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  • Martedì 13 novembre 2018

In El Salvador un’altra donna rischia il carcere per la terribile legge sull’aborto

Imelda Cortez è agli arresti da mesi accusata di aver provato ad abortire dopo essere stata stuprata dal suo patrigno: lunedì è iniziato il processo

La marcia delle donne a San Salvador per l'aborto libero e sicuro, 28 settembre 2017 (MARVIN RECINOS/AFP/Getty Images)
La marcia delle donne a San Salvador per l'aborto libero e sicuro, 28 settembre 2017 (MARVIN RECINOS/AFP/Getty Images)

Negli ultimi giorni, sui giornali internazionali sta circolando molto la storia di Imelda Cortez, una ragazza di El Salvador di 20 anni, che è rimasta incinta dopo essere stata violentata dal patrigno e che ora rischia vent’anni di prigione perché accusata di aver cercato di abortire: il suo processo per omicidio aggravato è iniziato ieri, lunedì 12 novembre, e la sentenza è attesa tra una settimana.

El Salvador è uno dei paesi con le leggi più restrittive al mondo in tema di diritti delle donne, e dove l’interruzione di gravidanza è illegale e completamente vietata in qualsiasi caso: la legge obbliga tutte le donne, anche se minorenni, anche se stuprate, anche se in gravi condizioni di salute, a portare a termine la gravidanza a qualsiasi costo. Il codice penale prevede la condanna da due a otto anni di reclusione per le donne che abortiscono, ma in realtà i giudici considerano spesso l’interruzione di gravidanza come un omicidio aggravato punito dunque con pene che vanno dai 30 ai 50 anni di prigione: anche nei casi di aborto spontaneo.

Imelda Cortez vive nel comune di Jiquilisco, nel dipartimento di Usulután. Fin da quando aveva 12 anni è stata maltrattata e abusata sessualmente dal patrigno ora settantenne. Nel 2016, quando si stava preparando per l’esame di maturità, rimase incinta. Il 17 aprile del 2017, mentre si trovava in bagno, provò un forte dolore e senza sapere perché cominciò ad avere abbondanti perdite di sangue. Cortez fu portata all’ospedale di Jiquilisco dalla madre e partorì: la bambina stava bene, ma il medico dell’ospedale, sospettando un tentativo di aborto, avvertì la polizia. Dopo una settimana trascorsa in ospedale, Imelda Cortez fu arrestata e si trova ancora in prigione, in attesa di processo. Contro la sua volontà, non le è stato permesso di tenere la figlia. Il patrigno che l’ha stuprata per otto anni non è stato accusato di nulla.

Per Imelda Corteza c’è stata una grande mobilitazione nazionale e una petizione in suo sostegno ha raccolto finora più di 51 mila firme. Una delle avvocate che la difendono ha detto che «lo stato ha ripetutamente violato i suoi diritti». L’udienza preliminare è stata sospesa sette volte e quando si è svolta il giudice ha deciso di proseguire con il processo senza considerare la violenza sessuale subita dalla donna, accusandola di essersi inventata l’abuso per giustificare il successivo “crimine”. Il test del DNA ha però confermato la paternità della bambina nata dallo stupro e le valutazioni psicologiche hanno rilevato deficit cognitivi ed emotivi coerenti con abusi e traumi. A Cortez non è stata concessa alcuna misura sostitutiva al carcere. Mentre la donna era in ospedale, poi, il patrigno le ha fatto visita, minacciando di uccidere lei, i suoi fratelli e sua madre se avesse denunciato l’abuso. Questa circostanza è stata raccontata da un’altra paziente che ha assistito alla scena e che ha avvertito un’infermiera, la quale ha a sua volta chiamato la polizia.

Secondo le femministe dell’Agrupación Ciudadana de la Despenalización del Aborto (un’associazione di El Salvador per la depenalizzazione dell’aborto), tra il 2000 e il 2011 nel paese sono state processate 129 donne per crimini legati a un’interruzione di gravidanza e 49 di loro sono state condannate (26 per omicidio). Secondo l’organizzazione «ogni donna che si presenta in un pronto soccorso per delle complicazioni legate a una gravidanza viene considerata una criminale» e in molti casi sono gli stessi operatori sanitari a presentare una denuncia alla polizia. Le conseguenze della criminalizzazione dell’aborto non hanno a che fare solo con la prigione: i dati del ministero della Salute di El Salvador, riferiti agli anni che vanno dal 2011 al 2015, parlano di un centinaio di morti legate alle complicazioni di una gravidanza che non si vuole interrompere e di quasi 20 mila aborti clandestini praticati tra il 2005 e il 2008 con metodi molto rudimentali e pericolosi. Il divieto di aborto si estende anche ai casi di bambine che sono state vittime di abusi sessuali. I dati del 2015 dicono che le gravidanze di bambine tra 10 e 14 anni sono state 1.445.

Quest’anno cinque donne con storie simili a quella di Cortez sono state rilasciate per commutazione della pena: tra loro Maira Verónica Figueroa Marroquín che aveva passato 15 anni in una prigione femminile perché nel 2003 era stata condannata per omicidio aggravato per un aborto spontaneo e Teodora del Carmen Vásquez, rilasciata dopo circa 11 anni in carcere e sempre per un aborto spontaneo.

A El Salvador, ha spiegato Vásquez che nel frattempo è diventata molto attiva nella lotta per i diritti delle donne, «le donne povere vengono abbandonate dal sistema sanitario pubblico, che invece di aiutarle le denuncia in caso di complicazioni durante la gravidanza. Una donna che ha i soldi e che vuole abortire cerca una clinica (privata, ndr) e lo fa senza problemi. Ma una donna povera che fa la stessa cosa (in un ospedale, ndr) finisce in carcere». Vásquez pretende una maggiore «uguaglianza: siamo tutte donne e non siamo diverse». E ancora: «Abbiamo bisogno di cambiare la legge perché quello che è successo a me non accada mai più. Non voglio che altre donne siano imprigionate, non se lo meritano». Nell’ottobre del 2016 era stata presentata una proposta di legge per consentire l’aborto solo in alcuni casi, ma il testo si trova ancora in commissione.