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  • Sabato 17 febbraio 2018

In Turchia la separazione dei poteri è saltata

Le sentenze della Corte costituzionale vengono ribaltate dai tribunali minori, il sistema giudiziario è in tilt: potrebbe diventare un problema anche per l'Europa

Recep Tayyip Erdogan (ADEM ALTAN/AFP/Getty Images)
Recep Tayyip Erdogan (ADEM ALTAN/AFP/Getty Images)

Mehmet Altan è un importante giornalista e opinionista turco, ha 65 anni e ieri è stato condannato all’ergastolo insieme a suo fratello Ahmet e a Nazlı Ilıcak: sono accusati di avere avuto legami con il predicatore Fetullah Gülen, cioè il principale avversario politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan e l’uomo che secondo il governo turco organizzò il tentato colpo di stato del luglio 2016. Mehmet Altan ha aspettato per mesi il suo processo, quando in realtà avrebbe dovuto essere liberato tempo fa: il mese scorso la Corte costituzionale turca, cioè il tribunale di livello più alto del paese, si era espressa sulle misure cautelari prese contro di lui e aveva ordinato la sua scarcerazione. La sentenza però è stata ignorata, in una mossa quasi senza precedenti. Quasi perché poco prima era successa una cosa simile a un altro intellettuale turco, lo scrittore Elvan Alpay, anche lui accusato di avere avuto a che fare con il tentato colpo di stato: la Corte costituzionale ne aveva ordinato la liberazione, ma un tribunale di grado inferiore aveva ribaltato la sentenza.

Legalmente non è possibile ignorare la sentenza di una Corte costituzionale, né ribaltarla tramite una decisione di un tribunale inferiore. Il problema è che in Turchia il sistema giudiziario è sotto l’influenza del governo, cioè del potere esecutivo: in altre parole la separazione dei poteri, principio su cui si basano i sistemi democratici, in Turchia è saltata.

I primi segni che qualcosa stava cambiando nel sistema giudiziario in Turchia si videro nei giorni immediatamente successivi al tentato colpo di stato del 2016, sventato nel giro di qualche ora dall’esercito turco e dalle forze fedeli al presidente Recep Tayyip Erdoğan. Da allora lo Stato turco ha ordinato l’arresto di decine di migliaia di persone, tra cui molti giornalisti e intellettuali, e il licenziamento di funzionari pubblici, soldati e insegnanti, tutti accusati di avere appoggiato il movimento creato in Turchia da Fetullah Gülen, che dal 1999 vive in esilio volontario in Pennsylvania, Stati Uniti. Gülen non è sempre stato nemico di Erdoğan: per diversi anni i due furono molto vicini, poi però le divisioni interne alle forze politiche più conservatrici e islamiste turche li portarono a un progressivo allontanamento, che si trasformò presto in aperta rivalità.

Gli sforzi di Erdoğan – l’ossessione, secondo alcuni – di smantellare la rete clandestina di Gülen in Turchia hanno mandato in tilt il sistema giudiziario nazionale. Un caso molto discusso di recente è stato quello del capo della sezione locale turca di Amnesty International, che dopo essere stato scarcerato da un tribunale è stato rimandato in prigione da un altro nel giro di poche ore. La stessa cosa era successa a 19 giornalisti arrestati la scorsa primavera: e i giudici che avevano deciso la scarcerazione erano stati poi messi sotto indagine.

Quello che è successo ad Alpay ed Altan, con il sostanziale azzeramento dei poteri della Corte costituzionale, è stato un ulteriore e più importante sviluppo rispetto ai casi precedenti, anche perché c’è il rischio che tutto questo diventi un enorme problema per l’Europa. Alpay e diverse altre persone si sono infatti appellate alla Corte europea dei diritti dell’uomo, un tribunale con sede a Strasburgo (Francia) che non c’entra niente con l’Unione Europea: fu istituito nel 1959 nell’ambito del Consiglio d’Europa, un’organizzazione che raggruppa praticamente tutti i paesi europei e qualche paese asiatico, incluse Russia e Turchia. Avendo accettato l’autorità della Corte europea, la Turchia si trova oggi obbligata a rispettarne le sentenze: in caso contrario potrebbe subire delle sanzioni dal Consiglio d’Europa, e nel caso più estremo potrebbe essere espulsa dall’organizzazione.

La Corte europea – che può essere tirata in ballo solo quando tutte le vie di ricorso interne sono esaurite – non si è ancora espressa sugli appelli presentati da Alpay e da altri cittadini turchi nella sua stessa situazione. L’Economist ha ipotizzato che potrebbe concludere che la Corte costituzionale turca sia stata svuotata di poteri e non sia più in grado di svolgere il suo ruolo. Una decisione di questo tipo potrebbe spingere decine di migliaia di persone in carcere in Turchia a presentare appello alla Corte europea, che sarebbe a quel punto obbligata a pronunciarsi su tutti i casi (o trovare un modo alternativo di occuparsene). Se la Corte europea dovesse inoltre considerare “illegale” la detenzione delle persone arrestate in via cautelare, la Turchia sarebbe obbligata a rispettare la sentenza e provvedere alle scarcerazioni. È difficile dire cosa potrebbe succedere a quel punto, anche se l’impressione oggi è che il governo turco non sia disposto a fare passi indietro.

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