggi, la famiglia di Liliana Segre, come decine di migliaia di cittadini italiani di origine ebraica, fu vittima fino alla morte nelle camere a gas.
Prima espulsa, poi clandestina, poi richiedente asilo, quindi respinta, arrestata, deportata. Le stesse parole che Segre usa per parlare di se stessa, piccola, ritornano a tanti anni di distanza nell’attuale dibattito pubblico, spesso accompagnate dalla superficialità e dall’incuria verso ciò che significano e, soprattutto, verso ciò che comportano.

Per ripetere quegli errori bisogna negare, cancellare la memoria. E affidarsi a parole imprecise, confuse tra loro, usate in modo strumentale, affibbiate senza attenzione, con l’esclusiva finalità di discriminare e colpire. Parole con cui Liliana Segre ci invita, anzi, ci sollecita a fare i conti. Perché il circolo dell’indifferenza, che sprigiona la violenza e le consente di diffondersi, è sempre possibile. E le differenze che ci sono tra oggi e gli anni della sua infanzia non ci devono far dimenticare l’analogia più profonda, quella che mette in moto un meccanismo altrimenti impossibile anche soltanto da concepire.

Segre ribadisce perciò l’eccezionalità indiscutibile dell’Olocausto, con un particolare riferimento alla programmazione dello sterminio, al suo terribile meccanismo di morte e distruzione. Con altrettanta fermezza le preme descrivere gli aspetti che possono ritornare, anche con altre modalità, in ogni forma di discriminazione: è nostro compito individuare il pericolo per tempo, saper leggere le premesse del male che si diffonde. Il suo appello non riguarda solo il passato, è monito per l’oggi: «Le finestre dell’indifferenza si sono chiuse allora e non si sono più riaperte. L’indifferenza regna sovrana».

Al nostro primo incontro, mi ricorda: «Non faccio paragoni, non li voglio fare, li trovo sbagliati. Ma come noi eravamo senza nome, senza diritto ad avere un nome, così accade oggi. Allora si sapeva, si sapeva ai piani alti, ma furono altre le priorità, altre le scelte. Oggi lo sappiamo tutti, ma mentre il mare si chiude sui senza nome, nessuno interviene. Il nesso tra allora e oggi sta proprio nell’indifferenza».

L’indifferenza in ogni sua accezione: indifferenza verso chi soffre, verso le conseguenze delle nostre azioni, verso l’umanità e ciò che rappresenta, ma anche indifferenza come mancanza di empatia, di solidarietà, di intervento. Indifferenza che diventa disprezzo delle leggi e quindi delle persone.

«Il punto iniziale e la paura principale per me» mi ripete «è l’indifferenza. È più comoda, è una scelta che è una non scelta, è un richiamo fantastico, è una sirena irresistibile. Sono spariti i grandi ideali, le persone sono molto meno politicizzate. È più facile aderire a gruppi nei quali c’è qualcuno che decide al posto tuo. Questo vale per quasi tutti, salvo che per i pochi che si sono opposti, come al tempo della mia infanzia. Quei pochi sono sempre stati una minoranza assoluta». L’indifferenza è impunita: «E come si fa a prendersela con gli indifferenti? Ti possono sempre rispondere che non hanno fatto nulla»8.


1. Maria Piera Ceci, «Liliana Segre a Radio 24: “Rattrista che siano degli italiani che cercano di vincere le elezioni che parlino di razza. Spero sia un grosso lapsus”», Radio 24, 24 gennaio 2018.

2. Marco Damilano, «Liliana Segre: “La democrazia finisce piano piano”», L’Espresso, 5 giugno 2018.<

3. Anche Agata (Goti) Herskovits Bauer fu arrestata in provincia di Varese e poi detenuta a Varese, Como e a San Vittore (Milano) come Liliana Segre. A Cremenaga, sul confine svizzero, il 2 maggio 1944, fu tradita dagli stessi passatori che avevano accompagnato lei e la sua famiglia.

4. Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre, fra le ultime testimoni della Shoah, Milano, Edizioni Paoline 2018 (2005), pp. 76-78.

5. Fabio Isman, 1938, l’Italia razzista. I documenti della persecuzione contro gli ebrei, Bologna, il Mulino 2018, p. 13.

6. Gianni Barbacetto, «L’altra mia estate del 1938. L’orrore delle leggi razziali», intervista a Liliana Segre, il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2018.

7. Lia Levi, Questa sera è già domani, Roma, e/o 2018, p. 63.

8. Liliana Segre, incontro a «Più libri più liberi», Roma, 9 dicembre 2018.

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