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  • Sabato 4 agosto 2018

Perché si parla di Alan Friedman e dell’Ucraina

Il New York Times ha ricostruito cosa sappiamo della collaborazione tra il famoso opinionista e Paul Manafort per una campagna a sostegno del presidente ucraino Janukovyč (e c'entra anche Prodi)

Alan Friedman e Romano Prodi durante una presentazione a Bologna nel 2017. (ANSA/GIORGIO BENVENUTI)
Alan Friedman e Romano Prodi durante una presentazione a Bologna nel 2017. (ANSA/GIORGIO BENVENUTI)

Un articolo del New York Times ha aggiunto alcuni dettagli a una storia in parte già nota che riguarda Alan Friedman, noto giornalista e personaggio televisivo americano che da anni è uno dei più richiesti opinionisti in Italia. Da diversi anni Friedman, oltre alla sua attività da giornalista, lavora come consulente politico e di comunicazione, svolgendo un’attività parallela e ciononostante molto legata al suo lavoro da opinionista. A partire dal 2011 Friedman lavorò con Paul Manafort, ex capo del comitato elettorale di Donald Trump, per quella che il dipartimento di Giustizia americano sospetta essere stata un’operazione di lobbying negli Stati Uniti e in Europa a sostegno di Viktor Janukovyč, ex presidente ucraino molto vicino a Vladimir Putin, deposto dopo le proteste in Ucraina del 2014.

Manafort è attualmente in carcere su richiesta di Robert S. Mueller, il procuratore speciale che sta conducendo l’indagine sull’ingerenza russa nelle ultime elezioni presidenziali statunitensi e sulle collusioni tra il comitato elettorale di Trump e la Russia. I reati contestati a Manafort non riguardano però né Trump né la Russia, ma sono precedenti. Anche il coinvolgimento di Friedman, quindi, non ha niente a che vedere con Trump e la Russia, e inoltre non gli è contestato nessun reato. Il suo nome compare però nei documenti depositati a giugno da Mueller sul caso che riguarda Manafort, documenti che il corrispondente dall’Italia del New York Times Jason Horowitz ha visto e ha raccontato. Già alcuni mesi fa il coinvolgimento di Friedman nelle attività pro-Ucraina di Manafort era emerso anche grazie a un’inchiesta del Guardian.

Negli anni in questione, quindi tra il 2011 e il 2014, né Manafort né Friedman erano ufficialmente registrati come lobbisti per conto di paesi stranieri negli Stati Uniti, una figura professionale riconosciuta e regolamentata. Manafort, avendo secondo l’accusa fatto lobbying per Janukovyč senza essere registrato, è accusato di aver violato questa legge, pensata per impedire l’interferenza di agenti stranieri nella politica americana. Sarà quindi processato a settembre, mentre questa settimana è cominciato un altro processo a suo carico, per evasione fiscale e truffa, sempre legato al suo lavoro per l’Ucraina.

Al Guardian, Friedman aveva detto che non era registrato come lobbista negli Stati Uniti «perché non lo sono mai stato. Mi occupavo di comunicazione». Dopo l’articolo del New York Times non sono arrivate ulteriori repliche da parte di Friedman; il Post ha provato a contattarlo, senza però ottenere risposte.

In un certo senso è stato proprio Friedman a far andare in carcere Manafort. L’ex consigliere di Trump aveva infatti ottenuto la libertà su cauzione, che gli è stata però revocata lo scorso giugno quando è stato incriminato per un presunto tentativo di corrompere un testimone. Quel testimone era proprio Friedman, ha rivelato Mueller lo scorso giugno. A febbraio, quando venne fuori per la prima volta la storia del gruppo Hapsburg (il nome che presero i politici coinvolti nel progetto), Manafort tentò in tutti i modi di contattarlo per dargli «un aggiornamento su Hapsburg», ha spiegato l’avvocato di Friedman. Manafort gli mandò un messaggio su WhatsApp che, ha detto lo stesso Friedman agli investigatori, serviva secondo lui a corromperlo per convincerlo a mentire al processo. Questa versione è stata accolta dal giudice che ha deciso l’incarcerazione di Manafort.

Friedman ha 62 anni e crebbe a New York, dove studiò alla New York University prima di specializzarsi a Londra e Washington. Negli anni Ottanta fu corrispondente del Financial Times dall’Italia, e negli anni Novanta fu prima corrispondente da New York, e poi editorialista di economia per l’International Herald Tribune. Fu in questo periodo che cominciò a farsi apprezzare per il suo carisma e per le sue doti da opinionista, ma anche per le sue abilità imprenditoriali, che lo portarono ad affiancare incarichi di consulenza e comunicazione a quelli di giornalista. Negli anni Duemila cominciò a essere una presenza ricorrente sulla televisione italiana, dove diventò – e dove è tuttora, in misura un po’ minore – quello che Horowitz ha definito un «americano professionista». Nel 2011 l’Independent scoprì che il governo della Malesia aveva pagato milioni di dollari alla società di Friedman per alcuni programmi televisivi andati in onda su BBC. La rete britannica non ne sapeva nulla, e sospese il programma.

Il New York Times scrive che il 25 giugno 2011 Friedman contattò Manafort per proporgli una strategia per sostenere Janukovyč: firmarono un contratto di quasi 1,2 milioni di euro – depositati in un conto di Friedman alle Isole Vergini Britanniche collegato a una banca di Zurigo, secondo Horowitz – per quella che il New York Times definisce una «campagna di lobbying diretta ai media, ai decision makers, ai think tank e ai leader politici ed economici di Europa e Stati Uniti». Nel 2012, dicono i documenti depositati da Mueller, Friedman aveva cominciato «a mettere insieme un piccolo nucleo di sostenitori terzi europei di alto profilo» per conto dell’Ucraina. Questo gruppo prese il nome di Hapsburg group.

In alcune successive comunicazioni con Manafort, Friedman lo informò che l’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer avrebbe stanziato dei fondi e partecipato al progetto. In un’altra email, Friedman scrisse a Manafort che un membro del cosiddetto Hapsburg group voleva parlare con un senatore americano per «ritardare, o ammorbidire, o bloccare» una risoluzione che condannava l’incarcerazione di un oppositore politico da parte di Janukovyč.

In un documento citato dal Guardian, Friedman propose un piano per screditare Julija Tymošenko, ex prima ministra ucraina e avversaria politica di Janukovyč, imprigionata per abuso di potere per diversi anni prima della liberazione dopo le proteste del 2014. Il progetto, secondo il Guardian, prevedeva video anonimi da diffondere sui social network che la dipingevano come spietata e manipolatrice, e che la paragonavano all’ex presidente russo Boris Yeltsin, noto alcolista. Ma furono previsti anche contenuti su Twitter, siti, email e modifiche alla pagina Wikipedia. Friedman, hanno detto al Guardian fonti ucraine vicine all’operazione, riceveva i suoi pagamenti attraverso la sua società FBC Media e teneva un basso profilo, senza avere rapporti diretti con Janukovyč.

Friedman confermò al Guardian di aver lavorato per il governo ucraino per «un progetto di relazioni pubbliche e di indagine», smentendo però che fosse segreto: «avevamo dei responsabili delle comunicazioni che proponevano interviste e articoli ai giornali molto apertamente». Friedman ha poi detto di aver dichiarato i compensi ricevuti.

Secondo il New York Times, a essere coinvolto nell’operazione di Manafort sull’Ucraina fu anche l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Nel 2014, Friedman gli scrisse per chiedergli di rivedere un editoriale che sarebbe stato poi pubblicato nella sezione degli op-ed – cioè degli articoli scritti da membri esterni alla redazione – del New York Times. L’articolo, ancora disponibile, sosteneva che Janukovyč avrebbe potuto salvare l’Ucraina e che l’Europa non avrebbe dovuto isolarlo. Prodi contattò un collaboratore di Manafort per una modifica «nell’ultima frase». Il New York Times dice che l’intermediario di Prodi fu Glenn Selig, che nel 2017 è diventato portavoce di Rick Gates, socio e sostanzialmente braccio destro di Manafort.

Intervistato dal New York Times, Prodi ha detto che fu lui a scrivere l’articolo: «forse ci siamo confrontati sul linguaggio, ma l’articolo è mio». Prodi ha detto di essere stato pagato attraverso Gusenbauer, e che pensò che il progetto fosse finanziato da alcuni uomini d’affari europei, e non dall’Ucraina. Ha ribadito di non aver avuto un vero rapporto con Friedman e di non aver ricevuto soldi da lui: «Se mi chiedete se Alan Friedman ha parlato di un gruppo di lobbisti o cose simili, la risposta è mai. Mai, mai, mai» ha detto, aggiungendo che non sapeva «da che parte lavorava Alan».

Secondo gli investigatori, Manafort ha cercato di contattare Friedman e altri membri dell’Hapsburg group per chiedere loro di dire, se interrogati, di aver fatto lobbying soltanto in Europa (e quindi di non aver violato le leggi statunitensi). Il 24 febbraio, il giorno che Manafort chiamò Friedman, a Prodi fu chiesto da un giornalista del New York Times se avesse mai parlato con funzionari governativi americani. Lui rispose di no. Lo stesso giorno uscirono notizie su un suo viaggio a Washington, e Prodi richiamò il giornalista per dire di essersene dimenticato. Prodi disse di non sapere niente dell’Hapsburg group, spiegando di aver lavorato «per riunire l’Ucraina» per conto di Gusenbauer, che coordinò un gruppo di politici progressisti e liberali in un tentativo di avvicinare l’Unione Europea all’Ucraina.

Il New York Times ha chiesto conto a Friedman di questa storia a Firenze, durante una presentazione del suo ultimo libro. «Non c’è niente da scoprire. Non ho niente per voi. Come collega, starei facendo esattamente quello che state facendo voi».