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  • Lunedì 19 novembre 2018

Si può criticare Burioni?

Un discorso all'assemblea del PD ha riaperto la discussione sul metodo di divulgazione scientifica del più famoso virologo italiano, e su cosa dovrebbe fare invece un partito

(ANSA/FLAVIO LO SCALZO)
(ANSA/FLAVIO LO SCALZO)

Negli ultimi giorni si è parlato molto dello scontro tra un candidato alle primarie del Partito Democratico, Dario Corallo, e il medico e scrittore Roberto Burioni. Corallo, nel corso del suo intervento all’assemblea nazionale del PD, ha accusato i dirigenti del partito di avere un atteggiamento arrogante come «dei Burioni qualsiasi»; Burioni si è risentito e ha risposto in maniera stizzita sui suoi profili social. Poco dopo sono arrivati a difenderlo numerosi parlamentari e dirigenti del PD, sia quelli cosiddetti “renziani” a cui Corallo si riferiva con le sue critiche, ma anche figure della sinistra del partito, come il candidato alle primarie Nicola Zingaretti.

Dario Corallo – che ha trent’anni, è un dirigente dei Giovani Democratici e il meno noto dei candidati alle primarie – ha spiegato successivamente con un post su Facebook che non intendeva dare torto alle cose che Burioni dice sui vaccini, bensì intendeva dire che il suo metodo aggressivo di divulgazione e persuasione non dovrebbe essere utilizzato dal partito: «Non sono sicuro che insultare sia il modo migliore per fare divulgazione, quanto più credo sia importante cercare di capire cosa veramente l’altro intende con le proprie parole. Questo atteggiamento è ancora più grave se il PD lo fa non su verità scientifiche, ma su posizioni politiche spesso di destra spacciate per verità assolute (tipo deficit o Unione Europea)».

L’idea alla base di molte critiche ricevute da Corallo è invece che Roberto Burioni, un virologo di lunga esperienza che ha dedicato gli ultimi anni a un’intensa attività divulgativa su social network e altri media, non debba essere criticato, perché attaccarlo significa implicitamente indebolire gli argomenti che Burioni porta avanti per difendere l’efficacia dei vaccini e smentire le notizie false che circolano su questo e altri argomenti scientifici.

Altri però notano che Burioni non è un divulgatore qualsiasi: ha uno stile peculiare e immediatamente riconoscibile. Una delle sue cifre principali, che ha contribuito a renderlo noto, è lo sberleffo dell’avversario. Burioni rivendica di portare avanti una crociata contro i “somari” e gli “ignoranti”, accuse che rivolge spesso alle persone che commentano i suoi profili social, a cui risponde utilizzando espressioni colorite, battute di spirito e altri calembour. Il “metodo Burioni” è divenuto un modo per sintetizzare il suo stile aggressivo, con tanto di pagine Facebook celebrative.

Dopo lo scontro con Corallo, al di là delle polemiche interne al Partito Democratico, si è tornati a parlare dell’efficacia di questo metodo: non quindi del fatto che Burioni dica cose giuste o no, ma del fatto che sia il modo migliore per comunicare la scienza, per persuadere le persone che credono a nozioni sbagliate, per avvicinarle a temi complessi.

Burioni difende il suo ricorso all’attacco di chi non crede alla medicina in due modi. Innanzitutto rivendicando il suo successo come autore di libri e quello dei suoi profili social, letti da milioni di persone, prova secondo lui autoevidente del suo successo nel persuadere le persone. Inoltre, Burioni dice che i suoi attacchi sono una forma di difesa. In una recente intervista a Panorama, per esempio, ha spiegato: «Sono costretto a ridicolizzare quelli che dicono che il tumore si cura con la cipolla, il rafano. Altro che medicina! Viene voglia di fare un’insalata». Un’altra difesa è quella che ha scritto su Twitter Matteo Bordone, popolare giornalista e conduttore radiofonico: «Quando Burioni prende in giro gli antivaccinisti, lo fa perché dicono balle, è secoli che lo insultano, e perché MUORE LA GENTE se si diffondono quelle idee».
Ma secondo Luca Sofri, peraltro direttore del Post, la questione non è quella:

«È che non diventa migliore, la gente, insultandola. Né si vergogna, né ti dà più retta (suoni un po’ stronzo anche tu). Devi inventarti qualcos’altro».

In un suo commento scritto alla fine del 2016, invece, Burioni aveva fornito una spiegazione più articolata del suo “metodo”. La comunicazione scientifica, aveva scritto, non può che essere unidirezionale: parte dall’esperto e arriva alle persone. Non può esserci orizzontalità, perché soltanto gli esperti possiedono gli strumenti per spiegare questioni complesse. Il compito degli esperti è spiegare chiaramente utilizzando dati. Quello delle persone è ascoltarli e di verificare le fonti citate. Di fronte a numeri e fatti, è il punto di Burioni, non c’è spazio per dubbi o incertezze.

Sberleffi e prese in giro, per quanto distintive del “metodo Burioni”, sono quindi solo un aspetto esteriore delle idee più profonde del medico: la mancanza di conoscenza scientifica nella società deriva essenzialmente dalla scarsa diffusione di nozioni scientifiche nella società stessa. Il problema è che le persone non sanno (sono “somari” che “credono alle bufale”, come direbbe Burioni): per rimediare, le persone in posizione di autorità grazie alla loro superiore conoscenza devono diffondere le nozioni corrette, anche castigando a parole chi si rifiuta di crederci se si dovesse rivelare necessario.

Non è un’idea originale di Burioni, ma è uno dei modelli che sono stati a lungo utilizzati da scienziati e politici di tutto il mondo per cercare di aumentare la diffusione di conoscenza scientifica. È stato chiamato il “deficit model”, poiché parte dalla premessa che il problema è un “deficit” di conoscenze scientifiche che deve essere ridotto. Un altro modo di definirlo è approccio Public understand of science (PUS). Il giornalista Antonio Scalari lo aveva descritto così in un articolo sul sito Valigia Blu:

Per i fautori del PUS, l’analfabetismo scientifico costituiva l’ostacolo principale nel percorso di avvicinamento del pubblico alla scienza. Colmare il deficit di nozioni avrebbe contribuito anche a suscitare una maggiore stima nei confronti della scienza e ad accettare le innovazioni tecnologiche prodotte grazie alla ricerca (per questo molti definiscono il PUS anche deficit model). In sostanza: io ti spiego i vaccini o gli Ogm e tu, cittadino comune, non solo conoscerai la scienza dei vaccini o degli Ogm, ma accetterai e sosterrai anche l’impiego di queste applicazioni.

Nato a metà degli anni Ottanta, in tempi recenti questo approccio ha ricevuto critiche crescenti. Un numero sempre più alto di scienziati ha iniziato ad avere l’impressione che i problemi fossero molto più complessi e che a mancare non fossero semplicemente le nozioni. Il sociologo della scienza Massimiano Bucchi è, in Italia, uno dei critici di questo approccio. In un’intervista sui vaccini pubblicata nel giugno dell’anno scorso aveva notato che:

Dai dati dell’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società sui vaccini emerge chiaramente che l’ostilità ai vaccini non è una funzione dell’ignoranza o della disinformazione. Spesso infatti su posizioni di parziale scetticismo troviamo persone più scolarizzate e informate della media, anche dal punto di vista scientifico. Gli atteggiamenti verso i vaccini vanno visti nel quadro di un profondo cambiamento del rapporto con la salute, che sempre più viene vista come una prerogativa e uno spazio di espressione della libertà individuale.

Insomma, non tutti sono d’accordo che il problema sia sempre la sola e semplice ignoranza dei fatti: a volte lo scetticismo deriva dalla mancanza di fiducia verso le autorità, dalla volontà di mantenere un proprio spazio di autonomia critica o da altri fattori ancora più profondi e difficili da esplorare. Anche per queste ragioni negli ultimi anni si è diffuso un nuovo atteggiamento tra gli scienziati, il cosiddetto Public Engagement with Science and Technology, cioè il “coinvolgimento pubblico con la scienza e la tecnologia”, un approccio che fin dal nome fa capire che al centro viene messo un rapporto orizzontale tra pubblico e scienziati.

Se è molto semplice dire che la comunicazione scientifica debba essere orizzontale e tenere conto dei dubbi delle persone, è molto più difficile tradurre questo concetto in pratica. Tra il 2015 e il 2016 la National Academies of Sciences, Engineering and Medicine, la più prestigiosa istituzione scientifica americana, ha riunito decine di esperti per fare il punto sui metodi migliori per comunicare la scienza. Il rapporto uscito dalla conferenza è stato pubblicato all’inizio del 2017 e commentato sul sito The Conversation da due dei suoi autori, Andrew Maynard e Dietram A. Scheufele.

I risultati della ricerca sono, come spesso succede nelle scienze sociali, ambigui. «Un’efficace comunicazione scientifica è particolarmente complessa e per nulla facile da studiare. Dipende molto da cosa viene comunicato, dalla sua importanza per coloro che partecipano alla comunicazione e dalle dinamiche sociali e mediatiche che gravitano intorno alla questione che viene discussa», hanno scritto i due scienziati nel loro commento: «A causa di questa complessità, la buona comunicazione scientifica è più un’arte che una scienza».

Anche se questa affermazione rischia di lasciare molti delusi, Maynard e Scheufele sostengono che comunque lo studio è arrivato ad alcune conclusioni. Una è che ci sono prove sempre più numerose che il “deficit model” semplicemente non funziona. Riempire le persone di fatti e nozioni non necessariamente le porta a cambiare idea su un argomento. Questo accade non perché le persone sono ignoranti o stupide, ma perché tendono a considerare alcune idee come più o meno accettabili in base a fattori che con i dati e le statistiche non hanno nulla a che fare.

I due scienziati fanno l’esempio del rigetto che moltissime persone hanno per gli OGM e che risulta spesso inscalfibile anche dalle prove più convincenti. Il problema, in questi casi, non è che alle persone manchino gli elementi che dimostrano loro che gli alimenti OGM sono sicuri, ma che il tema dei cibi modificati geneticamente dagli scienziati si ricollega nel subconscio con idee e concetti che tutti più o meno condividiamo: per esempio che è pericoloso quando gli scienziati “giocano a fare Dio” e creano esseri “innaturali” che potrebbero causare conseguenze non previste (non a caso i cibi OGM vengono definiti dai loro critici “Frankenfood”, il che rende il collegamento subconscio immediatamente evidente).

Come spiegare efficacemente che non c’è alcun rischio che la soia OGM si rivolti contro di noi rimane quindi una questione aperta al dibattito. In una sezione del sito della rivista Nature dove vengono raccolti consigli per gli scienziati, la studiosa di DNA Eileen Parkes consiglia ai suoi colleghi di non liquidare i timori delle persone basandosi solo su «grafici e percentuali», ma di «essere empatici» e «riconoscere il fondamento delle preoccupazioni delle persone». La Union of concerned scientists, un gruppo di accademici americani molto impegnati nello studio dei rapporti tra scienza e società, ha messo insieme una guida pratica per punti che comprende una sezione sui social media, dove tra gli altri consigli si legge: «Rispondete sempre in maniera professionale e non mentre siete arrabbiati».

Non sono molti a rivendicare come migliore e più efficace un equivalente del “metodo Burioni” e anzi, la cosa che più gli si avvicina, il “deficit model”, è spesso criticato perché inefficace e antiquato. Ma gli studi sulla comunicazione scientifica non sono ancora arrivati a conclusioni definitive. Spiegare la scienza rimane un’arte e, per quanti dubbi possano esserci sull’efficacia del suo metodo, nessuno può ancora accusare Burioni di essere un “somaro” per aver scelto quello piuttosto che un altro. La questione su quale metodo si debba utilizzare in politica per persuadere le persone delle proprie idee – il punto più generale sostenuto da Corallo tirando in mezzo Burioni – rimane allo stesso modo apertissima, specie perché gli argomenti e le opinioni della politica sono molto meno assoluti e più contestabili degli argomenti della ricerca scientifica e delle sue conclusioni.