Ma cosa significa “Aventino”?

Storia e significato di un'espressione gergale della politica italiana che ciclicamente torna attuale, come in questi giorni

(ANSA-DPA)
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Negli ultimi giorni diversi dirigenti del Partito Democratico – ma non quelli considerati più vicini all’ex segretario Matteo Renzi – hanno detto che per il partito sarebbe sbagliato “ritirarsi sull’Aventino”. È una specie di espressione in codice del linguaggio politico italiano, una delle tante: in questo contesto, significa in sostanza che chi la pronuncia sarebbe favorevole a uscire dall’attuale situazione politica, in cui non esiste una chiara maggioranza parlamentare, sostenendo un governo appoggiato da tutti i partiti, soprattutto se la richiesta arrivasse dal presidente della Repubblica. Ma vediamo meglio perché si usa questa espressione.

“Ritirarsi sull’Aventino” nel gergo della politica italiana significa isolarsi dalle altre forze politiche e non accettare compromessi in nome della difesa della propria posizione ideologica. Non farlo, invece, indica una propensione all’accordo e alla mediazione, in genere motivata dalla necessità di un bene superiore. “Ritirarsi sull’Aventino” è un’espressione che è circolata ciclicamente nella politica italiana, soprattutto negli ultimi due decenni. L’origine di questa inflazionata espressione ha una storia affascinante, che si perde nella leggenda della Repubblica romana e passa per il momento più delicato della storia del ventennio fascista.

L’Aventino è uno dei sette colli di Roma, quello che si trova a sud del centro, tra il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. Oggi è occupato in gran parte da un lussuoso quartiere residenziale, mentre ai tempi degli antichi romani era abitato dai plebei, gli abitanti della città che non appartenevano alle storiche famiglie patrizie che facevano risalire la loro origine ai fondatori della città. Secondo gli storici di Roma antica, gli abitanti dell’Aventino, in gran parte artigiani e commercianti, usavano come principale strumento di lotta politica una primitiva forma di sciopero chiamata la “secessio plebis”, o “secessione della plebe”.

Quando i patrizi utilizzavano il loro potere in una maniera che i plebei consideravano inaccettabile, questi ultimi organizzavano una rivolta non violenta: si ritiravano sul Mons Sacer, poco fuori Roma, oppure sull’Aventino stesso, rifiutandosi di partecipare alla vita politica ed economica della città almeno fino a quando le loro domande non venivano accettate. Gli storici ricordano numerose “secessioni” nei primi secoli di vita della Repubblica, tra il Quinto e il Terzo secolo avanti Cristo, molte delle quali terminarono con la vittoria dei plebei. Secondo la leggenda, per esempio, fu grazie alla prima “secessione” che i plebei ottennero la creazione dei Tribuni della plebe, un’influente carica politica a loro esclusivamente riservata.

Tutt’altro esito ebbe invece l’altro e più recente “Aventino”, quello che i deputati dell’opposizione misero in atto con il governo fascista di Benito Mussolini. L’esito di questo moderno Aventino, secondo numerosi contemporanei e per molti storici moderni, aprì la strada alla definitiva trasformazione del fascismo in regime dittatoriale. La “secessione” iniziò nel giugno del 1924, quando circa 130 deputati dell’opposizione rifiutarono di tornare nell’aula della Camera e partecipare ai suoi lavori.

Poche settimane prima il deputato socialista Giacomo Matteotti era stato rapito da quella che tutti sospettavano essere una squadraccia fascista. Mussolini, che era capo del governo da due anni, era in un momento delicato: i principali giornali avevano tutti preso posizioni critiche nei confronti di un governo fascista che era stato nominato dal Re per mettere ordine nel paese, ma che sembrava in quel momento ostaggio dei suoi elementi più radicali.

Anche la maggioranza parlamentare che sosteneva il governo sembrava in difficoltà. Grazie a brogli e intimidazioni il “listone nazionale”, formato in gran parte da candidati fascisti, aveva vinto le elezioni dell’aprile 1924 conquistando una maggioranza di due terzi alla Camera. Ma la posizione di Mussolini era meno solida di quanto apparisse dall’esterno. L’opposizione aveva comunque ottenuto più di un terzo dei seggi in Parlamento, mentre nel listone fascista erano stati eletti anche numerosi liberali ed esponenti della destra storica, personaggi che non sarebbe stato impossibile separare dal fascismo. Anche se non era facile, un’opposizione parlamentare efficace al governo sembrava ancora possibile. Inoltre i governi dell’epoca rispondevano direttamente al Re, che poteva scioglierli a piacimento. Molti leader dell’epoca erano convinti che con una forte opposizione parlamentare si sarebbe riusciti a far cadere il traballante governo Mussolini.

Le opposizioni, però, faticarono a mettere insieme un piano comune, divise com’erano tra cattolici, socialisti, comunisti e liberali. Quando il 10 giugno Matteotti venne rapito (e ucciso, il suo corpo sarebbe stato trovato solo il 16 agosto) Mussolini diede una risposta debole, ma la maggioranza delle opposizioni decise di riunirsi mettendo in atto l’unico piano su cui si trovarono d’accordo. Il 26 di quello stesso mese, 123 deputati dell’opposizione decisero di non partecipare più ai lavori parlamentari fino a che i responsabili del delitto Matteotti non fossero stati processati. Si riunirono in una sala di Palazzo Montecitorio dove il leader dei socialisti Filippo Turati tenne un discorso che avrebbe dato nome al loro movimento: «Noi parliamo da quest’aula parlamentare mentre non v’è più un Parlamento. I soli eletti stanno nell’Aventino delle nostre coscienze, donde nessun adescamento li rimuoverà sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge sia restituito, e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta». Gli “aventiniani” non entrarono più nell’aula, nella quale rimasero, oltre ai fascisti, soltanto i comunisti e i deputati vicini all’ex presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il più prestigioso tra i leader politici dell’epoca e fermamente contrario all’Aventino.

Il governo Mussolini, che sembrava traballante, si riprese in fretta e, a partire dall’anno successivo, approvò rapidamente e senza ostacoli le cosiddette “leggi fascistissime”, quelle che reprimendo la libertà di stampa, vietando i partiti politici e introducendo il tribunale speciale, trasformarono il governo italiano in un regime autoritario. Per anni, durante il regime e dopo la guerra, la secessione dell’Aventino venne ricordata come un gesto nobile e disperato con cui gli ultimi leader dell’Italia Ottocentesca protestarono futilmente contro l’arrivo della dittatura fascista. Ancora nel 1948 la terza disposizione transitoria della Costituzione repubblicana, elaborata nei due anni precedenti, riconosceva ai sopravvissuti della scissione il titolo di senatori della Repubblica.

In anni più recenti, però, il giudizio sull’Aventino è mutato, assumendo quei connotati negativi che oggi gli sono immediatamente associati. Gli storici moderni – il primo fu probabilmente Renzo De Felice – si avvicinarono all’opinione che già Giolitti espresse all’epoca. L’isolamento e la protesta furono l’opzione più facile per l’opposizione dell’epoca, ma finirono per condannarla all’irrilevanza, facendole perdere quella che probabilmente fu l’ultima possibilità di fermare l’ascesa del regime.

L’uso che si fa oggi del termine “Aventino” è profondamente influenzato da questi sviluppi. I dirigenti del PD che sostengono di non voler fare l’Aventino, così come chiunque utilizzi questa espressione, intendono ricollegarsi proprio a questa tradizione. Quello che intendono dire è, quindi, che non vogliono favorire un esito negativo per il paese con la loro inazione, anche se questa è motivata da fini nobili e morali.