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  • Lunedì 17 luglio 2017

E se li facessimo entrare tutti?

L'Economist si chiede cosa succederebbe se abolissimo tutte le frontiere del mondo, spiegando che da un punto di vista economico sarebbe un successo

(Lena Klimkeit/picture-alliance/dpa/AP Images)
(Lena Klimkeit/picture-alliance/dpa/AP Images)

Ogni anno, la serie di articoli “The World if” (“Il mondo se”) del settimanale Economist raccoglie una serie di scenari ipotetici sul futuro del mondo a breve-medio termine. Quest’anno, l’Economist ha provato a immaginarsi come sarebbe il mondo se Trump vincesse per la seconda volta le elezioni, se venisse inventata la clonazione umana e se l’Impero Ottomano non fosse mai crollato. Gli articoli di questa serie sono spesso esagerati e provocatori, come quello in cui il giornale prova a domandarsi cosa accadrebbe se i confini politici del mondo venissero del tutto aboliti.

Il mondo, scrive l’Economist, diventerebbe più ricco, immensamente più ricco: si produrrebbero ogni anno 68 mila miliardi in più di PIL, abbastanza da sommergere di denaro qualsiasi problema od ostacolo che dovesse sorgere sulla strada dell’apertura delle frontiere. La ragione di questo aumento di ricchezza è semplice: spostandosi da un paese in via di sviluppo a uno sviluppato, un lavoratore moltiplica la sua produttività: «Chi prima lavorava la terra con un aratro di legno ora guida un trattore», riassume l’articolo. In altre parole: qualsiasi lavoro rende e produce di più se fatto in un paese sviluppato, invece che in uno con governi e infrastrutture che non funzionano. Un economista citato dal settimanale ha riassunto così la questione: «Dal punto di vista economico non ha senso che qualcuno lavori in Nigeria». Qualsiasi lavoro tu faccia, infatti, renderà di più se lo fai in un paese sviluppato.

Ma quanta gente si sposterebbe, se le frontiere di tutto il mondo venissero dichiarate aperte? Le stime sono piuttosto complicate da fare, ma basandosi su un sondaggio fatto da Gallup, una delle principali società di rilevazione mondiali, l’Economist dice che si sposterebbe circa il 10 per cento della popolazione mondiale, 600 milioni di persone, anche se il settimanale ammette che sia una stima soltanto indicativa. Ci sono sia motivi per stimare numeri più bassi, sia ragioni per immaginarne di più alti: in ogni caso, è probabile che nel giro di qualche decina d’anni, se venissero aperte tutte le frontiere si assisterebbe allo spostamento di un numero di persone compreso tra alcune centinaia di milioni e più di un miliardo.

Sono le conseguenze dello spostamento di questa immensa massa di umanità a spaventare di più gli abitanti del mondo sviluppato, timorosi che un simile afflusso possa cambiare rapidamente il sistema politico e culturale dei paesi accoglienti, portando anche a un aumento della criminalità e del terrorismo. Ma questi timori, secondo l’Economist, sono in gran parte esagerati. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli immigrati sono meno propensi al crimine rispetto alle persone che vivono da tempo nel paese. In Europa, dove invece la situazione è invertita (i migranti commettono in proporzione più reati degli abitanti locali), la ragione è dovuta soprattutto al fatto che i migranti sono giovani e maschi, cioè la fascia di popolazione che più facilmente completerà il lungo e pericoloso viaggio dai loro paesi di origine a quelli più sviluppati. Se le frontiere fossero aperte e i viaggi più semplici, a muoversi sarebbero in percentuale maggiore famiglie e persone più mature, diluendo così l’impatto sui tassi di criminalità. Infine, ci sono diversi studi che mostrano come il rischio di terrorismo dovuto all’immigrazione non sia davvero concreto: anzi, la crescita economica che comporterebbe l’immigrazione potrebbe funzionare da argine a questo tipo di fenomeno.

L’Economist ammette comunque che aprire le frontiere di tutto io mondo potrebbe anche avere altre conseguenze. Ad esempio, diversi studi indicano che, almeno nel breve periodo, l’arrivo di migranti comprimerebbe i salari dei lavoratori dei paesi sviluppati che hanno competenze più basse. Persone provenienti da paesi con valori politici e culturali diversi potrebbero invece sconvolgere il sistema politico della loro destinazione: ad esempio, è uno dei timori più diffusi, votando in massa per nuovi partiti islamisti. Il fatto che il paese che ha avuto la maggior immigrazione nel corso degli ultimi due secoli, gli Stati Uniti, sia rimasto un paese sviluppato, e anzi, si attualmente il più ricco e stabile al mondo, non è di per sé un’assicurazione che l’immigrazione di massa porti sempre a risultati positivi.

Ma questi problemi, secondo il settimanale, possono essere aggirati utilizzando qualche soluzione creativa. Se il timore è che i migranti possano sconvolgere il sistema politico dei paesi di destinazione, allora proibiamogli di votare per cinque, dieci anni oppure per tutta la vita, scrive l’Economist. Se la paura è che l’impatto del loro arrivo sia troppo costoso nel breve termine, allora alziamo i prezzi dei visti per entrare nei nostri paesi, oppure creiamo tasse solo per gli stranieri o impediamo loro l’accesso a parte dello stato sociale.

Sono tutte soluzioni dure, spiacevoli e ingiuste, scrive il settimanale, ma che sono pur sempre migliori della situazione attuale, in cui centinaia di milioni di persone sono escluse dai mercati del lavoro più ricchi o, per ottenerne l’accesso, sono costrette ad affidarsi a trafficanti di esseri umani che fanno pagare migliaia di euro i loro pericolosi viaggi. La dimostrazione che anche a queste severe condizioni la migrazione è spesso un’alternativa allettante la troviamo nei paesi del Golfo, dove milioni di immigrati lavorano nonostante non godano di alcun diritto politico, né di alcun tipo di stato sociale.

Il punto, secondo il settimanale, è rimanere concentrati sulla ricchezza che il lavoro di milioni di stranieri può generare. La domanda che ci dovremmo porre non è «Come evitare l’immigrazione?», ma bensì: «C’è una torta da 68 mila miliardi di euro da spartirsi, come può fare il mio paese ad averne una fetta senza pagare un prezzo troppo caro?».