Il blackout di New York del 1977

Tra il 13 e il 14 luglio di quell'anno quasi tutta la città rimase al buio, in una notte di saccheggi che contribuì tra le altre cose a cambiare la storia dell'hip hop

Due uomini trasportano un mobile rubato a Brooklyn. (AP Photo)
Due uomini trasportano un mobile rubato a Brooklyn. (AP Photo)

La sera del 13 luglio 1977 i dj newyorkesi Grandmaster Caz e Disco Wiz stavano suonando in un parco del Bronx. Improvvisamente il piatto su cui stavano girando i loro dischi in vinile cominciò a rallentare, fino a fermarsi. I due pensarono subito di aver fatto saltare l’elettricità con la loro attrezzatura, e cominciarono ad affannarsi con bottoni e spine per farla tornare. Poi, dalla parte opposta della strada, le saracinesche di un negozio andarono giù di scatto. I lampioni si spensero uno dopo l’altro, in fila. Qualcuno cominciò ad urlare “blackout!”, e la gente cominciò a correre, tra rumori di bottiglie spaccate e cori che invitavano a saccheggiare i negozi.

Un sacco di gente cominciò a correre verso la postazione di Caz e Wiz, che in tutta risposta tirarono fuori le pistole, invitando le persone ad andare nella direzione opposta. Poi Caz disse a Wiz di rimanere a sorvegliare l’attrezzatura, perché lui aveva un posto e un oggetto in mente: il negozio di elettronica “Sound Room”, e il mixer Clubman Two-Two. Aiutò a forzare l’entrata e si intrufolò dentro, lo prese e se lo portò via. Ne aveva bisogno, per fare il dj, ma come tutti gli altri giovani che facevano quella musica che sarebbe diventata l’hip hop non aveva i soldi per comprarlo, e usava attrezzatura di recupero, messa insieme frugando nella spazzatura e barattando cose. Non voleva saccheggiare: prese solo quel mixer. Non tutti fecero come lui.

Quella notte quasi tutta New York rimase senza elettricità. Intorno alle otto e mezza di sera un fulmine aveva colpito una centrale elettrica a Buchanan, qualche decina di chilometri a nord di Manhattan, lungo il fiume Hudson. La corrente – quella che arrivava fino a New York – venne automaticamente deviata su un’altra linea, in un’operazione piuttosto normale. Poi però arrivò un secondo fulmine, che danneggiò le linee elettriche e le fece spegnere. Quelle rimaste attive si sovraccaricarono, interrompendosi a loro volta e lasciandone sempre meno in funzione, ad alimentare la città più illuminata del pianeta. La società che si occupava della fornitura elettrica di New York fece dei guai provando a mettere una pezza al disastro, finché alle nove e mezza Big Allis, l’enorme generatore nel Queens, il più grande della città, si spense, e con lui quasi tutta New York.

La città non era nel suo periodo migliore. Il Bronx, il distretto a nord di Manhattan, in certi giorni sembrava una zona di guerra: ogni giorno c’erano decine di incendi, causati soprattutto da persone che volevano fregare le assicurazioni. Camminando per le strade si incontravano continuamente isolati completamente distrutti di cui erano rimaste soltanto le macerie. L’estrema povertà, le violenze quotidiane tra gang criminali, la diffusione della droga erano problemi che interessavano anche altre zone della città, come Brooklyn, il Queens e Harlem. New York arrivava da una grave crisi fiscale cominciata un paio di anni prima, che aveva aggravato un momento di crisi economica generale degli Stati Uniti. Nel Nord Est degli Stati Uniti faceva caldissimo, in quei giorni, ed era ancora libero “il Figlio di Sam”, cioè il nome con cui era conosciuto David Berkowitz, un serial killer che tra il 1976 e il 1977 uccise sei persone e ne ferì otto a New York, perché – disse poi – glielo aveva ordinato un demone.

Quando la luce andò via, quella notte, nelle zone più povere della città ci fu il caos. Le persone capirono lentamente quello che stava succedendo, e cioè che l’elettricità non mancava solo nel loro palazzo o nella loro strada, ma in tutta la città. Molti di quelli che lo capirono rimasero barricati in casa, per paura delle violenze che presumibilmente si sarebbero sviluppate per le strade. Ma molti altri uscirono di casa e si misero a svaligiare supermercati, centri commerciali, negozi di liquori, gioiellerie, addirittura banche. La polizia non sapeva cosa fare: le volanti che erano già di pattuglia e quelle che si misero sulle strade dopo aver capito la gravità della situazione si ritrovarono in mezzo a migliaia e migliaia di persone che trasportavano televisioni, condizionatori, stereo, mobili, buste di soldi rubati. Non c’era un protocollo per una situazione così fuori dall’ordinario, e i poliziotti fecero l’unica cosa che venne loro in mente: arrestarono quelli che riuscivano, due o tre per volta, gli sfortunati che si ritrovavano vicini. Insieme a loro caricarono sulle volanti gli oggetti rubati, a volte nel bagagliaio e a volte sulle ginocchia degli stessi arrestati. Qualche saccheggiatore fu addirittura caricato nei bagagliai delle auto e portato alla centrale più vicina.

Gli arresti furono in tutto circa quattromila. Non c’era posto nelle prigioni, e si dovette riaprire The Tombs, una prigione nel sud di Manhattan chiusa da diversi anni, dove gli arrestati vennero rinchiusi in celle senza materassi e infestate dai ratti. 1600 negozi furono saccheggiati, ci furono più di mille incendi, per un totale di oltre 300 milioni di dollari, secondo uno studio ordinato poi dal Congresso. Gli aeroporti LaGuardia e JFK furono chiusi per otto ore, così come i principali tunnel che rimasero senza impianto di ventilazione. Migliaia di persone furono fatte evacuare dalle metropolitana, quasi tutte le reti televisive che trasmettevano da New York interruppero le trasmissioni, tranne qualcuna che riuscì a riprenderle alimentando gli studi con generatori portatili. Fu interrotta anche una partita di baseball tra i New York Mets e i Chicago Cubs allo Shea Stadium.

Abe Beame, sindaco della città da tre anni, subì un danno di immagine gravissimo, e fu sconfitto alle elezioni di quell’anno dal Democratico Ed Koch, che fece ampiamente leva sul blackout in campagna elettorale. Il mattino dopo in molti si chiesero quanti cadaveri sarebbero stati ritrovati per le strade, ma sorprendentemente per chiunque, nessuno morì per i saccheggi e le rivolte di quella notte.

Da qualche anno nel Bronx, il distretto di New York più povero e degradato, alcuni ragazzi, principalmente afroamericani, avevano iniziato a sperimentare cose nuove da fare con i giradischi, prendendo vecchie canzoni funk e soul e mixandole insieme in modo da fare ballare la gente alle feste con una musica che appartenesse alla loro cultura, diversa da quella patinata che si ballava nelle discoteche dei bianchi. Gente come Grand Wizzard Theodore, Kool Herc e Grandmaster Flash stavano facendo cose che nessuno aveva mai fatto, facendo suonare senza interruzioni e ripetutamente quei pezzi di canzoni in cui si sentivano soprattutto batteria e basso – i beat, come venivano chiamati – e trasformandole in una musica nuova e mai sentita. Negli anni successivi, un po’ per caso un po’ per riempire i buchi, qualcuno avrebbe iniziato a cantarci sopra delle frasi rivolte al pubblico delle feste: negli anni successivi i Master of Ceremonies (cioè gli MC, i rapper) sarebbero diventati una figura centrale in quel nuovo genere musicale che stava nascendo nel Bronx, trasformando l’hip hop da musica del ghetto a fenomeno mainstream.

Per molti versi, però, c’erano più ostacoli tra il voler diventare un dj e il voler diventare, per esempio, un chitarrista. Oltre al doversi approcciare con uno strumento che stava praticamente venendo inventato in quel momento, c’era il problema che l’attrezzatura necessaria era tanta e costosa, e di solito chi se la voleva procurare era molto povero. Quella notte moltissimi giovani afroamericani, subito dopo aver capito quello che stava succedendo, si fiondarono nei negozi di elettronica per rubare mixer, giradischi, casse, cuffie, microfoni e tutte le attrezzature di cui avevano bisogno per fare la musica che volevano fare, ma che non potevano permettersi. Lo stesso Grandmaster Caz, che fu una delle persone più importanti per la nascita dell’hip hop, ha raccontato che «si potevano vedere le differenze tra prima il blackout e dopo». Prima di quel giorno, a New York c’erano probabilmente quattro o cinque veri gruppi di dj: dal giorno successivo cominciarono a nascerne di nuovi, perché quelli che fino a quel momento avevano passato le serate a osservare i pochi che possedevano l’attrezzatura ora ne avevano di propria.

Non si sa di grandi nomi dell’hip hop che si siano procurati la propria prima attrezzatura quella notte, ma la storia delle origini del genere è fatta di decine di dj e MCs che non ricordiamo ma che furono fondamentali per la diffusione di quella musica nuova. Chi rubò l’occorrente per mettere in piedi una postazione da dj, quella notte, diventò immediatamente membro di un’élite, e cominciò a suonare alle feste nei saloni ai piani terra dei palazzi del Bronx e pian piano anche di Brooklyn e del Queens, dove impararono le basi del genere e si formarono tutti quelli che negli anni Ottanta avrebbero dato forma a quello che oggi conosciamo come hip hop. Spesso è difficile distinguere le storie del genere da miti e leggende: principalmente perché avvennero in un posto e in un periodo in cui non c’era nessuno per documentarle. La maggior parte delle cose che sappiamo oggi le sappiamo perché le hanno raccontate oralmente quelli che le vissero in prima persona: e le raccontano dicendo un po’ quello che vogliono, come ha fatto Grandmaster Caz la storia del blackout di New York che cambiò l’hip hop, la notte tra il 13 e il 14 luglio del 1977.