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  • Martedì 17 luglio 2018

Trump dice che con Putin si è impappinato

Dopo aver ricevuto critiche feroci, anche dal suo partito, ha detto che si è espresso male e che in realtà la Russia ha effettivamente interferito nelle elezioni del 2016

Donald Trump, 17 luglio 2018 (AP Photo/Andrew Harnik)
Donald Trump, 17 luglio 2018 (AP Photo/Andrew Harnik)

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha diffuso una precisazione molto inusuale a 24 ore dalla sua conferenza stampa con Vladimir Putin di lunedì 16 luglio a Helsinki, che ribalta il contenuto e il significato delle sue parole e – per la prima volta – gli ha fatto dire che la Russia ha effettivamente interferito nella campagna elettorale americana del 2016.

La conferenza stampa di lunedì era stata giudicata clamorosa dalla stampa statunitense e internazionale – e criticatissima anche dal Partito Repubblicano – perché Trump aveva di fatto scagionato Putin da ogni accusa, dall’annessione della Crimea all’invasione dell’Ucraina, fino all’ormai conclamata interferenza nella campagna elettorale statunitense del 2016. A un certo punto un giornalista aveva chiesto a Trump se si fidava più dell’intelligence statunitense – che in modo unanime, anche con i dirigenti scelti da Trump, sostiene che la Russia abbia attaccato gli Stati Uniti nel 2016 e che gli attacchi informatici stiano proseguendo – oppure di Vladimir Putin. Trump aveva dato una risposta sgangherata, andando fuori tema, citando alcune teorie del complotto e facendo capire in ultima istanza che si fida effettivamente più di Putin che dell’intelligence statunitense. Oggi però ha parzialmente ritrattato, sostenendo di essersi impappinato.

La risposta originale di Trump alla domanda era stata questa (la trascrizione in inglese è qui):

«Fatemi dire intanto che ci sono due correnti di pensiero. Alcuni si chiedono perché l’FBI non sequestrò mai il server. Perché non sequestrarono il server? Perché qualcuno disse all’FBI di lasciar perdere il Partito Democratico? Me lo chiedo anche io. Lo chiedo da mesi e mesi, l’ho scritto su Twitter e sui social media. Dov’è il server? Voglio saperlo, dove il server? E cosa dice il server?

Detto questo, tutto quello che io posso fare è chiedere. Il mio staff è venuto da me – Dan Coats, il capo dell’intelligence, e qualcun altro – e mi hanno detto che è stata la Russia. Qui c’è Vladimir Putin: dice che non è stata la Russia. Io dico questo: non vedo nessuna ragione perché sia stata la Russia, ma voglio davvero scoprire dov’è il server»

Oggi – dopo una giornata intera di critiche e malumori anche dai politici che gli sono più fedeli, e gigantesche stroncature sulla stampa – Trump ha detto che non intendeva dire quello che ha detto, e che in realtà si è mangiato le parole. Rivolgendosi alla stampa dallo Studio Ovale, ha detto che alla frase «non vedo nessuna ragione perché sia stata la Russia» mancava un «non». Intendeva dire: «non vedo nessuna ragione perché non sia stata la Russia». Era «una doppia negazione», ha sostenuto Trump.

Subito dopo, Trump ha detto che «accetto la conclusione della nostra intelligence sul fatto che l’interferenza russa nelle elezioni del 2016 ci sia effettivamente stata»; ma immediatamente ha aggiunto: «Però potrebbe anche essere stato qualcun altro. C’è molta gente lì fuori che avrebbe potuto farlo».

Ci sono ottime ragioni per dubitare della sincerità di Trump, che da quando è stato eletto non ha perso una sola occasione per dichiararsi come minimo molto scettico sulle responsabilità della Russia negli attacchi informatici contro il Partito Democratico (a un certo punto disse senza prove che forse era stata la Cina, o un hacker indipendente), e anche nella conferenza stampa con Putin aveva espresso lo stesso concetto usando altre parole, per esempio sostenendo che l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sia una «caccia alle streghe». La gran parte dei giornalisti e degli analisti politici statunitensi ha commentato la correzione di Trump con incredulità, ipotizzando che sia stato un tentativo di frenare le critiche o dare un argomento ai suoi sostenitori al Congresso che sono in difficoltà in vista delle elezioni di metà mandato di novembre.