Otto grandi canzoni dei Jethro Tull

Da riascoltare oggi che Ian Anderson – quello col flauto – compie 70 anni

Ian Anderson, frontman e fondatore dei Jethro Tull, in una foto scattata nel 1971 (Burghardt Lochow/picture-alliance/dpa/AP Images)
Ian Anderson, frontman e fondatore dei Jethro Tull, in una foto scattata nel 1971 (Burghardt Lochow/picture-alliance/dpa/AP Images)

Oggi compie 70 anni Ian Anderson, che nacque a Dunferminline, in Scozia, il 10 agosto del 1947, crebbe a Edimburgo e poi si spostò a Blackpool, in Inghilterra, dove fondò una band a cui diede il nome dell’agronomo che inventò la prima seminatrice meccanica, Jethro Tull. Anderson è polistrumentista (sa suonare armonica a bocca, chitarra elettrica, basso, sassofono, tastiere, percussioni, organo Hammond, trombone e violino) ma la sua immagine come frontman dei Jethro Tull è legata al flauto, che Anderson suona in equilibrio su una gamba sola.

Queste sono le otto canzoni dei Jethro Tull che aveva scelto Luca Sofri, peraltro direttore del Post, per il suo libro Playlist.

Jethro Tull (1967, Blackpool, Inghilterra)
Erano quelli col flauto. Che vi sembrerà poco, come indicazio
ne, ma di grandi bands nell’età d’oro del rock che avessero co
me frontman uno che suonava il flauto – come nell’ora di musica alle medie – non ce n’erano molte. Ma furono anche gli
unici a mescolare folk e musica celtica con un rock duro per
quei tempi (arrivarono a vincere, già negli anni Ottanta, un Grammy per la sezione heavy metal: ma i fans dell’heavy metal 
si arrabbiarono).

A song for Jeffrey

(This was, 1968)
Jeffrey Hammond, ribattezzato per scherzo “Jeffrey Hammond-Hammond”, era a scuola con Ian Anderson, che lo tirò dentro la band quando se ne andò il primo bassista. Citato nel titolo di diverse canzoni, a cominciare da questa, si rese pubblicamente noto per l’abito di scena a strisce bianche e nere, che bruciò quando lasciò la band.

Bourée

(Stand up, 1969)
Fa un po’ ridere, a sentirla ora, ma è una melodia memorabile. Era Bach, e loro ne fecero questo divertissement con divagazioni che passano dal progressive rock al quasi jazz.

Aqualung
(Aqualung, 1971)
“Tata-tata-ta… ttà!”. Sei minuti e mezzo, il loro pezzo più celebre. L’idea della canzone e del disco venne dalla foto di un barbone scattata da Jennie, la moglie di Ian Anderson, il quale voleva spiegare il casino di sentimenti di colpa, rimozione, paura e anche ammirazione, che lo avvolge alla vista di un senza tetto. Alla fine, però, l’immagine sulla copertina del disco che dovrebbe ritrarre il personaggio di Aqualung somiglia soprattutto ad Anderson stesso.

Wond’ring aloud

(Aqualung, 1971)
Poi sapevano fare anche delle canzoni normali, tranquille, voce e chitarra, e un po’ di pianoforte. Però dopo arriva qualche arco in sottofondo, e allora uno comincia a preoccuparsi, ma prima che sia troppo tardi la canzone finisce, neanche due minuti. Chissà cosa avevano, quel giorno lì. Bella, bravi.

Living in the past

(Living in the past, 1972)
L’inizio è fantastico, pare la colonna sonora di un cinegiornale sulla dolce vita a via Veneto. Poi diventa più eccitato, e prende in giro i pretesi rivoluzionari dell’epoca e i tempi fricchettoni su cui Anderson ha sempre avuto da ridire. Un giorgiobocchista ante litteram, innamorato dei bei vecchi tempi andati e sdegnato dall’abuso di droghe nelle band coeve.

Life is a long song

(Living in the past, 1972)
La vita è una lunga canzone, sta’ allegro, non ti preoccupare, che tutto va bene, trallalero, la vita è una lunga canzone e guarda che la vita è una lunga canzone e che bello che bello che bello…
“Ma finisce troppo presto per tutti”. E allora vaffanculo.

Thick as a brick

(Thick as a brick, 1972)
Nel disco era una canzone sola, spartita sui due lati in parte uno e parte due, per un totale di quarantaquattro minuti. Ne fecero un singolo di sei minuti tagliandone un pezzo, e venne fuori una cosa piuttosto discontinua ma molto Jethro Tull. Il titolo, comunque sta per “duro di comprendonio”, ma è più efficace letteralmente: “scemo come un mattone”.

The whistler
(Songs from the wood, 1977)
La dura vita di un suonatore di flauto di estrazione rurale: per sei giorni, giumente da badare e spesa al mercato. Poi, la domenica, a suonare.